le emarginate tra gli emarginati
da un Convegno a Napoli sul sottoproletariato. «Dentro si leggeva sulla miseria delle donne e fuori la si urlava, noi emarginate tra gli emarginati brillavamo di ribellione».
le emarginate tra gli emarginati sono state definite le donne nel Convegno su proletariato e sottoproletariato marginale organizzato da gruppi di studio dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli nella antisala dei Baroni del Maschio Angioino.
La coordinatrice a riguardo del discorso sulla donna del proletariato e sottoproletariato, Anita Pasquali, cellula della segreteria dell’U.D.I. ha innanzitutto sottolineato la doppia repressione della donna: quella dell’ambiente e quella dell’uomo che le sta accanto (sarebbe esatto dire di fronte).
Nella donna del proletariato e del sottoproletariato marginale queste due aggressioni sono ancora più avvilenti, più tristi così come sono sempre permeate nelle intervistate da una forma di impotenza innanzi ad una realtà immobile, innanzi cioè ad una realtà che a loro sembra di non riuscire a cambiare in primo luogo per il sentimento di inferiorità nei riguardi del loro «compagno» e dei maschi in genere, in secondo luogo per la disinformazione operante nel loro ambiente (analfabetismo o istruzione minima nel sottoproletariato, informazioni e modus vivendi tramandati di madre in figlia che ad un certo punto è stato spezzato per una sempre più viva conoscenza della realtà ma che è rimasto nel bagaglio culturale di ognuna di noi e che si rivela nei sensi di colpa) e per la diffidenza su cui sono improntati i rapporti sociali per quella precarietà economica innestata all’interno di una sopravvivenza lesinata giorno per giorno, azione dopo azione.
Dal di fuori penetravano nella Sala gli slogans delle femministe riunite da tutta Italia in una dimostrazione nel cortile del Castello.
Avevo modo tra l’altro di ascoltare le opinioni di alcune disfattiste sedute dietro di me, voci querule sulla insufficienza delle notizie contenute nelle varie relazioni, sulla ristrettezza dell’humus urbano analizzato, sul mancato sviluppo del metodo adottato (storico-sociale), del come, scritte due anni fa, le ricerche apparivano nel contenuto superate perché il Movimento da allora aveva compiuto passi da gigante. Bisogna dire che tutti i gruppi di ricerca si sono scusati per queste stesse mancanze, a causa innanzitutto della frettolosità mostrata nelle relazioni perché tutte oberate della urgenza dell’esame (chi non aveva presentato una relazione o non aveva partecipato ad un gruppo di studio rischiava di non poterlo sostenere).
A me il Convegno è sembrato rivoluzionario per due motivi:
1) Il capovolgimento dei cardini del potere culturale, gli studenti erano artefici dei lavori e della informazione che portavano, non erano dei passivi violentati mentali di una cultura spesso sclerotica, disinformata per il tempo e i mezzi di studio, analfabeta che ci vuole silenziosi, impreparati a riflettere, ad indagare, a pensare, I gruppi di studio invece avevano prodotto le relazioni attraverso una ricerca non facile, impegnativa, con un metodo di difficile applicazione, quello storico-sociale.
Nel Convegno le figure di Masi e di Runcini (docenti dell’Orientale) erano pressoché sfumate, Romolo Runcini si limitava a sorridere, a coordinare il dibattito, a presentare le relazioni e gli allievi. Masi era vagante nella sala, disperso ed anonimo nella folla riunita ed entusiasta.
La loro polemica secondo me è stata così accorta, così silenziosa che pochi l’hanno recepita, pochi dei presenti avevano pienamente coscienza che quel modo di fare cultura, era quello di una università dove gli studenti sono esseri pensanti, scrutatori della realtà storica in cui vivono, che è questa una cultura che va dal basso verso l’alto nella piramide sociale, che è una cultura dove le donne e gli uomini hanno una eguale capacità di pensare, di intendere e di volere, di produrre informazioni in una prospettiva non più sterile e degradante per tutte noi. La composizione stessa dei gruppi lo mostra: gruppi di sole donne, gruppi di soli uomini (pochi), gruppi di donne e di uomini.
2) Il secondo aspetto deriva diretta mente dal primo: le indagini presentate sul tessuto napoletano avevano una collocazione rigorosamente urbana, a riguardo della donna la collocazione nel luogo e nel tipo di economia testimoniavano gli aspetti di una esistenza degradante, finalmente la vita del proletariato e del sottoproletariato veniva analizzata e mostrata nella sua triste avvilente connotazione di miserabilità degli strati più poveri, senza i soliti sentimentalismi, moralismi, l’attributo folcloristico ed emozionale dei panni spasi nel vicolo, degli scugnizzi, della vergine e della puttana, delle antiche figure di donne lavoratrici: la castagnara, la caramellara, la caperà ecc.. vale a dire la cosiddetta economia del vicolo su cui si regge e si reggeva un tempo l’esistenza di una intera fascia di napoletani.
Non poteva mancare perciò un discorso sulla donna all’interno del proletariato e sottoproletariato napoletano e a riguardo della sua funzione in seno alla famiglia e all’ambiente. Dalla indagine risulta evidente un dato essenziale: le reazioni antitetiche delle donne del proletariato e di quelle del sottoproletariato. Le prime mostrano una esigenza fortemente critica e di rifiuto dei valori che hanno condizionato le loro azioni, la loro angolazione interpretativa della realtà in generale (politica, economia, società) e in particolare (famiglia, patriarcalismo, dittatura del maschio), le seconde hanno mostrato invece una volontà di aggrapparsi tenacemente, per sopravvivere, per tranquillizzarsi, per non creare (ammesso che ne avessero i mezzi critici) altri problemi, altre ipoteche su quella esistenza già così fortemente ipotecata a valori arcaici.
Le ragazze dei gruppi di ricerca attribuivano questa diversità di reazione e di presa di coscienza alla diversa realtà economica delle due fasce. Le prime dimostravano nelle interviste una maggiore disposizione di tempo per pensare, per riflettere su se stesse, la forte precarietà economica delle seconde, una economia di sopravvivenza, esigeva al contrario la stabilità di certi valori indiscutibili, la famiglia, la diversa educazione da impartire ai maschi e alle femmine, l’autorità del marito sulla moglie, sui figli.
A me sembra che questa diversità di situazione sia anche dovuta alla diversa possibilità critica dei dati messi a disposizione delle donne delle due fasce, alla diversa potenzialità critica conoscitiva della realtà che esse possono adoperare risultante subito dal grado di cultura raggiunto, dal quoziente di istruzione delle donne del sottoproletariato napoletano tenute in uno stato di abbandono dalle altre fasce urbane, di totale disinformazione, di abissale analfabetismo.
Altre puntualizzazioni sono state presentate nelle relazioni:
a) esclusione della donna insieme agli anziani dall’ambito della produzione..
b) offesa della donna nel subordinarla a ruoli produttivi avvilenti.
c) offesa della donna nel subordinarla ai privilegi del maschio nel campo del lavoro.
d) reiterazione nei ruoli lavorativi meno mortificanti di funzioni già svolte
in seno alla famiglia (es. le insegnanti madri degli alunni…).
e) complicanze soggettive della donna a superare queste condizioni di inferiorità dovute a sensi di colpa qualora «abbandonino i figli», a fattori psicologici qualora tentino di equipararsi al maschio (l’uomo deve valere di più, deve guadagnare di più sottointendendo in fondo la consapevolezza di quanto esso sia arbitrario ed ingiusto.
Per le donne della Fabbrica Valentino la politica restava due anni fa ancora una faccenda per soli uomini, ma era ormai anche evidente come a realtà esterne e di stampo maschile nelle donne si intreccino strutture omologhe, psicologiche che fanno avvertire quelle realtà necessarie, come inderogabili nell’ordine e per l’ordine costituilo, salvo poi a metterne in discussione l’assurdo appena è concesso loro di venire in contatto con gruppi di donne più emancipate.
Nella seconda relazione è stato dato riguardo all’aspetto sessuale della vita delle donne, in particolare mogli di operai dell’Italsider di Bagnoli. E’ stato osservato:
a) per le casalinghe il sesso diventa straordinario del degradante e gravoso lavoro domestico.
b) la paura delle donne di rimanere incinte (si seccano di fare l’amore o fanno finta di star male).
c) la convinzione che la pillola fa male alla salute, l’uso dominante di metodi naturali ed insicuri (ogino, coito interrotto).
Di passaggio rilevo che l’uso della pillola viene disprezzato dal maschio in genere, non per i motivi di salute della donna, ma per il diniego espresso dal maschio alla autonomia della donna in un rapporto sessuale, per condizionarla psicologicamente ma anche di fatto, col sentirsi inseminata, col dover essere visceralmente attaccata al maschio dalla paura di rimanere incinta, ed incinta di essere abbandonata. I fautori della pillola appaiono di solito anche i più irresponsabili, quelli più attaccati all’egoismo padronale, i più restii ai sentimenti e alle complicazioni. La condizione della donna del sottoproletariato appariva ancora più seria, drammatica, ci siamo tutte rattristate rigide come eravamo sulle sedie ad ascoltare le testimonianze, che erano una ulteriore verifica di quegli aspetti e di quelle contraddizioni così appariscenti nel tessuto napoletano. Gli slogans delle femministe italiane nel cortile si facevano sempre più urgenti, sempre più urlati. Anita sorrideva, eravamo tutte emozionate per quella atmosfera di attesa che si era creata, dentro si leggeva sulla miseria delle donne e fuori la si urlava, noi emarginate tra gli emarginati brillavamo di ribellione.
L’avvilimento delle donne nei quartieri urbani e suburbani è la loro miseria, come poter pensare a stomaco vuoto, (se noi stessi per ragioni di stomaco abbiamo sospeso il Convegno per due ore) come desiderare l’emancipazione se devono far salti mortali (a Napoli si dice così) per mangiare due volte al giorno, per coprirsi, per sopravvivere in quelle case strette e stipate perché qui a Napoli le donne dormono tuttora nei bassi insieme ai loro mariti, ai loro figli ed è un miracolo se riescono a conservare la loro stanza-tugurio dove dormono, mangiano, cucinano e vanno a gabinetto. E’ questa ancora l’amara realtà del Cavone, della speranzella, dei cosiddetti quartieri (i quartieri per eccellenza a Napoli) paralleli e al di sopra tutti di via Roma. I lavori a cui possono accedere le donne del sottoproletariato (come mi sento ridicola ad usare una frase dottorale per parlare della nostra eterna miseria
sono quelli antichi, quelli che si etichettano con la espressione: la cosiddetta economia del vicolo, vendere, caramelle, castagne, panocchie, fare la stiratrice, la «capera» (pettinatrice a domicilio), la lavandaia. Oggi questo tipo di economia si è allargato di qualche millimetro: le donne dei sottoproletariato sono anche portiere di stabili, banconiste, inservienti, eseguono lavori artigianali, a domicilio. Molte sono contrarie al lavoro, molte se lavorano sono pressate dalla necessità economica, mai dalla realizzazione personale, da una conquista di autonomia, sono proprio quelle che se ne starebbero volentieri a casa «a guardare i figli». La donna deve stare in casa, l’uomo deve andare a lavorare. L’uomo che torna la sera è un uomo mortalmente stanco, per spostare una sedia, mettere un bicchiere in tavola, buttare nell’immondizia i rifiuti dei suo piatto, è stanco non tanto da non pretendere il rapporto sessuale consumato nella più assoluta urgenza di girarsi a dormire.
Secondo queste donne le decisioni prese in seno alla famiglia sono di muto accordo, tra i coniugi, man mano che si va avanti nell’ascolto della ricerca ci si accorge che questo accordo è così muto che le decisioni realizzabili sono quelle del marito, mai viceversa. Per giustizia aggiungo che ci sono anche le eccezioni, i fattori psicologici sono ben noti a tutte: la donna repressa tende a reprimere, su certi aspetti il marito, su certi altri figli. Per quanto riguarda la educazione da impartire ai maschi e alle femmine è quella tradizionale: repressione delle donne, isolamento in casa, incoraggiamento della aggressività del maschio, la creazione della sua autonomia psicologica.
La politica è delegata interamente agli uomini, sentita come materia inavvicinabile gestita dall’alto da uomini che loro sentono incapaci, ma anche proiettati verso interessi di arricchimento personale.
Dopo le espressioni amare registrate nelle parole di conclusione, parole che rilevano la impotenza, la assoluta convinzione che la esclusione dalla politica della donna è giusta, perché essa non saprebbe esprimere giudizi autonomi e significati, la delegazione si è sciolta; Anita è corsa fuori a raggiungere la Sala dei Baroni, gli slogans non tacevano un momento. In questo breve stacco si sono alzati voci, le disfattiste sedute dietro di me continuavano a vedere solo la negati-vita del Convegno, dopo qualche frase le ho sentite dire: — è logico, l’uomo è un padrone, non ci puoi trattare, o lo subisci o te ne separi —. Mi chiedevo iersera ed anche stamane che scrivo, che ho letto i giornali, perché questa cosa di tutti di passare il Convegno sotto silenzio, questa volontà di ignorare un momento decisivo di un discorso sulla cultura gestita da noi, fatta da noi con indagini dirette sulle realtà a noi vicinissime, sui caratteri di una città, di una tradizione economica, sociale, politica. Impreparazione a rilevare il carattere rivoluzionario del Convegno? Non lo so, sembra che ad alcuni esso abbia fatto piacere, di qualsiasi colore fossero le loro idee. Dopo le donne, si avvicendano sulla pedana il gruppo di studio della Multi-visione. Qualcuno urla di sbarrare le porte, gli slogans delle femministe sono altissimi. Infastidiscono. Mi alzo, corro, fuori, appena in tempo per essere al di là delle porte sbarrate dietro le mie spalle. La pioggia è fitta, gelida. Scorgo sui festoni i nomi delle città di tutta Italia; mi stupisco che tra le giovani ci siano tante donne anziane, leggo lo slogan ormai noto «A Benevento le streghe si sono svegliate, più sui roghi non ci portate». Ci sono molte ragazze sandwiches, la coordinatrice urla dal megafono: «prima di raggiungere l’assemblea posate gli striscioni, posate gli striscioni». Mi allontano dalla porta, mi fermo nel mezzo a gustare la pioggia, sorrido, è stupenda questa folla di donne ribelli di tra le luci poste sugli spalti e rifratte dalla pioggia in cristalli, l’atmosfera è soffusa, notturna, gravida di forza, di attesa, di consapevolezza. Raggiungo il porticato da dove poter vedere meglio ogni cosa. Vedo le donne salire le scale, dietro la balaustra che conduce alla sala dei baroni, qualcuna mi chiede «dove vanno?». C’è pioggia, freddo, l’umido entra nelle ossa ,nei capelli, negli occhi, eppure mi guardo d’intorno, vedo unicamente facce sorridenti, occhi luminosi. Vedo le donne salire, salire, salire in una fila interminabile. La coordinatrice del megafono dice «Per ragioni di spazio gli uomini facciano passare prima le donne, facciano entrare le donne nella sala, dopo entreranno loro. Gli uomini facciano passare le donne, le donne. Due uomini si sono fissati. Ho avuto un brivido indosso, il primo in tutta la sera, mi sono guardata intorno e accanto a me, qualcuna mi ha sorriso. Siamo scoppiate a ridere.