ambivalenza dello stupro

Si poteva pensare che i tempi fossero maturi per catalogare la violenza sessuale tra gli atti di barbarie del passato e che denunciarne l’ampiezza, l’offesa alla dignità della donna, la matrice antropologica, le molteplici connivenze sociali, fosse una battaglia vinta in partenza. Non è affatto vero, e non soltanto per i sedimenti patriarcali del mondo maschile, ma anche per le ambivalenze e le scissioni delle donne su quest’argomento.

marzo 1981

Con la fuga di Guido dal carcere di San Gimignano, si sono aperti confronti su più versanti. Sulla corruttibilità e la mancata protezione del cittadino da parte della giustizia, ci si è trovati tutte facilmente d’accordo. Meno decifrabile la reazione maschile in questa fase di riacutizzazione del problema. Inquietante l’analisi delle donne di fronte alla violenza sessuale.
Vediamo cosa è successo dalla fuga di Guido in poi nelle riunioni tra noi e all’esterno.
Accoglienza contrastata al sit-in di protesta sulla piazza di San Gimignano: i presenti erano quasi tutti uomini — come sempre accade nei centri di provincia — che facevano cenni d’assenso agli slogan sulla vendibilità dei trattamenti di favore e della libertà dei detenuti, ma assumevano atteggiamenti impenetrabili di fronte alle accuse precise contro il maschio.
Prendevano le distanze come se la cosa non li riguardasse, pronti all’irrisione per le parole dure che venivano dette da queste donne «diverse» che erano le femministe, da ascoltare più come spettacolo che come portatrici di un’accusa reale. La gentilezza delle poche donne presenti, fatta di sguardi e di mezzi sorrisi, rivelava, sì, comprensione per il discorso che si andava facendo, ma anche, in quella cautela, mostrava la rassegnazione a non poter rendere più esplicita l’intesa, del resto generica.
Un gruppo di ragazzotti si è schierato intorno al sit-in e ha dato il via alle provocazioni: «Puttane», «Tornate a casa a far la calza», «Sì, siamo tutti stupratori». Sono volati alcuni sassi e fialette puzzolenti. Il corteo delle femministe, sulla strada del ritorno, passava tra due, alidi uomini divertiti, ben lontani da qualsiasi partecipazione. Dall’altra parte veniva una squadra di majorettes ingaggiate per il carnevale: sfilava impettita in calze nere velatissime e mezzi glutei di fuori. E’ bastato che una del corteo dicesse: «Ma non moriranno di freddo?». Un uomo si è avventato su di lei sputando insulti e l’avrebbe picchiata se non si fosse intromesso un vigile. L’uomo è stato denunciato.
Dunque: chi ha ascoltato la protesta delle donne sulla piazza, ha fatto di tutto per difendersi dal messaggio; estraniandosi o assistendovi come a un fatto di colore, o col disprezzo.
E’ forse diverso il comportamento degli uomini acculturati, politicizzati, di sinistra? Sicuramente dedicano al tema alcune frasi di solidarietà: usano guinzagli più lunghi purché si continui a girare nel loro territorio.
Il corteo indetto dalle autonome, che voleva essere misto, si è mostrato penosamente composto di donne e uomini in un rapporto di una a venti. Non è cambiato molto da quando i “Lotta. Continua” picchiavano le loro compagne in corteo per l’aborto. L’estrema sinistra ricalca il vecchio percorso politico che fu già della sinistra istituzionale e che per decenni ha dato ottimi risultati, finché le donne stesse che vi appartenevano non lo hanno contestato e se ne sono dissociate: la politica di includere le tematiche di liberazione della donna negli obiettivi della rivoluzione futura, rimandando l’affrancamento di tutti gli oppressi al giorno della morte del capitale.
La sudditanza politica delle donne di “Autonomia” è apparsa in tutta la sua continuità in uno scontro al Governo Vecchio con le femministe di altre tendenze, a proposito delle iniziative da prendere per la fuga di Guido. In interventi esagitati e interminabili da co; inizio, hanno affermato che «lo stupro è di classe», che proprio l’episodio del Circeo confermava il diritto dei ricchi e dei potenti di abusare delle proletarie. E continuavano rifiutando qualsiasi discorso sulle pene detentive, sulla sicurezza delle carceri, perché nelle carceri «s’imprigionano i nostri compagni».
E’ stato inutile ricordare i numerosi stupri proletari avvenuti in questi tempi, la diffusione degli incesti nelle campagne, le borghesi vittime della violenza; inutile ricordare l’incidenza notevole delle handicappate nella scelta dei soggetti da stuprare, che la dice lunga sul significato — certo non politico, ma psicoanalitico — della violenza; o delle componenti di impotenza e omosessualità che sono alla base dello stupro di gruppo. Il discorso delle pene alternative da comminare e delle carceri da abolire richiede certamente una riflessione per il futuro, che il Movimento ha già iniziato. Ma l’urgenza pressante dovrebbe portare a esprimere un’opinione non proiettata, sui tempi lunghi, ma sull’assetto attuale della giustizia: la legge c’è e il carcere pure, sottostiamo alle leggi ogni giorno in ogni nostro atto e ne paghiamo le conseguenze. La necessità immediata è apparsa dunque quella di portare la violenza maschile in ogni sua manifestazione al livello di esecrazione che prima culturalmente non aveva, e l’unico mezzo era quello appunto di far pagare chi la commetteva, come per gli altri reati, affinché ne fosse scoraggiata la diffusione attraverso l’impunità.
E ci si è mosse in questo senso, pubblicizzando i casi di stupro, chiedendo la costituzione di parte civile del Movimento, i processi a porte aperte; si sono ottenuti risarcimenti di decine di milioni che nessuno prima si sarebbe sognato (una pena alternativa se ci si libera dell’immagine moralistica della donna che «si vende»).
Eppure, mai come intorno al problema della violenza sessuale, in questo e in altri incontri, si è sentito un coro così convinto per l’abolizione delle pene detentive.
E allora è necessario vedere fino a che punto questa «coscienza civile» non sia ambivalenza, fino a che punto certe proteste siano state teorie rivendicative non penetrate, ma solo sovrapposte a un tessuto antichissimo di condizionamenti che per millenni hanno portato all’accettazione della prepotenza e del sopruso dell’uomo.
E necessario capire come sia possibile per queste ragazze non aver memoria di feroci liti familiari, delle «mani morte» negli autobus, dei bar di periferia dove un pubblico di soli uomini le guarda passare, soppesandole, dei rapporti predatori che hanno subito.
Evidentemente non vogliono ricordare, se parlano di «stupro di classe».
L’autocoscienza ha rivelato molte cose. Per esempio, la delusione di molte donne per il partner che k< non insiste» di fronte a un loro rifiuto al rapporto. Il suo rispetto — richiesto a gran voce in questi armi — in realtà è ancora vissuto come scarsa virilità da parte di lui, o come propria incapacità di seduzione. Se non insiste, non c’è alibi alla sottomissione, che è ruolo di tutto riposo, perché» è «conosciuto e non. c’è nulla da inventare. In alcune scuole, gruppi di studentesse hanno dichiarato in autocoscienza che a loro piace essere picchiate e essere prese con la forza. E’ l’immagine di un ‘padrone perduto che non si è ancora riuscite a sostituire con un compagno? E’ l’angoscia di dover decidere comportamenti di cui non abbiamo sicurezza e che negli ultimi anni non ci hanno dato risultati positivi? E’ il riflusso diffuso che ci fa tornare indietro per non affrontare la prova snervante di lunghi impegni esistenziali? E’ l’intransigenza che ci siamo richieste agli inizi, che ci ha derubato della gradualità necessaria per adeguarci a un nuovo costume?
Resta comunque inquietante questa forma di autocoscienza che non è più strumento di analisi e di crescita, individuazione di antichi retaggi e tentativo di superarli, ma solo denuncia di bisogni che chiedono soddisfazione e perdono. Un parlare intorno al proprio stato di immobilità. In queste condizioni, percorrere una strategia propria abbandonando alla loro i propri partner, riesce difficile alle ragazze. Forse perché, data l’età giovanissima, hanno ancora integro il sogno dell’amore totalizzante e non hanno avuto il tempo di subire quanto serve ad averne abbastanza.
E si scoprono una volta di più le scissioni tra le affermazioni ideologiche e la capacità di viverle fino in fondo. Si ricade nell’insinuante forma di sottomissione politica che maschera una dipendenza reale dietro parvenze di un attivismo marginale.
La persuasione maschile usa una sua colpa: la violenza, come strumento a vantaggio delle sue teorizzazioni politiche e ne rende complici le donne: «no la galera agli stupratori, perché dalla galera vogliamo liberare i nostri compagni».
«Consenso», «autodeterminazione», sono ancora un lusso culturale. Un tartufo di cui non si può sentire la mancanza nelle pietanze, quando non se ne conosce il sapore.