autocoscienza pubblica

febbraio 1977

un altro dato importante, è quello della castrazione che abbiamo subito — come donne — nei riguardi del nostro privato, riaffiorato nell’analisi fatta assieme alle altre compagne, soprattutto constatando la difficoltà a tirar fuori quei versi che riguardavano il nostro personale; ci ha portato a chiedere a Radio Radicale, nello spazio del Fuori, un’ora la settimana per fare «pubblicamente» autocoscienza, proprio per rompere il tabù del segreto, del mistero e della vergogna che ha sempre circondato questo problema. Saremmo circa dieci compagne complessivamente, delle quali almeno due si definiscono «eterosessuali», ma che hanno la funzione di gruppo di controllo e di confronto.
La trasmissione è comunque aperta a chiunque volesse partecipare telefonicamente. Le compagne comunque telefonano in maniera molto minore che in altri tipi di trasmissione, e quando telefonano, tengono a chiarire che non sono omosessuali.
Delle partecipanti fisse, alcune appartengono al Fuori donna, altre ai vari movimenti femministi. All’inizio credevamo — con la difficoltà che c’è ad esprimerci in tutti i gruppi d’autocoscienza anche «privati» — che parli pure attraverso la radio ci avrebbe inibito mentre al contrario si è trattato di un fatto doppiamente liberatorio: il non doversi più nascondere, il poter parlare finalmente di ciò che si è, ha ampliato ed accelerato la voglia di manifestarci, l’accettazione del proprio vissuto.
Ci interessava anche che molte altre compagne ci sentissero, e ci sembrava di poter aiutare anche loro, dando l’impressione che di questi problemi si potesse parlare, rompendo quel muro di omertà e di silenzio che menzionava appunto Luisa.
Per alcune di noi insomma è stata più proficua di altre autocoscienze compiute all’interno di quattro mura, anche dal punto di vista dei chiarimenti e dei problemi che vanno via via emergendo. È chiaro che alcune sono rimaste chiuse: non tutte hanno gli stessi tempi di apertura. Esiste addirittura gente che viene al Fuori, senza avere nemmeno il coraggio di definirsi come omosessuale, e trovando per la sua scelta altri tipi di spiegazioni. Naturalmente queste persone si guardano bene dal metter piede ad autocoscienza.
Altre che riuscivano ad apparire come erano nell’ambito del Fuori o dei movimenti femministi, in mezzo a gruppi di amici «etero», erano inibite nei loro comportamenti.
Un dato comune che si verifica abbastanza frequentemente è quello di un incontro importante avvenuto fra donne che fino a poco tempo prima avevano rimosso il loro lesbismo, almeno come fatto coinvolgente. In questi casi è successo spesso, che anche se il rapporto avrebbe potuto prolungarsi in maniera creativa e soddisfacente a molati livelli, non sono riuscite a rimanere insieme, perché non sopportavano la loro situazione non solo nell’ambito sociale, ma anche a causa dei tabù ed i divieti tuttora vivi in loro. Si è dato anche il caso di persone che si riconoscevano come omosessuali, dicendo di non aver mai avuto alcun problema in merito, e dopo alcune autocoscienze, riconoscevano d’aver completamente rimosso il ricordo dei loro primi rapporti lesbici!
Vorrei qui ricollegarmi all’inizio dell’articolo di Luisa: «Una donna omosessuale vive nel timore costante di essere riconosciuta, non solo da chi detiene un potere su di lei — padre, datore di lavoro, superiore gerarchico — ma anche dalle persone a cui è legata da rapporti di stima e d’amicizia: «il lesbismo diventa la chiave, l’unica chiave di interpretazione della sua personalità».
Ora, in questa autocoscienza per radio, non solo si rompe «la cappa del silenzio a cui la cultura patriarcale ha condannato l’omosessualità femminile», ma le nostre personalità ci appaiono in tutte le sfaccettature, non dissimili da quelle’ delle due compagne etero che sono sempre presenti. «Il che dimostra un’altra cosa: la personalità lesbica non è una personalità particolare come finora avevano voluto farci credere, per bollarla in senso patologico». Neppure i problemi dell’infanzia, o i problemi che la lesbica ha avuto con una «cattiva» madre, sono suoi specifici, ma fanno parte dell’oppressione creata nei riguardi di ogni donna. Può essere particolare semmai la maniera di ritrovare il proprio specifico femminile; attraverso un incesto non più figurato — come avviene ad esempio quando si è in analisi’ con una psicologa donna — (e gli analisti spesso consigliano ad una donna l’analisi con un’altra donna, per quel tanto di identificazione positiva che si può creare), ma attraverso un «incesto» concreto e molto più coinvolgente a tutti i livelli.
La Brunswick afferma che la donna è costretta ad una rimozione totale della sua sessualità pre-edipica (quella relativa al suo rapporto con la madre), come forse attuano solo i nevrotici più gravi (5).
Riappropriarsi anche di questa sessualità, vuol dire — a mio avviso — non interrompere il flusso della propria vita, là dove fa comodo al sistema, e quindi significa superare la propria nevrosi.
Volevo solo aggiungere che mi farebbe molto piacere se alcune compagne in altre città volessero fare l’esperienza di un’autocoscienza per radio, non solo per confrontarla con la nostra, ma per muoversi al di fuori di quella ghettizzazione e di quel silenzio che non sono una risposta politica, e tentando di occupare degli spazi che non sono più quelli proposti dal potere.

 

(5) Mack Brunswick «The proedipical phase of the libido development» in ine psycoanalytic reader, New York