la politicizzazione delle prostitute

Pubblichiamo parte dell’ultimo capitolo del libro “Donne di vita, vita di donne” di Guido Blumir e Agnes Santage, edito da Mondadori e la traduzione di un documento del Collettivo inglese delle prostitute, tratta da “Wages for Housework”, bollettino di informazione dei gruppi per il salario al lavoro domestico inglesi.

marzo 1981

Donna di vita, vita di donne
Nelle società moderne, dopo l’abolizione dei postriboli, le prostitute non legate a un racket o a uno sfruttatore, hanno sostanzialmente diminuito il numero delle prestazioni. Già alla fine degli anni Quaranta, negli Stati Uniti (dove la proibizione dei bordelli nei vari Stati comincia a partire dal 1918) (1) il fenomeno della diminuzione dei rapporti era vistoso, come nota Kinsey; mentre il numero dei clienti era rimasto praticamente identico in percentuale alla popolazione negli ultimi decenni, ed identico il numero dei rapporti dei clienti. La tendenza alla diminuzione del lavoro si accompagna a un aumento del numero di donne che esercitano la prostituzione.
Le tre tendenze presenti nell’evoluzione sociale (aumento del numero delle prostitute, diminuzione del numero delle prestazioni, aumento del prezzo) diventano la base sociale della politicizzazione delle prostitute e si legano alle posizioni di alcuni gruppi del femminismo militante.
Fra le analisi più radicali, quelle dei gruppi per il salario al lavoro domestico. Secondo Giovanna Franca Dalla Costa (Un lavoro d’amore, Edizioni delle Dorme, Roma 1978) il nesso tra lavoro domestico e prostituzione è fondamentale: una donna diventa «cattiva», prostituta, «quando pretende di far costare, e quindi contrattare in termini di soldi, di tempo e condizioni complessive, quella che è la mansione centrale del lavoro domestico: il fare all’amore. La donna che pretende questo, diventa automaticamente la donna cattiva per eccellenza». E’ la più cattiva «poiché è quella che, rifiutando di erogare “per amore” la mansione centrale del lavoro domestico, colpisce al cuore tutta l’ideologia dell’amore su cui il lavoro domestico stesso si regge. Nega quindi il lavoro domestico come lavoro d’amore. Sottrae l’erogazione di questa mansione alla cellula familiare entro cui dovrebbe accettare di erogarla, in cambio della mera sopravvivenza (…). E’ un attacco diretto al lavoro domestico in quanto infinito, gratuito, e sotto il controllo di un uomo».
Queste analisi si sono tradotte in iniziativa politica: i comitati per il salario al lavoro domestico americani appoggiano i gruppi delle prostitute come Coyote e Puma. E queste organizzazioni sostengono a loro volta la lotta per il salario al lavoro domestico. Lo stesso succede in Gran Bretagna: «Noi con la nostra organizzazione abbiamo ormai rotto il ghetto nel quale lo Stato ci vorrebbe costringere, abbiamo fatto della prostituzione uno strumento sempre più di massa con il quale procacciarsi soldi a tutte le età, al di fuori del controllo maschile». «Subiamo una violenza specifica, perché abbiamo deciso di farci pagare la mansione sessuale che tutte le donne sono tenute invece a svolgere gratuitamente in quanto mogli» (intervento di una militante inglese, studentessa e prostituta, del Power of Women Collective al II Convegno internazionale sulla violenza, Roma, 25-26-27 marzo 1978, cfr. La famiglia è anche lavoro sessuale non pagato, «Lotta Continua», 29-3-1978). Secondo Margot St-James, di «Coyote Howls», la rivista delle prostitute, «l’appoggio dato dal gruppo per il salario al lavoro domestico al nostro movimento, è molto significativo. Delle casalinghe si sono rese conto che esse lavorano gratuitamente per lo sfruttatore, che dà invece dei soldi alle donne che gli forniscono una prestazione sessuale».
Anche in Italia, al Convegno del Comitato per il salario al lavoro domestico (Roma, 1° maggio 1978), si è deciso di mettere in evidenza, con un documento (pubblicato da Effe, giugno 1978, p. 7), il ruolo politico che hanno le lotte delle prostitute «per determinare le condizioni del loro lavoro, riducendo i ritmi, la pericolosità, la rapina da parte degli uomini e delle istituzioni statali sui proventi del loro lavoro sessuale, e soprattutto la loro lotta per ricavare sempre più soldi da questo lavoro».
Come reagisce lo stato alle lotte delle prostitute, in Francia, Stati Uniti, Australia, Inghilterra, e alla «pretesa» che il lavoro d’amore venga pagato? Secondo la Dalla Costa, lo stato reagisce in due modi: da una parte dipinge a fosche tinte sui mass-media la vita delle prostitute «per scoraggiare qualunque donna dal percorrere quella strada». La descrizione raccapricciante diffusa a livello di massa dell’«orribile fine» che capita alle prostitute, «deve funzionare da monito martellante, quotidiano», per evitare che larghe masse di donne concepiscano «F “orribile idea” di farsi pagare il lavoro di fare all’amore». La vita delle prostitute è tremenda, dunque accontentatevi del meno peggio, cioè della famiglia. Un deterrente psicologico.
L’altro fronte è quello della criminalizzazione: cioè la violenza diretta contro le prostitute (soprattutto quelle indipendenti); e l’amplificarsi delle conseguenze della criminalizzazione, cioè lo scatenamento della violenza maschile generica, delle rapine, di un’aggravarsi dell’emarginazione sociale, ecc. Insomma, rendere alle prostitute la vita impossibile.
Nel campo sociale si affronterebbero dunque due progetti contrapposti: la tendenza femminile a un aumento della prostituzione indipendente, irregolare, saltuaria, a prezzi pari o maggiori di quelli correnti, senza dare una lira a protettori e a uomini, e senza interferenze da parte dello Stato e della polizia («sempre più numerose sono infatti le donne che riconoscono il loro lavoro sessuale come lavoro e decidono di ricavare soldi per sé direttamente da esso»). A questa evoluzione, si contrappone la tendenza statale e bloccare il fenomeno criminalizzandolo e dando spazio ai progetti di capitalizzazione del sesso negli eros center, con la riduzione a salariate (a paghe basse) delle prostitute.
E’ uno scontro politico. E in esso si inseriscono le richieste di una completa decriminalizzazione dell’attività delle prostitute. «.Piuttosto che verso una regolamentazione statale o verso la repressione della prostituzione, la giustizia dovrebbe orientarsi verso un’altra soluzione: far sparire del tutto la prostituzione dal codice criminale». «Estendere tutte le forme dei diritti civili a un gruppo che per tanto tempo e in modo così generale ne è stato privato». «Per il potere che la società normale ha di opprimere le prostitute… perché questo potere possa scomparire… la prostituzione deve essere legalizzata» (K. Millet, Op. cit., p. 39, p. 57, p. 28).
«Lavorare dove vogliamo, quando vogliamo, come vogliamo» dicono le prostitute francesi. Decriminalizzazione non. deve voler dire in nessun modo riapertura delle case chiuse o apertura di eros center. «Non vogliamo-essere nazionalizzate o municipalizzate». «Dev’essere un lavoro libero, senza controlli eccessivi» dice anche Marisa. Che cosa potrebbe succedere se venissero abolite tutte le limitazioni legali contro le prostitute? In Italia vorrebbe dire modificare le leggi speciali di pubblica sicurezza che permettono di schedare e diffidare le donne, così i padroni di casa, i datori di lavoro, gli uffici che concedono licenze per gli esercizi commerciali, ecc., non potrebbero controllare se una donna ha fatto il mestiere, e sarebbero costretti a trattarla come un cittadino qualunque. Si potrebbe pensare che fiorirebbero ancora le organizzazioni, più o meno clandestine, dove almeno la metà dei guadagni andrebbe ai gestori. E’ un’ipotesi da non escludere, perché anche in presenza di regolamenti chiari rivolti esclusivamente contro gli organizzatori, potrebbe continuare il fenomeno delle protezioni e della corruzione da parte delle autorità. E’ più probabile però, che, seguendo una tendenza sociale già in atto, vaste masse di donne si orienterebbero verso il sistema delle squillo, anche tramite gli annunci sui giornali: in particolare, se venissero abolite le norme per cui, se due o tre ragazze esercitano insieme, nello stesso appartamento, ciascuna può essere incriminata per sfruttamento della prostituzione dell’altra: sarebbe questo, infatti, uno dei sistemi con meno pericoli di violenza. Anche nel lavoro di strada perderebbe terreno la necessità di un protettore (si è visto de! resto che proteggono ben poco), se esercitato, sia pure discretamente, in orari e zone non periferiche, ed enormemente meno pericolosi. Un processo di questo genere può essere messo in moto se, parallelamente alle leggi, si diffonde un nuovo tipo di consapevolezza, sia tra le prostitute, sia tra la gente. Tra le prime, perché si allarghi il rifiuto del protettore e di ogni forma di mediazione (salvo forse quelle abbastanza innocue, di segreteria telefonica, praticate in America: i clienti telefonano al servizio — sono agenzie che operano per tutti i tipi di professionisti — che raccoglie le chiamate e le comunica alle donne); tra la gente, perché la prostituta sia vista come una donna e non discriminata dalle altre donne (una ragazza francese racconta che nel suo caseggiato i condòmini hanno fatto trenta petizioni per mandarla via: solo perché si era saputo che faceva la vita, non è che esercitasse nel palazzo).
Un paio d’anni dopo il movimento del ’75, in Francia è cominciata la riflessione sugli effetti provocati da quell’esplosione. Dopo un’iniziale recrudescenza della repressione, si è tornati al tran tran di prima, ed è stata però tolta la minaccia della prigione per chi non pagava le multe, che pendeva come una spada di Damocle sulle dorme. Fra le prostitute «si è formata una specie di solidarietà quotidiana, che gli altri non percepiscono, ma che noi viviamo tutti i giorni. Quando una donna ha un giudizio, le altre l’accompagnano in tribunale. Se si ammala, parecchie l’assistono». Ma a un altro livello, c’è un cambiamento ancora più importante. «E’ proprio cambiata la mentalità delle ragazze, non si vedono più allo stesse modo. Io mi sento in un certo senso rivalorizzata, riconosciuta. Quando si dice prostituta, non si pensa più soltanto alla ragazza all’angolo della strada. Si pensa anche alle nostre manifestazioni. E questo mi fa star meglio, mi consente di “alzare la testa” più facilmente, di dire quello che sento agli altri». Per molti anni la gente non si è posta nessun problema: «Adesso ci guardano con una certa attenzione». «Nel quartiere, certi commercianti hanno organizzato una petizione contro di noi. Senza che noi facessimo niente, degli altri commercianti hanno lanciato una contropetizione a nostro favore. E non erano quelli dei negozi dove noi andiamo a spendere soldi».
Sono cambiamenti che hanno bisogno di tempo e che possono realizzarsi solo innestandosi sulle tematiche di cui si è parlato. Certo, sono estranee a questi processi, anzi proprio il loro opposto, le prospettive dei governi rivoluzionari e di sinistra, che «eliminano» la prostituzione con i campi di concentramento, dove le donne (è successo in Vietnam, Cambogia, Laos, Mozambico) vengono mandate a «riabilitarsi»: e questo dopo che, come in tutte le guerre di liberazione, molte di loro hanno svolto compiti ingrati e pericolosi.
Ad ogni modo, le donne vogliono che la soluzione non cada dall’alto. «Ma il problema è nostro: è da noi che devono venire le proposte». Nessuno pensa a un’abolizione dall’oggi al domani della prostituzione; ma le donne che hanno fatto prostituzione e i movimenti che le appoggiano, pensano in prospettiva a una sua sparizione.

Documento da “Wages for Housework”
Sì, abbiamo fregato i pavimenti, sì siamo state balie, cuoche, donne di servizio, babysitter, operaie, contadine. E abbiamo lavorato anche come prostitute. Non ce ne vergogniamo, perché questo è il modo in cui siamo sopravvissute per generazioni».
La nostra illegalità ci ha tenute nascoste e divise dalle altre donne. Ora che la nostra lotta perché vengano abolite tutte le leggi contro di noi sta guadagnando terreno, possiamo parlare e dire come molte donne sono sfuggite alla povertà e si sono rese indipendenti a modo loro.
Oggi ancora ci troviamo a fare i conti con gli arresti, la galera, le multe, ad essere chiamate «madri snaturate» e a perdere la custodia dei nostri figli. E la polizia si sente in dovere di stroncarci appena cominciamo ad organizzarci. Ma questo è il modo in cui cominciano tutti i movimenti. Il Collettivo inglese delle prostitute (EOP) si è formato nel 1976. Come organizzazione indipendente di prostitute e non prostitute, all’interno dei Gruppi per il salario al lavoro domestico, abbiamo avuto voce e azione comune con altre donne, la migliore protezione che possiamo avere.
Per esempio, l’anno scorso, le «Donne contro lo stupro» hanno fatto i picchetti insieme a noi davanti all’Old Bailey dove era in corso un processo che vedeva una donna violentata accusata dallo stupratore di essere una prostituta. E se sei una prostituta, il tribunale presume che tu non possa essere violentata. Pensano che siamo disponibili per il letto di qualunque uomo, in qualunque momento. Ma noi decidiamo dì noi più spesso di quanto non possano farlo molte donne sposate. Poiché i Gruppi per il salario al lavoro domestico sono internazionali, abbiamo preso contatti con gruppi di prostitute in altri Paesi e diffuso le notizie delle azioni intraprese dalle prostitute: lo sciopero del 1975 in Francia, o le prostitute australiane che si sono rifiutate di servire i marinai provenienti da una nave nucleare, per ragioni di salute. Le nostre battaglie e le nostre vittorie erano tenute nascoste, e quindi sconosciute, quanto noi. Abbiamo preso contatti con avvocati e lavoratori, e abbiamo trovato degli alleati. Essi hanno visto che le prostitute sono donne come tutte le altre, ma soprattutto madri sole. Attraverso la prostituzione ci procuriamo il benessere che lo Stato non ci dà, per noi e i nostri figli, per i mariti-studenti e per i genitori anziani.
Le donne volevano sapere che cosa avevamo in comune con loro, e se la prostituzione poteva essere una scelta anche per loro, se il denaro valeva il rischio e che effetto aveva il fatto di essere una prostituta sulle nostre vite sessuali. Noi gli spiegammo che ogni donna è diversa dall’altra, ma che possedere denaro per conto proprio dà a una donna più potere di decidere, quando non lavora, con chi andare a Ietto, quando e come.
Vi erano alcune donne, che si dicevano femministe, che rifiutavano di sostenerci e che. senza rendersene conto, sostenevano le leggi contro di noi. Esse ci hanno detto che degradiamo le donne facendole provvedere alle esigenze sessuali degli uomini. Ma le leggi ci colpiscono non perché serviamo sessualmente gli uomini — la maggior parte delle donne lo fa — ma perché ci rifiutiamo di servirli gratis.
In ogni campo le donne sono divise dal denaro, le cameriere dei bar dalle insegnanti, le donne di servizio dalle segretarie. Vogliamo finirla con queste divisioni fra donne. Nell’ECP vi sono prostitute, hostess e ragazze-squillo nere e bianche. Quelle di noi che stanno per strada devono affrontare i rischi più grossi, ma tutte noi siamo minacciate e tutte noi dobbiamo dare il nostro contributo per abolire le leggi. Come possiamo unirci ad altre donne se noi prostitute non stiamo insieme?
Nell’estate del 1977 la Baronessa Joan Vickers, alla Camera dei Lord, ha fatto un appello perché vengano abolite tutte le leggi contro le prostitute. Una ragione, ha detto, è che le puttane sono costrette a tornare sulla strada per pagare le multe che gli vengono imposte. Questo noi lo chiamiamo sfruttamento da parte dello Stato. Il 6 marzo 1978 il Parlamento ha approvato la prima stesura della «Legge per la Protezione delle prostitute», di Maureen Colquhoun. Questa legge abolirebbe galera e multe per adescamento, e il termine «prostituta comune» che ci marchia per tutta la vita. E’ un lungo cammino passare dagli angoli delle strade per nutrire i propri figli, a una legge alla Camera dei Comuni, dalle retate della polizia alle interviste per la televisione, la radio e la stampa mondiale.
Dopo tutto, che cosa sono le prostitute se non casalinghe che vanno a lavorare di sera?
(traduzione di Beatrice Mégevand)