essere donna è bello, ma…

le riflessioni di una profuga politica cilena a partire dal suicidio di Beatriz Allende.
Una donna, una compagna e il suo mutamento a contatto con la realtà europea.

dicembre 1977

è abbastanza difficile scrivere su una cosa così importante com’è la morte… ed è più difficile ancora scrivere sul suicidio di una donna, di una compagna, che tra l’altro per il suo ruolo storico di figlia non poteva forse scaricare o addirittura far vedere le sue angoscie, le sue insicurezze, le sue paure, che la portarono al crollo totale. In questo caso, in particolare la stampa e i dirigenti politici-amici della figlia di Salvador Allende hanno parlato del coraggio accanto al padre in questa o quest’altra vicenda, e che aveva sempre saputo stare insieme a lui nei momenti più essenziali delle loro vite. Ma di lei, di Taty donna quasi nessuno ha parlato. Arriverei anche a dire che, in questo caso tutti hanno dimenticato il suo personale, anche se secondo me il politico è sempre personale. Direi che adesso — magari perché s’intrecciavano tanto — il politico ha fatto dimenticare il personale. Non parlerei nemmeno in questo articolo del suo personale che non conosco, ma vorrei invece riflettere un po’ sulla nostra situazione di emarginazione che viviamo ogni giorno, che non è certo diversa da quella della donna italiana o francese nella sua sostanza ma che ha una propria specificità.
Noi donne abbiamo vissuto l’esperienza cilena e abbiamo partecipato in maniera dinamica a tutto ciò, ma non avevamo coscienza di cosa volesse dire essere donna: Certo, una donna è stata nostra ambasciatrice nel Viet Nam ed un’altra nell’organo esecutivo più importante della Corporazione del rame. Se si parlava di «liberazione» della donna la si intendeva sempre dentro il contesto socio, politico, economico culturale del Cile e dell’America Latina e i suoi schemi già stabiliti. Per esempio alle operaie di una grossa fabbrica tessile si vendeva a basso prezzo cibo già preparato, pronto per portare via: ricordo una intervista che feci a loro. La risposta — a me allora sembrò valida — di tutte o la maggior parte di loro è stata che sembrava un’ottima idea perché così quando arrivavano a casa non dovevano cucinare e potevano «fare altre cose, perché a casa sempre bisogna fare qualcosa». E più in là non arrivava la nostra analisi sulla nostra liberazione. Eppure in Cile, come donne eravamo le più liberalizzate nel contesto latinoamericano.
Perciò penso che sarebbe magari più costruttivo parlare un po’ di noi donne storicamente emarginate, profughe politiche, quindi soggette ad un’altra emarginazione. Con tutto ciò parlerò soprattutto delle donne sudamericane profughe che abitano nei Paesi dell’Europa Occidentale ove cominciano a sentire ed a vivere una nuova realtà: avere la coscienza di essere donna e vivere come tale con tutte le proprie contraddizioni: donna e militante, donna e profuga, insomma, donna emarginata.
Quando parlavo dell’emarginazione di donna profuga pensavo a tutte noi che ci siamo viste costrette a vivere in una società difficile, ostile, fatta da e per i maschi, dove è così facile isolarti quando più c’è bisogno di non essere isolata. Arrivano quindi le paure, le insicurezze, le angoscie e la spinta ad afferrarsi a qualunque costo per sentire almeno artificialmente quella sicurezza che non esiste, che non trovi anche se cerchi. Perché per noi profughe le alternative sono piuttosto scarse: pur continuando a fare qualcosa che ti colleghi ancora col tuo Paese d’origine e mostrandoti capace di affrontare la contraddizione donna = militante (il che è difficile perché ancora non si è conquistato il diritto ad esprimersi liberamente come donna nelle rispettive organizzazioni) sei soggetta ad altri condizionamenti: o taci e inghiotti tutto quello che non puoi dire e che non accetti e allora sei un’altra volta emarginata perché cerchi di fare discorsi che in sostanza esprimono il tuo volere essere donna. Altrimenti se non sei più capace di far fronte a tutto ciò sei trattata come qualunquista, come menefreghista e, al limite, di volere insistere sul «privato», giudizio questo più grave di tutti perché se a parole si dà spazio al privato perché necessario questo passaggio per risolvere i problemi politici, nei fatti questo stesso privato — secondo i compagni — deve rimanere sempre al di fuori dell’ambito politico. Al fondo di ciò vi è l’intima e radicata convinzione anche nei compagni più progressisti quelli cioè che hanno approfondito al livello intellettuale le contraddizioni che vive la donna oggi, cioè che nella donna il privato non debba fare parte del politico, che la dimensione donna non abbia né possa avere una dimensione politica. Sarebbe da domandarsi Perché non abbiamo il diritto di essere noi? Nei fatti quotidiani le donne devono continuare a svolgere i ruoli tradizionali: figlia, madre, sorella, moglie, quindi non abbiamo neppure il diritto tradizionale di essere donne. Se per le donne europee è già difficile essere accettate nella propria specificità, immaginiamoci come sarà difficile per noi far almeno capire (non oso nemmeno dire accettare) la nostra propria specificità.
Come si vede, le alternative sono scarse: o far fronte e continui avanti nella prospettiva politica oppure sei qualunquista oppure moglie, sorella, figlia di. E se hai scelto la prima soluzione e continui a vedere le lacerazioni ogni giorno più profonde nelle organizzazioni politiche e vedi Pinochet anche se a volte indebolito sempre alla testa e sempre più crudele e ricevi lettere che raccontano (e purtroppo senza esagerazioni) che di una popolazione di 11 milioni di abitanti circa 8 milioni vivono sotto i minimi livelli di sopravvivenza; l’impotenza si fa più forte, fa male, diventa anche malattia. E quando non trovi neppure un punto di riferimento, e vedi e senti che anche la piccola base di «sicurezza» che tu avevi a fatica costruito crolla, e allora è il caso di Taty, che è crollata per sempre. Adesso — e magari perché io lo sento pure io profondamente — mi viene da dire, come il nostro Pablo Neruda: «Nosotros los de entonces, va no somos los mismos» («noi, quelli di allora, ormai non siamo più gli stessi»).