Ofelia perversa indossa gioielli firmati Lalique

Presentiamo alcune poesie e un ritratto critico di Renée Vivien, poetessa floreale vissuta nella Parigi «fin de siede» fra lampade di seta, scarabei e tartarughe di bronzo.

marzo 1981

Una lucida e disperata passione per la donna, unita ad un’estatico ascetismo; una sensualità delirante che scandaglia il dato onirico per renderlo cristallino attraverso un’elegante e rara versificazione alessandrina; l’evocazione del piacere visto nel suo più impercettibile crescendo a cui s’aggiunge un cerimoniale erotico del non detto e dell’atto mancato — elementi, questi, che basterebbero a rendere René Vivien unica nella storia della letteratura.
Consapevole di questa originalità — non tanto di diversità — Renée Vivien volle autoproclamarsi, con accento provocatorio, una reincarnazione di Saffo. Ma i critici la innalzarono a figlia di Baudelaire. Una tenebrosa e notturna figlia di Baudelaire, nata troppo tardi. Una Musa delle Violette a cui si deve la venerazione di un culto più che un riconoscimento letterario.
Nel palcoscenico dell’era decadente fu la folle Ofelia che trascriveva all’infinito i versi di Swinburne, o la rappresentazione vivente di una delle Femmes Damnées di Baudelaire:
«Sdraiate, pensieroso (bestiame, sulla sabbia, / all’orizzonte dei mari volgono a tratti gli occhi. / Si cercano coi piedi; le loro mani avvinte / hanno dolci languori e soprassalti amari».
Per i contemporanei Renée Vivien è una delle tante creature esangui, fin de siede, emersa improvvisamente da una tela di Dante Gabriele Rossetti. E’ bastato e basta, tutt’ora il nome per evocare le immaginazioni più estrose: e se fosse la figlia di Edoardo VII di Inghilterra? E se fosse solo la traccia di una epoca sdilinguita ed esasperata — quella liberty? — Suvvia. Come può una persona divenire vittima di ..un… arredamento?
Ora il peggiore affronto all’immaginazione più perspicace è stato compiuto: dopo circa settant’anni dalla morte compare un atto di nascita. Dunque la Musa ha un luogo e una data di nascita. Ma, da dove e perché tutto questo mistero? Chi la conobbe? Dove sono i testimoni?
Natalie Clifford Barney, la sua amante, ma non l’unica, pone una versione di parte. I motivi: è troppo .preoccupata a restaurare un’immagine di se stessa, dopo ottomila versi di Renée Vivien che l’accusano di tradimento, ambiguità, ma che la circondano al tempo stesso delle gemme più rare, dei profumi più inebrianti…
Colette, astuta osservatrice, sua coinquilina, che pure cadde nell’inganno — e Renée Vivien ne aveva molte di maschere — presentandoci una donna imbambolata, tenera ma ahimé, abitata da nuvole e cocktails. Ne avrebbe mai predetto il suicidio?
Dove sono le sue carte, i suoi manoscritti? Dove sono le centinaia di lettere che scrisse a Charles Crun, a Pierre Louys, a Willy, a Maurras e alla stessa Barney? E la mezza dozzina di titoli ancora mediti? Tale è l’omertà, il velo anche troppo pietoso di chi la conobbe, il pregiudizio moralistico dei biografi, l’indifferenza delle cattedre, l’amnesia storica dei critici, la superficialità dei recensori, l’aneddotica dei giornalisti, gli editori che hanno sentito parlare di Renée Vivien…
Solo .Lemerre e Sansot credettero nel suo enorme pregio artistico, inclusi Le Dantec e Maurras che la salutarono come un grosso avvenimento letterario; anche Pierre Louys, Marimetti, Apollinaire parlarono di talento. Ma con quanta poca cura si parlò di una americana anziché di una inglese, di una esuberanza di costumi sessuali che riguardava una persona che passava il suo tempo ad evitare lo sguardo altrui.
Si occuparono di lei bibliofili, ricercatori d’arte, curiosi, seguaci di setta. L’erudito Saloni Reinach — ad esempio — passò parecchi anni a rintracciare documenti, lettere, prime edizioni annotate accuratamente, depositando il tutto alla Biblioteca Nazionale di Parigi, col veto di rendere edito il materiale prima dell’anno duemila. Questo, per non dare la scrittrice e la omosessuale in pasto alle belve, alimentando, suo malgrado, la leggenda nera che crebbe intorno all’enigma Vivien.
Ed è questo che ora, intatta, ci resta, perché almeno alla leggenda tutto si perdona e tutto si giustifica.
Qual è allora la sua maledizione? Quella di essersi invaghita della moda del funebre — per psicosi, che è più di una moda — che la portò alla tomba? O perché venne identificata, nel caso migliore, a quella Parigi cosmopolita, estroversa e libera che assisteva ai cambiamenti di costume di un’epoca che voleva tagliare i ponti col passato, mentre s’apprestava ad essere uno dei punti nevralgici delle future avanguardie storiche? Renée Vivien era un adoratrice del .passato. Aborriva la mondanità parigina da cui venne non poche volte ridicolizzata per il suo esprit de finesse. Nel caso peggiore fu messa nel mucchio delle signore della Brasserie du Hannetton, a rue Pigalle — famoso locale lesbico — che ospitava abituées dal collo e polsini inamidati e il gilet pieno di catene d’oro. Renée Vivien non indossò mai un pendaglio o un anello che non fosse firmato Lalique. Non ebbe il cinismo e le emicranie di una Sarah Bernhardt. Non possedeva un busto di Baudelaire al centro del salotto. Non morì né bevendo una bottiglia di profumo — come s’è scritto — né per indigestione di mandorle tostate, né di pàté.
E se Renée Vivien avesse tanto disprezzato chi la disprezzava, non degnandosi di rilasciare biografie? Se avesse avuto in odio le leggi degli uomini a cui non solo riusci a conformarsi, ma neppure a provarci? Se avesse avuto in dispregio la finta e calda umanità che presto tradisce, come supponeva? Sappiamo di certo che considerava il lavoro del biografo come uno spionaggio pubblico organizzato, che recitava i suoi versi in penombra alla presenza di alcuni amici intimi.
Dopo avere diviso con Baudelaire l’orrore dell’umano e della stirpe che riproduceva bestialità senza eleganza, senza bellezza, («Voi — scriveva — vi rianimerete del nulla. Farete vivere il non essere… Un giorno, le vostre figlie e i vostri figli vi malediranno per averli creati»). Renée Vivien sposava l’artificio, il factice, come mestiere di vivere per ritrovarvi l’unica possibilità d’essere.
Per chi avrebbe dovuto cedere le sue maschere? Per una velleitaria Liane de Pougy che pubblicava libri di sapore omosessuale, facendoseli scrivere da un suo ammiratore, (e adesso, questa scrittrice, passa in Francia, di uno dei massimi esempi di scrittura femminile!) o per una Colette che ironizzava sulle sue passita e un’effige di Saffo con una geriva tre delle sue poesie? Per una Anne, de Noailles che spediva biglietti da visita firmandosi comtesse de… per Pierre Louys che puntualmente riceveva in dono lussuose edizioni di poesie con la richiesta di un sollecito e franco giudizio, senza ottenere alcuna sincera e cordiale risposta? O, ancora, per Pierre Louys, che scriveva a Natalie Barney, parlandole di quella sua antipatica amica, assalita da una passività divorante? Chissà cosa veramente pensava Renée Vivien di Pierre Louys, un uomo che fondò la sua fortuna sulle figlie di Lesbo e sulla descrizione degli amori saffici…
Diamo un’occhiata all’interno della sua casa. Quando, con l’incedere della malattia, Renée Vivien si rinchiuse nel suo appartamento a rue du Bois de Boulogne, la poetessa esasperò quel .gusto floreale e liberty di cui si era fino ad allora circondata.
Vive a luci spente fra scarabei e tartarughe di bronzo dai dorsi fosforescenti, lanterne di seta chiara contornate da foglie in ferro battuto, ceri enormi di cera scura su candelabri di bronzo. Incenso; ciotole di riso e fiori, frutta appassita e un’effige di Saffo con una piccola fiaccola perenne: una triste prigione d’ossessiva eleganza decadente, non un luogo di orge.
Gli ospiti, che venivano selezionati con cura, spesso solo di sesso femminile, non si riunivano lì per ballare la danza del ventre. Rue du Bois fu uno dei primi cenacoli femminili che la storia del Novecento ricordi; un piccolo e ancora timido controaltare a quella Académie de France in cui — e qui piace ricordarlo — era vietato l’ingresso alle donne.

L’artificio è un tragico mestiere di vivere
E se la veglia è lacerazione di un sogno, e dello stato della rèverie, se le parole d’amore si sovrappongono all’amore — e se — infine, l’espressione scritta della passione, inebriante come un narcotico, supera la passione, a che vale vivere oltre la scrittura?
Renée Vivien raccolse le ceneri degli ultimi romantici (simbolisti, parnassiani e preraffaelliti) arrivando all’apice fino al depauperamento di uno stile: quello della parola floreale, esaltando la bellezza della medusa, il mito femminile della luna, il tragico richiamo delle acque e affrontò il tema dello specchio, solo perchè, attraverso gli occhi dell’altea, potè rivelarsi a sé stessa.
Dietro lo spreco di sensazioni tattili e olfattive, che come un oppio stordivano la banalità del reale, dietro l’assoluto superfluo delle violette, dei gigli, dei giacinti, si apriva il campo alla seduzione. Il suo desiderio della donna’— il fantasma dell’opera per eccellenza in quanto si compone di immagine e riflesso al tempo stesso — è una complessa mistura di sensualità e misticismo, urgente e procrastinabile, con tinte di sadomasochismo, di appagamento e martirio, di matrimonio e lutto.
La sua tensione psicologica la porta a scavare nell’erotismo femminile, cogliendone le sfumature più impalpabili. E la sensibilità, unita all’abilità della versificazione (Renée Vivien si sforzò di rendere in francese la strofa saffica, lavorando sui tre versi endecasillabi e un verso di cinque piedi) la induce ad un arte fatta di sussurri e musica, atti mancati e provocazione.
Il suo linguaggio arrivò fino alle frontiere di un delicato sadismo, aprendo il campo fertile della penombra e del languore — non già quello della notte e della passione prettamente romantica. I suoi versi, nati da una inquietante introversione, si costituiscono come uno specchio monumentale per l’Altra, la sua simile, con tutta l’ambivalenza che il sentimento comporta.
Per la weltanschauung decadente l’arte è il solo regno possibile che viene eretto contro «sia cieca fede di -un destino crudele». (Lukàcs) dietro cui fanno ombra le teorie darwiniane sull’evoluzione della specie e il pessimismo di Schopenheuer. La modalità sentimentale di quest’arte diventa una «prostrazione mistica di fronte al destino sentito come spietato». Renée Vivien che a questo associa le leggi “innaturali” degli uomini, usò come “negativo” e come “rivalsa” il sentimento allo stato puro, svelato, poiché solo il pathos, il dramma stilizzato, danno ragione sì di godimento, ma anche di ultima ragione di vivere per quello che si è. La parola estetica, libera dai legami del mondo, cristallina per la sua veridicità, diventa il solo momento privilegiato ed eccezionale.
Purgata dall’interesse dello smercio quotidiano, dell’arte fatta in serie, si brucia nell’attimo e di questo accoglie anche la ricchezza del “banale” (nella fase del melodramma) purché direttamente si componga del muscolo pulsante del cuore. Il futuro, per i poeti decadenti, non esiste. La propulsione all’azione e alla lotta non esiste al di là dello sguardo della decadenza. Gli occhi, che sembrano lungimiranti, in realtà si ostinano sul contorno, sullo stile («la preoccupazione della forma — scrive Vivien — m’impedisce di dire semplicemente buongiorno») che imprigiona una cadaverica e perfetta bellezza. E a questa si tenta di far aderire uno stile di vita. Non fu proprio Laforgue a ribadire che «solo dietro l’artificio più voluto e provocatorio l’uomo ritrova sé stesso, al di fuori della biologia, della macchia, delle carenze dell’io, della carne e del tempo?».
L’opera di Renée Vivien — che ancora ha bisogno di una giusta collocazione nella storia della letteratura francese post romantica (fra iin Maeterlinck e un Walter Pater e fra i seguaci di Théodore de Banville, Moréas, Villiers de l’Isle d’Adam, Lorrain e Samain) pone la poetessa, al di là di qualsiasi leggenda e qualsiasi mistero svelato e non, fra le voci più autorevoli della generazione di coloro che spesero una vita a forgiare “rime di cristallo” (Mallarmé).

 

POESIE

 

Donna m’apparve

Sopra candido vel cinta d’oliva

Donna m’apparve sotto verde manto,

Vestita di color di fiamma viva.

Dante, Purgatorio, canto XXX

 

Solleva incurante le tue palpebre d’onice,

Verde apparizione che fu la mia Beatrice.

 

Guarda i pontificanti stendere, sull’orrore

Delle nozze, il loro pianeta viola ottobre.

 

I cieli clamano i De profundis, offesi

E sulle nascite il Dies Irae.

I seni devastati dalle maternità pesanti
Come otri e fiaschi son deformi.

 

Ecco, fra l’orrore dei clamori olifanti,

Facce e occhi scimmieschi d’infanti.

 

E la cena della sera all’ombra delle cuffie,

Riunisce la stupida truppa delle famiglie.

 

Una ribellione d’arcangeli trionfò

Quando l’arpa di Saffo tremò.

 

Guarda! Le tenebre ambigue ricordano

Il sorriso perverso di San Giovanni l’equivoco.

(La Venere dei viechi, 1903; Poèmes de R. V., 1923)

 

Alla perversa Ofelia

Le rievocazioni della mia fredda follia

Rianimano i riflessi sulla palude stagnante

Dove il tuo sguardo galleggia, perversa Ofelia!

 

E’ là che i desideri ti ritrovano, cingendo

D’iris azzurri il tuo silenzio, la tua malinconia,

E’ là che gli echi s’allontanano, deridendo.

 

Di notte, l’acqua morta ha i languori delle lagune,

Ed ecco, elargendo amore ed agonia,

L’autunno dai capelli rossi, fusi alle foglie brune.

 

L’ombra segue tarda il lento dipartirsi del giorno.

Come la rimembranza d’una antica disgrazia,

Il vento soffia, e la notte lesta ritorna.

 

Misuro il nulla della mia fredda follia.

T’ho forse annegato ieri nella palude stagnante

Dove il tuo sguardo galleggia, perversa Ofelia?

 

Di sera, ho vagato forse, sofferente, cingendo

D’iris azzurri il tuo silenzio, la tua malinconia,

Mentre gli echi s’allontanano, deridendo?

 

L’acqua calma ha ancora le luci delle lagune,

Mentre vedi posarsi sul tuo amore defunto

L’autunno dai capelli rossi, fusi alle foglie brune?

 

Ho già pianto forse la tua morte nell’enigma del giorno

Che si dilegua, pieno di speranza e di disgrazia?…

O, ritmo senza risveglio, o riso senza ritorno!

(La Venere dei ciechi, 1903; Poèmes de R. V., 1923, pag. 192)

 

I succubi dicono…

Disertiamo il felice letargo delle case,

Il carminio dei rosai, il profumo delle mele

E i frutteti dove muore il mutare delle stagioni,

Noi non siamo più della razza degli uomini.

 

Siederemo sotto i tassi dove la notte s’attarda,

Dove il respiro dei Morti come una fiamma vola,

Coglieremo i fiori che appassiscono senza frutto,

E le acerbe primavere ci morderanno l’anima.

 

Vieni: ascolteremo, nel silenzio amaro,

Fra i bisbigli del vespro dell’ala bruna,

Il riso della Luna innamorata del Mare,

E il pianto del Mare innamorato della Luna.

 

I capelli cederanno i riflessi blu e rossi,

Al lamento irresistibile proveniente dalla tormenta,

Ma l’orrore d’essere non ci piegherà le ginocchia.

Lo sguardo dei succubi fermenta nei nostri occhi.

 

Nessuno vedrà le nostre ombre sulle soglie

Se non quando, fondendo l’ardore del nostro doppio odio

Noi saremo gli Spiriti che preannunciano le doglie

E delle nascite future.

 

I nostri corpi asessuati s’uniranno nello sforzo

Dei sospiri, e i pianti bruceranno le pupille.

Apprezzeremo lo splendore della Morte

E la sterilità delle cose eterne.

(La Venere dei Ciechi, 1903; Poèmes de R. V., 1923, p. 196)

 

 

Come Viviana

Il biondo zodiaco distrugge

Le sue algebre enigmatiche,

E i cigni neri della notte

Scivolano su un lago di tenebre.

 

Tu mi tendi, con un gesto arrendevole,

Le tue mani dove il loto sfiorisce.

Attraverso l’azzurro fogliame

Tu sorridi, come Viviana.

 

Ritrovo gli adorati veleni

Sotto il languore delle parole,

E i tradimenti antichi

Ti circonfondono, come aureole.

 

Lo splendore degli astri indorano

Il grigio ambiguo della pupilla.

Come posso non adorare

La tua perfidia e la tua bellezza?

(La Venere dei Ciechi, 1903; Poèmes de R. V., 1923, p. 202)

 

Alla Fiorentina

Fra i seni livida diviene una perla strana.

Sogni, mentre la tua mano si perde, curiosa

Fra i fiori di raso e le alche di seta.

Amo, come un’insidia, il tuo sorriso latino,

Le pupille astute dove l’ombra si consuma

E il collo sinuoso di paggio fiorentino.

 

I tuoi occhi grigio verdi sono simili al crepuscolo.

Le tue risa simulano ingannevoli

L’odio delicato e i risentimenti sottili.

I capelli riflettono il buio ardente dei rosai rossi.

La tua veste dal tessuto melodioso fluttua

Come un’acqua perfida dove cantano i riflussi.

 

Le piovre primaverili spiano le solitudini,

E l’aprile musicale prepara i suoi preludi;

La voragine dei mattini, l’abisso delle sere

Si schiudono; desideri simili a sconforti

Mi trascinano verso lacrime convulse e languide

Che la crudeltà cosparve di gigli neri.

(La Venere dei Ciechi, 1903; Poèmes de R. V., 1923, p. 209)

 

SAFFO NELLA PARIGI DI FINE SECOLO: VITA DI RENEE VIVIEN

 

1877: Nascita della poetessa (11 giugno) a Londra, col nome anagrafico di Pauline Mary Tarn. Di origine protestante, figlia di John Tarn e Mary Gillet Bennet, nata a Honolulu, donna pratica, preoccupata più delle convenzioni sociali che del temperamento inquieto e passionale della figlia. Pauline ha una sorella minore, Antoinette.

1886: John Tarn muore di alcolismo.

1890: Dopo un’adolescenza solitaria, passata nei collegi francesi, all’età di tredici anni, Pauline conosce Violette Shillito, sua compagna di giochi di origine americana. Nasce una profonda amicizia che si interromperà tre anni dopo, per il rientro dei familiari a Londra.

1894-95: Pauline Tarn odia la campagna inglese e rimpiange la Francia che più tardi sceglierà come patria adottiva. Inizia una corrispondenza con Amédée Moullé, cinquantenne colto, conosciuto in casa di amici della signora Tarn. Dalle lettere emerge un timido innamoramento, parallelo ad un interesse sempre crescente per la bellezza femminile.

Dopo una violenta lite con la signora Tarn che aveva intercettato le lettere della figlia, Pauline fugge di casa ma vi è presto ricondotta. Pauline l’accusa di machiavellici disegni per confiscarle i beni del padre, dopo che la signora Tarn aveva minacciato una visita psichiatrica. La relazione con Moullé naufraga a causa della sua reticenza di fronte alle palesi dichiarazioni d’amore della giovane Pauline.

1897: Un anno prima di diventare maggiorenne, Pauline Tarn ritorna in Francia per restarci definitivamente. Indipendente e ricca, grazie all’eredità paterna, si stabilisce a Parigi in una pension de famille a rue Creveux, vicino ad Avenue du Bois dove abitava Violette assieme alla sua famiglia e alla sorella Mary.

1899: Nell’inverno di quest’anno incontra la ricca e stravagante Natalie Clifford Bar-ney, nata a Dayton (Ohio) il 31 ottobre del 1&72. Suo padre è presidente della Bamey Railroad Cor Foundry. Sua madre Alice, è una famosa ritrattista formatasi alla scuola di Whistler. Natalie — l’idolo a cui Remy de Gourmont rivolgerà devotamente le sue Lettres à l’Amazone, e che fu molto conosciuta nella Parigi degli anni trenta, grazie al suo salone di rue Jacob, coinvolse Pauline in una relazione che fu definita «un’assorbimento completo, un annientamento e un culto».

Per Natale Bamey, che vanta molteplici amori, fra cui Liane de Pougy che lo descriverà in Idylle Saphique (pubblicato nel 1900); Olive Custance, che sarà moglie di Lord Douglas dopo essere stato coinvolto, a sua volta, nello scandalo Oscar Wilde per la loro illecita relazione; con la pittrice Romaine Brooks a cui resterà legata per molti anni, Pauline Mary Tarn sarà solo un episodio marginale.

Per Pauline Tarn, al contrario, Natalie sarà la sua più grande ispiratrice. Scrive nel romanzo autobiografico Une femme m’apparut…: <«Tu non sei affatto simile a Colei che sognavo, eppure trovo in te il coronamento dei miei più lontani desideri. Tu sei meno bella e più strana del mio sogno. Ti amo e già ho la certezza che tu non mi amerai mai.’ Sei la sofferenza che fa disprezzare la felicità. Ti ho vista oggi per la prima volta e sono già l’ombra della tua ombra». Ricordando l’incontro Natalie scrive nei suoi Souvenir Indiscrèts: «I sensi ancora sonnolenti di Renée rispondevano appena ai miei desideri; il suo amore nascente, esaltato dall’immaginazione, s’appropriò del mio ruolo d’amante-poeta. Dopo qualche incontro, «poiché la notte è nostra come per altri il giorno», ricevetti fiori e poesie (…).

Disturbata da quest’eccesso d’adorazione, alle quali avrei preferito momenti più reciproci, amavo comunque i versi che mi scriveva. Poi, mi resi conto che questo atteggiamento di adorazione, di cui io ero il pretesto, le era necessario e che, senza quasi conoscermi, ella aveva trovato, grazie a me, dopo la morte e la solitudine, un nuovo tema d’ispirazione: — l’amore — ma l’amore sotto un aspetto in cui, dopo Saffo, non aveva trovato poeta.

1900: Le due donne partono insieme per gli Stati Uniti dove Pauline conosce la famiglia Barney residente a Bar Harbour. Qui incontra anche Eva Palmer, una giovane americana, amica di Natalie. Pauline Tarn è resa gelosa dal comportamento libero e mondano di Natalie che è costretta ai balli per non destare sospetti. Al ritorno Pauline e Natalie passano per Londra dove Natalie regala alla sua amica una traduzione di Henry Thornton Wharton dei frammenti di Saffo. Pauline inizia a prendere lezioni di greco col professore Charles Brun per meglio comprendere i versi della poetessa di Lesbo. Intende farne una traduzione in francese.

1901: Rientro a Parigi di Pauline e Natalie che, assieme ad una governante, s’istallano a rue Alphonse de Neuville. Pauline prende lezioni di musica e prosodia francese. Inizia una folta corrispondenza con Charles Brun (che per lettera chiamerà col curioso appellativo di Suzanne) che diverrà in seguito amico fraterno della Vivien.

Sotto lo pseudonimo di R. Vivien, Pauline pubblica, presso Lemerre, la sua prima raccolta di poesie dal titolo Etudes et Préludes.

Muore a Nizza, nell’aprile dello stesso anno, Violette Shillito, non senza prima avere lanciato un appello all’amica Pauline che arriva troppo tardi .al suo capezzale. Al suo rientro Pauline —~ turbata da questa morte — scrive a Charles Brun: «Sono io la causa indiretta della morte della mia amica… Voi non sapete cos’è l’angoscia della morte — e come il desiderio di una donna amata».

In luglio Pauline lascia che Natalie riparta da sola per gli Stati Uniti, mentre la poetessa decide di raggiungere la sua famiglia a Londra assieme a Mary Shillito.

1902: Pubblica Cendres et Poussières, stavolta firmandosi per intero, e l’opera in prosa Brumes de Fjords. Natalie è a Washington. Pauline s’istalla a rue du Bois de Boulogne, dove ha trovato un appartamento vicino alla sorella di Violette. Cessa ogni corrispondenza con Natalie.

1903: Escono le raccolte Evocations, La Vénus des Aveugles, Sapho. Appena rientrata a Parigi, Natalie tenta di riallacciare i rapporti con Pauline, la quale «non vuole più assistere ai suoi amori». Nel frattempo Pauline ha intrecciato una relazione d’amore con la Baronessa Hélène Van Zuy-len, donna energica, che per la sua posizione sociale, rimase in ombra per molto tempo. Nella vita di Pauline ebbe molta importanza se apporterà le sue iniziali come dedica in quasi tutte le sue raccolte (precedute da: A mon Amie H.L.C.B. che indicano i nomi della Baronessa). Da un loro lavoro comune e sotto lo pseudonimo dì Paule Riversdale esce la raccolta Vers l’Amour. A firma solo di Renée Vivien viene . pubblicata anche l’opera in prosa Du Veri au Violet.

Natalie Barney, disperata, ricorre a degli stratagemmi e a degli intermediari per potersi riconciliare con Pauline — fra cui Eva Palmer e Pierre Louys, amico ed ammiratore sopratutto di Natalie (“la giovane figlia della società futura”). «Perché mi hai mandato Pierre Louys — scrive offesa Pauline — come ministro plenipotenziario? Credi davvero che dove le tue lettere avevano fallito, le parole di un uomo mi avrebbero persuaso?».

1904: Pubblicazione di Les Kitharèdes, e sotto lo pseudonimo comune di Paule Riversdale, escono L’Etre Doublé e due raccolte di versi: Netsuké e Echos et Re-flets. Viene pubblicato anche il primo romanzo autobiografico Une Femme m’appa-rut… e La Dame à la Louve.

Poco rassegnata alla perdita di Pauline Tarn, Natalie Bamey la insegue a Beirut dove la poetessa si reca a sentire il festival wagneriano.

Le due donne si riconciliano e partono per un viaggio a Mitilene, la mitica terra di Saffo, che diventa in poco tempo un’ oasi di serenità. Ma l’idillio viene presto interrotto dall’arrivo imminente di Hélène. Le due amanti si separano, con la promessa di una definitiva riconciliazione che mai avverrà. «Ti amo sragionatamente — scrive Pauline. E’ d’altronde l’unico modo d’amare… Sento un doloroso slancio verso di te… Tu sei la mia Ispirazione… cioè il mio io glorificato, trasfigurato, quasi inaccessibile e quasi irraggiungibile, tranne che durante rari momenti. di gioia e di dolore…».

1905: Pauline Tarn vive nel suo appartamento a rue du Bois, continua la relazione con là Baronessa e dà delle serate in casa sua. Sono spesso suoi ospiti l’editore Sansot, Ledrain, Louise Favier, Colette, Lucie Delarue Mardrus a cui scrive: «Non comprendete quanto ci sia d’umiliante e d’immorale nell’unione legittima. E soprattutto, ciò che accettate oggi, lo subirete domani… Una donna, ha mai amato un uomo? Concepisco appena una tale aberrazione. Il fatto di piegarsi al gioco maschile mi è sempre sembrata una cosa mostruosa, una passione fuori di natura (…).

1906: Pubblicazione di A l’Heures des Mains Jointes. Ricordando questo periodo di rottura, Natalie Barney scriverà: «Le nostre due nature opposte s’accordarono solo per farci soffrire lungamente l’una per l’altra. Per lei risultò una ispirazione feconda, per me una disfatta salutare. Non potendo vivere né con lei, né senza di lei, non so’ cosa fosse più penoso: i nostri tentativi di infedeltà… Divise, poi irresistibilmente attratte l’una verso l’altra dì nuovo, il nostro amore persistente subì tutte le fasi di un attaccamento mortale che, forse, solo con la morte si poteva concludere».

1907: Negli ultimi anni di vita, così Colette descrive Pauline Tarn: «Il suo lungo corpo, senza spessore, curvo, portava come un pesante papavero, la testa, i capelli dorati e i grandi cappelli che barcollavano leggermente. Con i vestiti che le coprivano i piedi, Renée camminava come colpita da una angelica goffaggine. Perdeva sempre i guanti, il foulard, l’ombrello, la sciarpa…».

Nel lusso affogato nell’ombra del suo appartamento, Pauline perde interesse per il cibo e inizia a dedicarsi all’alcol. La mancanza di una nutrizione adeguata comincia fin d’ora a minare la sua salute.

«Ti ho poco compresa — scrive a Natalie — e amata troppo male. Non ho saputo vincere il rancore, la sfiducia e l’odio che intensificavano e corrompevano la mia miserabile passione. Sono stata l’essere più odioso che mai si sia reso odioso a sé stesso. Ti ho torturato con mille raffinati supplizi. Sono stata il carnefice della mia anima…».

Pubblica Chansons potir mon Ombre.

1908: La madre di Pauline Tarn si risposa una seconda volta. Pubblicazione di Sillages, mentre di Flambeaux Eteints usciranno pochissime copie numerate e destinate ad amici. Disgustata da maldicenze nei suoi confronti, fa ritirare dalla circolazione gli esemplari in commercio dei suoi libri.

Presso l’amico Sansot pubblica L’Album de Silvestre.

Assalita da crisi d’angoscia sempre più frequenti, nel mese di agosto si reca a Londra presso i suoi familiari e lì tenta il suicidio con il laudano.

«Una volta, mentre salivo per gli Champs Elysées — scrive Louise Favier — la incrociai, seduta, accasciata, in una carrozza, con gli occhi chiusi, e sembrava l’ombra di sé stessa. Il giorno dopo mi recai da lei per avere sue notizie. Mi urtai al messaggio che era una bugia — «la signorina è a Nizza…».

1909: A firma Pauline Tarn, viene pubblicato Pour ma Soeur, dedicato alla sorella Antoinette. Scrive a Lemerre di affrettarsi ad inviarle le bozze di una ristampa delle sue opere (probabilmente si tratta del volume Poèmes de Renée Vivien) per il timore di non sopravvivere fino al giorno della pubblicazione. Intanto escono Le Veni des Vaisseaux, Dans un Coin de Violettes, Haillons, poesie che Sansot ricevette poco prima di morire, e scritte ancora con calligrafia incerta. Dopo un ultimo viaggio a Londra, Pauline Tarn, al suo rientro si converte al cattolicesimo. In primavera scrive il suo ultimo progetto letterario rimasto incompiuto, Anne Boleyn, da cui traspare che Pauline Tarn, al momento della stesura, non era in possesso di tutte le sue facoltà mentali.

Nella notte fra il diciassette e il diciotto novembre Pauline moriva, quasi del tutto in solitudine, all’età di trentadue anni. La versione ufficiale dell’atto di morte parla di congestione polmonare provocata da una bronchite contratta a Londra. S’aggiunge a questa, un’altra versione, quella pubblicata in una cronaca apparsa nel 1910 su L’In-térmediaire des Chercheurs et des Curieux e firmata da un anonimo.

«Ella soffriva da lunghi mesi — si legge nella cronaca — di una malattia generale che l’obbligava ad una dieta stretta, malattia che si manifestava in particolare con degli incidenti di paralisi assai gravi. Le sue gambe la sostenevano appena. Poi sbbe l’imprudenza di bere mezza bottiglia di liquore molto forte. La sera si mise a tavola. Dopo qualche ora la paralisi aveva fatto dei progressi spaventosi fino alla glottide. Il primo boccone d’alimento che ella assorbì fu ingoiato per via tracheica e determinò una polmonite accidentale».

Pauline Tarn, viene sepolta nella cappella di famiglia al cimitero di Passy a Parigi con il seguente epitaffio scritto da lei stessa:

Ecco, in estasi è la mia anima 

Poich’ella, placata s’addormenta 

Avendo, per amore della morte 

Perdonato questo crimine: la Vita.

1972: Muore a Parigi Natalie Clifford Barney.