i capolavori del silenzio
Tre anonime signorine di buona famiglia sepolte nelle brughiere dell’Inghilterra crearono i romanzi più audaci dell’epoca vittoriana.
nell’estate del 1848, un venerdì di luglio, due ragazze inglesi, intorno alla trentina, partirono alla volta di Londra, lasciando a casa, nel villaggio di Haworth, in mezzo alle brughiere dello Yorkshire, una terza sorella, assai fragile di salute, un fratello anch’egli malato, e dedito all’alcool e all’oppio, il padre, pastore protestante e una vecchia domestica. Le due ragazze a Londra non erano mai state, ancorché la maggiore di esse, anni prima, avesse soggiornato a lungo a Bruxelles, quale insegnante in un pensionato cattolico. Per il soggiorno londinese, che, secondo i piani, non doveva né poteva durare più di un giorno, si prepararono in modo assai semplicistico. Mandato avanti, alla stazione di Keighley, un bauletto con un solo ricambio di indumenti, sfaccendarono tutta la giornata in casa, come di consueto, mettendosi poi in cammino, a piedi, per Keighley. Ma un temporale estivo le sorprese durante il tragitto, e fradice e affannate arrivarono appena in tempo per acchiappare il treno per Londra. Sbarcate, il mattino dopo, a un caffé di Paternoster Row, «nello strano stato di eccitamento in cui si trovavano», dimentiche di quanto già pianificato nella quiete del vicariato, cioè di concedersi il lusso di una carrozza, si diressero invece a piedi, stordite e spaurite dal traffico e dalla folla londinese, alla meta del loro viaggio: la casa editrice di George Smith. Proprio lì, in casa editrice, si svolse una delle scene più curiose della vita letteraria di tutti i tempi. Quelle donnette modeste e minute, vestite di nero, non le conosceva nessuno, benché recassero con sé, a prova della loro buona fede, una lettera dell’editore stesso, indirizzata a Currer Bell, nel vicariato di Haworth, «con la precisazione: “all’attenzione di Miss Charlotte Brontë”». Ci volle abbastanza tempo, e molta fatica, perché l’equivoco si chiarisse, e cioè che autore, anzi autrice di Jane Eyre, non era Currer Bell, bensì la signorina Brontë, la maggiore delle due sorelle lì presenti, così come a scrivere rispettivamente, Cime tempestose e Agnes Grey, erano state le altre due Brontë: Emily, quella rimasta a casa, e Anne, la più giovane, che aveva seguito Charlotte a Londra. Nella ditta Smith e Elder, dovettero alla fine arrendersi all’evidenza: i fratelli Bell, i quali, anno prima avevano pubblicato insieme un libretto di versi, non erano esistiti mai. Esistevano invece queste strane signorine che, sepolte in mezzo alle brughiere del Nord dell’Inghilterra, avevano dato vita a romanzi strani (strani soprattutto ove si considerasse il fatto che erano donne: romanzi appassionati, fiammeggianti, erotici) cercando, però, poi, in tutti i modi di cancellare le proprie tracce, negando addirittura qualche volta l’evidenza, quando il nome Brontë era stato suggerito come quello di unico autore di tutta l’opera. Era importante, soprattutto, che non lo sospettasse il padre: una volta (questo lo sappiamo attraverso il racconto fatto poi da Charlotte a Elizabeth Gasiceli, sua biografa), quando il postino, incontrando il vicario, arrivò a chiedergli se conosceva, per caso, un certo signor Currer, l’incidente, riferito dal padre, gettò nel panico le ragazze Brontë. A lungo, dunque, l’esistenza di Currer Bell fu «una specie di sogno per gli abitanti del vicariato», che continuavano a perseguire i lavori domestici e le preoccupazioni per la vita disordinata di Branwell, il fratello. E questo mentre buona parte dell’Inghilterra letteraria, dopo il successo di Jane Eyre, nell’ottobre del 1847, si poneva il problema di chi fosse realmente l’autore del romanzo della governante innamorata di Rochester: nome vero o fittizio? uomo o donna? Gli editori stessi non lo sapevano, e se non fosse stato perché più di un editore in America, intendeva ormai pubblicare i vari romanzi delle Bronte, ed era nata parecchia confusione circa le edizioni, ì nomi e gli autori, Charlotte e Anne non si sarebbero mai mosse da Howart a rivelare a George Smith la propria identità. Una volta riconosciute, le due autrici, (e oltre tutto autrici di best sellers, sia pure ottocenteschi, e non gonfiati dalla pubblicità e dai mass media), furono festeggiatissime: gli editori le presentarono alle famiglie, fecero di tutto perché accettassero l’ospitalità in casa (ma esse preferirono il modesto albergo a Paternoster Row, luogo famoso per i letterati e gli editori), e le trascinarono poi, nonostante le proteste, e il fatto che non avessero vestiti adatti alle occasioni e soprattutto la stanchezza che avevano dipinta sul viso, in un turbine di attività: una serata all’Opera, in palco, per assistere al Barbiere di Siviglia, la mattina dopo, cioè la domenica, in chiesa e a pranzo, il lunedì alla National Gallery e in vari altri luoghi. Il martedì mattina, come Dio volle, ripartirono per lo Yorkshire. «Ero magra quand’ero partita», scrisse Charlotte, «ma ero addirittura scarna quando feci ritorno, con là faccia grigia e vecchissima, e strane linee profonde che vi si erano incavate dentro — i miei occhi avevano uno sguardo che non era naturale. Ero debole e tuttavia irrequieta. Tuttavia, dopo poco, questi brutti effetti dell’eccitamento svanirono, e tornai alla mia condizione normale». «Magra, vecchia, linee profonde, uno sguardo poco naturale»: c’è qualcosa in questa autodescrizione di una donna di trentadue anni, ohe colpisce profondamente. Volontà di annullarsi, desiderio di normalità e fuga dall’eccitamento o non piuttosto il bisogno opposto: quello di essere diversa e di condurre, anche, una vita diversa? La vicenda delle Bronte è così drammatica che qualunque punto potrebbe essere buono come inizio: la morte precoce della madre, poi delle due sorelline maggiori, ammalatesi nel collegio malsano dove trascorsero alcuni mesi anche Charlotte e Emily e, conseguenza di tanti lutti e malattie, l’istruzione impartita a casa, dal Padre, ai quattro sopravvissuti: Charlotte, Branwell, Emily e Anne, sotto l’egida di una vecchia zia.
Oppure l’educazione e addestramento che i ragazzi pronte si diedero da soli. Narra Charlotte come la sera del 5 giugno 1826, il padre portasse per Branwell una scatola di 12 soldatini di legno e il giorno dopo il fratello autorizzò le sorelle a sceglierne uno a testa. Quello di Charlotte era il più bello, e lo battezzò con il nome del suo grande eroe, il duca di Wellington. Cominciò, con questi Dodici, come li chiamavano, il makebelieve, il «far finta», il nascere di avventure a un tempo mitiche e precisissime: una sorta di psicodramma, come si direbbe oggi, che, trattando, sì, di generali, primi ministri, e assassini, ma anche di seduzione, adulterio e passioni, certamente scatenò le «forze basiche» delle personalità dei Bronte. Tra tutti gli aspetti straordinari della vita, a un tempo reclusa e apertissima, dei ragazzi Bronte, con le contradditorietà di una disciplina strettamente femminile e domestica e un’apertura quasi maschile, a me sembra che l’avventura di Londra abbia valore emblematico: per la condizione della donna delle classi medie dell’Ottocento, per condizione particolare delle sorelle Bronte e, infine, per la personalità di Charlotte. Che le donne delle classi medie, tagliate fuori dalla produttività, sia pure malissimo remunerata, dello sviluppo industriale, dalle fabbriche dove lavoravano, sia pure in condizioni ambientali disastrose, le donne delle classi subalterne, risultassero perciò impoverite, emarginate, costrette a combattere, in orizzonti domestici limitatissimi, con le malattie e con la morte, è cosa ben nota. E’ anche risaputo che l’unica professione dignitosa aperta a queste donne, nel caso non fossero sposate e non volessero essere di peso alla famiglia, era quella dell’insegnante oppure dell’istitutrice: Mary Wollstonecraft con la sua esperienza, sta lì a dimostrarlo, nel Settecento, e prima di lei, legioni di altre giovani donne in tutta l’Europa. Un’altra via di uscita, non sostitutiva, ma complementare della prima, era, per le donne, delle classi medie, sposate e no, ero lo scrivere: romanzi, in prevalenza. Virginia Woolf si chiede, in Una stanza tutta per sé, perché mai le donne borghesi dell’Ottocento scrivessero solo e tanti romanzi, e si dà già la risposta: perché le case dove vivevano avevano una stanza soltanto dove si riunivano tutti e non permettevano la concentrazione della poesia. E cita poi le parole della Nightingale: «le donne non avevano neppure mezz’ora… da dedicare tutta a se stesse». In realtà, la spiegazione si applica soltanto in parte alle Bronte: i lavori domestici da fare c’erano, e pesantissimi. Ma se vivevano in una sala in comune è pur vero che le tre sorelle andavano perfettamente d’accordo, anzi, pensavano gli stessi pensieri. Abbiamo anche qui la testimonianza di Charlotte, nell’epoca in cui aveva appena cominciato Jane Eyre: «Ognuna di noi, in quel periodo, era occupata con un romanzo, e avevamo conservato l’antica abitudine della nostra giovinezza, quando ancora vivevano con noi la vecchia zia e mio fratello Branwell, di smettere il lavoro di cucito alle nove in punto della sera e di cominciare a confrontare le nostre storie, passeggiando su e giù per il salotto».
Chi non sente, a questo punto, che ogni sera, nella «casetta di pietra oblunga, che neppure un albero schermava dal vento tagliente», la casa che affacciava sull’antico cimitero di campagna e sembrava, nella sua nudità, disegnata dalla mano di un bambino, chi non sente che lì, come all’Opera, più che all’Opera, aveva luogo uno spettacolo? Non diverso, forse, nella sua strana meticolosità, nel suo deliberato ritardarsi (ma non potevano, poi, tutto sommato, smettere di cucire un pochino più presto?) dalle fantasie di Gondal della gioventù? E, tuttavia, a un certo punto, il dramma serale non basta più e le sorelle decidono di pubblicare: e inizia qui, in certo senso, un nuovo gioco, quello degli pseudonimi, dell’inganno al postino, agli editori, delle smentite: fino alla rivelazione finale. Gioco o non gioco? Come osserva Ellen Moers, nel suo libro Literary Women (London, 1977) la professione di scrittrice significò, per lungo tempo, non soltanto non appartenere alla corrente principale della letteratura, ma addirittura a una «corrente sotterranea, rapida e potente». Solidarietà tra donne scrittrici non esisteva, e la critica più feroce alle donne veniva proprio dalle donne stesse: fa testo la famosa recensione di Jane Eyre fatta da Elizabeth Rigby. Di lì, probabilmente, la necessità di nascondersi sotto gli pseudonimi maschili, ove non ci si conformasse a quella regola dì correttezza di cui era diventato l’esempio più ammirato Jane Austen. Regole di correttezza che già la Woolf aveva considerate più apparenti che reali e che oggi sembrano smentite dalle potenzialità rivoluzionarie ohe la critica intravede nella prosa liscia e serena di Orgoglio e pregiudizio e di Emma.
A questa correttezza nessuna delle Bronte si confermò mai: se Emily, per scrivere quella che è stata definita «la più rapinosa storia d’amore di tutti i tempi», attinse alla libertà dell’antico patrimonio fantastico della gioventù, anche Anne e Charlotte scrissero, a modo loro, storie di liberazione sociale e sentimentale. Più miti, forse incapaci, da sole, di attirare le ire del pubblico Agnes Grèy e L’affittuaria di Wildfell Hall, le storie di Anne, scritte alla vigilia della morte, quasi improvvisa, a ventinove anni. Ma rivoluzionarie, certamente, le opere di Charlotte: Shirley del 1849, e Villette, del 1852, non meno di Jane Eyre, Fu per questo, per questo potenziale erotico e romantico che sapeva di possedere e su cui temeva un pubblico giudizio, che Charlotte si nascose, anzi giocò così a lungo con gli pseudonomi, con la modestia, con l’oscurità? Qui veniamo alla personalità di Charlotte, quale si rivela non soltanto attraverso le lettere e la biografia della Gasiceli, ma anche attraverso l’immagine. Nel famoso ritratto di Branwell, dipinto nel 1834, essa sta un po’ scostata dalle sorelle, che formano gruppo; due ragazzine inglesi sognanti, dai grandi occhi azzurri. Charlotte è appena diciottenne, anche lei: «quei capelli morbidi castani, gli occhi buonissimi, che guardavano diritto, dello stesso colore», descritti dalla Gasiceli a un’amica comune, Branwell li indurisce, li invecchia. Riappariranno, dolci, umanizzati in un altro ritratto del Haworth Parsonage, forse più tardo, che porta il segno della rassegnazione e dell’umorismo.
Charlotte Bronte regge, fin dall’inizio, dall’età di nove anni, sulle sue spalle, un senso di responsabilità nei confronti della famiglia che si tradurrà poi addirittura in colpa quando, nonostante i suoi sforzi, se li vede morire tutti, giovani e pieni di talento, a uno a uno, e resta lei sola a sopravvivere. Che le Bronte riuscissero a emergere dall’oscurità, fu, secondo la saggista americana Elizabeth Hardwick, semplicemente il gioco del caso, ma rappresenta addirittura un miracolo ohe Charlotte riuscisse a sposarsi e a godere nove (dico, nove) mesi di felicità prima di morire, a trentanove anni. Ma lo sforzo per emergere e per sopravvivere implicava, dati i tempi, anche il venire a patti con la società, e fu lei, Charlotte, a capire che compromessi, in qualche modo, bisognava farli. Quando, dopo aver mandato i primi versi a Mr. Southey, ricevette da lui una lettera in cui la incitava a non indulgere in sogni «che possono produrre uno stato mentale di disturbo», perché «la letteratura non può essere l’occupazione della vita di una donna, e non dovrebbe esserlo», invece di arrabbiarsi, scrisse esponendo la propria situazione: «Mio padre è un uomo di chiesa di mezzi limitati e io sono la maggiore, ha speso per la mia educazione quanto poteva… Perciò giudicai mio dovere, quando lasciai la scuola, di diventare istitutrice. Secondo il consiglio di mio padre… ho cercato non soltanto di osservare attentamente tutti i doveri che dovrebbe compiere una donna ma di interessarmene profondamente. Non vi riesco sempre perché qualche volta, quando insegno o cucio, preferirei leggere e scrivere, ma cerco di non farlo». «Ma cerco di non farlo» : poche persone erano meno tagliate per l’insegnamento delle -sorèlle Bronte, eppure tentarono tutte le vie per guadagnarsi onorevolmente la vita: Charlotte fece la governante privata, odiando profondamente un ruolo che la metteva appena al di sopra dei domestici e molto al disotto dei padroni, senza darle l’indipendenza che avevano le donne delle fabbriche. A Emily scriveva: «Mio dolce tesoro, sono stata contenta della tua lettera come la lingua non può dire… è una cosa da mettere in disparte fino al momento di andare a letto quando si ha un momento di quiete e di riposo per assaporarla fino in fondo.,. Vorrei essere a casa. Vorrei lavorare in una fabbrica. Vorrei provare un po’ di libertà mentale. Vorrei che questo peso di restrizioni mi si togliesse di dosso. Ma le vacanze verranno». E in italiano, aggiunse: «Coraggio». Coraggio ne ebbe sempre, da vendere: quando rimase a Bruxelles, da sola, dopo la partenza di Emily, e s’innamorò del principale della scuola, M. Héger, e seppe superare il dolore per l’amore non ricambiato, riacquistando nonostante tutto, l’equilibrio e la calma per badare alla famiglia e al lavoro. Si spiega così il bisogno, insistente, di «ritorno alla normalità» di cui ‘parla dopo Londra, e la ricerca faticosa dell’equilibrio. All’epoca di Jane Eyre, scrisse: «Ho riflettuto molto sull’esistenza delle donne non sposate e destinate a non sposarsi mai, e sono già arrivata al punto di pensare che non esiste al mondo’ personaggio più rispettabile della donna non sposata che si fa la sua vita tranquillamente, con tenacia, senza l’aiuto di marito né di fratello…». E’ davvero strano che Virginia Woolf, così sensibile alle ragioni delle donne, abbia accusato Charlotte di aver scritto con rabbia, con amarezza, «di aver scritto di se stessa mentre avrebbe dovuto scrivere dei suoi personaggi», di avere cioè, fatto di Jane Eyre un personaggio autobiografico: una governante, una bambina ohe aveva sofferto, come avevano sofferto le sue sorelline maggiori, una donna sola, e per di più, non bella, non affascinante, («come le eroine delle mie sorelle» ) ma piccola e brutta («piccola e brutta come me», spiegò Charlotte). Così facendo, Charlotte, forse per onestà morale, forse per impulso artistico, creò un tipo assolutamente nuovo: un’anti-eroina, una donna che è come lo specchio di tutte le donne dell’Ottocento che si trovavano nelle sue stesse condizioni. Non è un caso che, dopo Jane Eyre, le protagoniste governanti si moltiplicassero e-fossero tutte personaggi misteriosi, coniate sull’immagine della romantica Jane Eyre, del suo appassionato amore per Rochester, che culmina, alla fine, nel rovesciamento totale dei ruoli sociali e sessuali: lui, cieco, dipende ormai da lei, che sarà, in piena parità, «ossa delle sue ossa, carne della sua carne». La conclusione di Jane Eyre è, in certo senso, la conclusione che l’autrice sola, non amata (sarà amata e sposata molti anni più tardi) nella sua immaginazione tutt’altro che ingenua, aveva certamente sognato, era il segno di quell’«eccitamento» ohe cercava, in tutti i modi, di reprimere in sé. Ma era anche una conclusione ardita, per un’ epoca come la vittoriana che guardava con diffidenza, seppure con interesse celato con opportuna ipocrisia, tutti i segni (e in Jane Eyre ce ne sono molti) della sessualità femminile. Charlotte non la rinnegò mai, anzi, prima di riprendere, in forma diversa, ma con altrettanta onestà, gli stessi temi, in Shirley e in Villette, scrisse al critico Lewes queste parole: «Vorrei che lei non pensasse a me come a una donna… lei continuerà, lo so, a misurarmi con il metro che considera adatto al mio sesso, se non sarò aggraziata, mi condannerà… Ma qualunque cosa accada, io non posso, quando scrivo, pensare a me come elegante o a quello che è elegante o affascinante nella femminilità; non è stato in questi termini o con queste idee che presi mai la penna in mano: e se è soltanto in questi termini che i miei libri possono essere tollerati, lascerò il pubblico e non mi preoccuperò più. Dall’oscurità sono venuta e all’oscurità posso facilmente ritornare».