manifestazione contro i giocattoli ruolizzati
nel numero scorso vi abbiamo detto cosa pensiamo dei giocattoli, domenica 19 dicembre ne abbiamo parlato anche con le mamme, le nonne, le zie, a piazza Navona. Un po’ di sorpresa, un po’ di solidarietà e molte discussioni.
in una casa dipinta di rosa viveva una bambina chiamata Marianna. Questa casa era come una scatola, come un grosso cubo rosa; non aveva finestre, dalle quali poter guardare fuori e fare entrare il sole e l’aria fresca; aveva solo una porta, ma questa era chiusa e la chiave per aprirla si era perduta.
Sola sola nel suo cubo Marianna trascorreva le giornate fra le sue cose, tutte le cose belle che le avevano regalato sua madre e «uà nonna. Mobili, quadri, tappeti, libri, giocattoli, riempivano le camere della sua casa e tenevano occupata Marianna, che leggeva, giocava, osservava, puliva, cucinava. Aveva sempre tante cose da fare, tanti cassetti pieni di misteri da scoprire, tante bambole da vestire e lavare. Ma una cosa principalmente occupava la sua vita, il passare continuamente da un colore all’altro andando da una camera all’altra. Le camere della sua casa infatti erano ciascuna di un colore diverso: una rossa, una nera, una grigia, una bianca. La camera più bella era la rossa; lì non solo erano rosse le pareti, ma ogni cosa: il letto, i tappeti, i libri, i grossi cuscini sul pavimento, i quadri. Ogni volta che Marianna vi entrava si sentiva invasa da una grande gioia, piena di speranza, in preda ad uno slancio di amore verso tutte le cose e tutto il mondo.
Qualche volta trascorreva in quella camera alcuni giorni, senza mai uscirne; ma molto tempo non riusciva a restarci .perché quello slancio di amore, che non si poteva realizzare in nessun modo, era costretto a spegnersi ed a lasciare al suo posto un senso di disperazione e dì buio. Si rifugiava allora nella camera nera. Lì, nell’oscurità e nella notte, aspettava che l’ira e la disperazione passassero.
Nel suo animo alla fine rimaneva soltanto un senso di noia, come una giornata piovosa. Tutto diventava grigio: il ricamo, i disegni, i cassetti pieni di giocattoli,’le collane di corallini infilati da lei, perfino la fotografia della mamma ohe le sorrideva.
Quella era la camera grigia della sua casa… o della sua vita?
Erano i colori a modificare il suo animo o il suo animo a trasformare i colori delle cose che la circondavano?
La camera più grande era quella bianca. Tutto brillava in essa.
Si vedeva chiaramente quello che c’era e quello che mancava: era la camera della solitudine.
Soltanto lì Marianna poteva vedere con chiarezza cosa la circondava e cosa faceva; il tavolo da lavoro bianco era lì ed era soltanto un tavolo da lavoro, la libreria bianca era lì ed era soltanto una libreria, i lumi bianchi, le bambole ed I trenini bianchi erano lì ed erano soltanto lumi, bambole, trenini.
Quella era la camera più grande ed in essa Marianna trascorreva quasi
tutte le sue giornate, guardando intorno a sé e vedendo ogni giorno di essere sola.
Questa era la cosa che più la faceva soffrire; essere sola e non avere nessuno da amare.
Eppure c’era in quel cubo rosa, in un angolo nascosto, qualche cosa di vivo, di caldo e luminoso. Era un fuoco, che ardeva sempre in una vecchia fornace di terracotta.
Col passare del tempo, in quell’ondeggiare incessante fra amore, disperazione, noia e solitudine, Marianna aveva dimenticato poco a poco l’esistenza di quell’antico e inestinguibile fuoco.
Ormai non ricordava più il suo vecchio amico, al quale aveva confidato i suoi dispiaceri e i suoi sogni di bambina. Quando era piccina infatti trascorreva molte ore seduta vicino alla fornace a scaldarsi le mani, fissando a lungo le fiamme luminose che si alzavano, si abbassavano, si agitavano senza morire mai.
Ormai per lei quel fuoco non esisteva più.
Un giorno, uno di quei lunghi giorni solitari, Marianna lavorò a lungo con la creta. Costruì un elefante, una bambina, una chiave, una tazza, poi, stanca, poggiò il braccio ripiegato sul tavolo, la testa sul braccio e si addormentò. Dormì e sognò. Sognò che un elefante avanzava lentamente in un prato largo e soleggiato. Portava sul dorso una bambina che stringeva nelle mani una tazza. L’elefante camminava ondeggiando, la bambina sorrideva contenta di lasciarsi portare sotto il sole, verso il fiume che scorreva lì in fondo. Avvicinandosi al fiume furono raggiunti da un altro elefante con un’altra bambina sul dorso, anche lei con una tazza fra le mani, poi da un altro ancora. Sulla riva del fiume altri elefanti ed altre, bambine erano già arrivati, altri, altri altri ancora si vedevano arrivare da tutte le parti. Le bambine riempivano le tazze di acqua, ne bevevano, ne versavano, se ne scambiavano. E altre bambine ‘ arrivavano ancora al fiume, sul dorso di altri elefanti, ed altre ancora da tutte le parti. Gli elefanti raccolsero dei rami e li ammassarono poco lontano dal fiume, finché ne fecero un bel mucchio. Da lontano allora si vide arrivare lentamente, sul dorso di un grosso elefante bianco, una bambina vestita di rosso che reggeva fra le mani una coppa con un fuoco acceso. Allora ogni bambina si accostò a questo fuoco e presane una scintilla la poggiò fra quei rami; e questi arsero e la fiamma brillò e crepitò e salì sempre più alta e luminosa nel cielo. Il calore della fiamma risvegliò Marianna e la luce si riaccese in fondo al suo animo. Ricordò allora la vecchia fornace ed il fuoco che brillava ancora in quell’angolo dimenticato.
Sul tavolo bianco c’erano ancora l’elefante, la bambina, la tazza, la chiave, che aveva costruito con le sue mani. Potevano vivere queste sue creature come nel sogno? Poteva quel fuoco vivo donare loro una scintilla di vita? Con le sue mani Marianna mise nella fornace l’elefante, la bambina, la tazza, la chiave ed aspettò che qualcosa avvenisse.
Aspettò trattenendo il respiro, sentendo che il cuore le batteva forte nel petto; non sapeva che cosa desiderava, non sapeva se era possibile aspettarsi che il sogno vivesse o se anche questa attesa era un sogno. Le fiamme si muovevano, si alzavano, svanivano -l’uria nell’altra; le figurine nella fornace sembravano dormire in quel rogo, sembravano soffrire per il caldo, sembravano muoversi, sembravano svegliarsi.
Fu così che l’elefante e la bambina saltarono giù dalla fornace portando con loro la tazza e la chiave. Marianna, spaventata, non capiva cosa stava succedendo, non capiva se era bene o era male, solo poco a poco sentiva nascere dentro di sé la gioia, e sulle labbra il sorriso. La bambina e l’elefante posero ai suoi piedi i loro doni.
Con la tazza in una mano e la chiave nell’altra Marianna guardava chi era venuto a riempire la sua casa e la sua vita, e sentiva crescere sempre di più la gioia, finché lo slancio d’amore la spinse a correre danzando per tutta la casa. La seguivano con Io stesso ritmo i suoi nuovi compagni. Attraversarono più volte correndo tutte le stanze, passarono come volando davanti alla porta chiusa. Come colpita da una luce Marianna si fermò improvvisamente; mise la chiave nella serratura e sotto la sua spinta la porta si aprì.
Abbagliata dal sole Marianna vide solo la luce.
Poi scoprì il paesaggio. Su colline di prati verdi erano sparsi tanti ©ubi rosa, tutti uguali.
Marianna si avvicinò al primo e con la chiave ne aprì la porta, poi al secondo, poi al terzo, finché non ebbe aperte tutte le porte. Da quei cubi uscirono Francesca, Maria Giovanna, ‘Luisa e tante altre bambine come lei. In seguito Marianna insegnò loro a costruire bambine e bambini di creta, animali e cose; e questi saltando fuori dalle fornaci di ciascuna casa, incominciarono a vivere e popolarono il mondo.