ottica femminile in architettura

con un occhio nuovo “liberato”, si può ripercorrere la storia dei territorio, della città e dell’abitazione, alla ricerca del luogo di confinamento di uno dei due protagonisti: la donna.

maggio 1977

L’idea di un riesame globale della problematica architettonica, filtrata attraverso l’ottica femminile, è nata in noi dall’esigenza di calare le nostre istanze ideologiche, maturate in anni di partecipazione ai gruppi delle donne, in quello che rappresenta il nostro principale campo di studio e di lavoro: l’architettura.
Già agli inizi di questa ricerca, Lorenza portava il contributo di un’esperienza di lavoro pluriennale in un grosso studio professionale e di tre anni di assistentato nella facoltà di architettura di Milano e Maria Antonietta, allora studentessa ed oggi collaboratrice nella stessa facoltà, portava il contributo di un’esperienza universitaria più recente ma non diversa. Il minimo comun denominatore dei nostri vissuti possiamo dire sia stato un insieme di frustrazioni accumulate nel verificare giorno dopo giorno, come tutte le scelte e le teorizzazioni sul problema dell’abitare, costituissero da sempre uno dei tanti campicelli coltivati dal sesso maschile, i cui orrendi prodotti ancora oggi testimoniano l’assoluta assenza di rispetto delle reali esigenze femminili. Il punto di partenza della nostra ricerca è stato quello di interrelare le principali tappe evolutive del sistema abitativo con quelle dell’organizzazione familiare e, in particolare, del ruolo della donna all’interno di questa, per arrivare ad una progressiva riappropriazione della disciplina architettonica. Appropriarsi di una disciplina significa in primo luogo conoscerla, riappropriarsene significa conoscerla ma con occhio nuovo, l’occhio cioè reso esperto e sensibile da analoghe operazioni già condotte in altri campi, soprattutto in quello del proprio “personale” attraverso l’autocoscienza. Con tale occhio nuovo, “liberato”, si può, in questo caso, ripercorrere la storia del territorio, della città e dell’abitazione, alla ricerca del luogo di confinamento di uno dei due protagonisti: la donna. È estremamente erroneo e parziale, infatti, occuparsi dei problemi relazionandoli sempre ad un solo soggetto, l’uomo, con la pretesa di riferirsi invece a tutta l’umanità come se questa fosse formata da individui tutti uguali, quando uguali non sono affatto ed esistono invece forti elementi di sperequazione ai danni di una parte ben individuabile di essi.
Il secondo significato del riappropria-mento da parte femminile della disciplina architettonica, è quello del disvelamento dei meccanismi di condizionamento anche spaziale che la donna ha subito nei secoli.
Il terzo ed ultimo fine potrebbe essere quello della acquisizione di nuovi soggetti attivi, decidenti, in grado di portare un contributo diverso nel processo di formazione della città nel suo complesso e dell’abitazione in particolare.

la separazione spaziale tra 3 sessi
La casa, configurandosi per la donna come simbiosi di pubblico e privato, ha sempre rappresentato la sua specifica sfera d’azione, il luogo unico e privilegiato in cui è completamente accettata e giustificata. Ma questa sfera di azione, nella pratica della vita quotidiana, non è altro che il luogo deputato dello sfruttamento della forza-lavoro femminile, sublimato culturalmente come estensione della funzione genitrice della donna.
Il rapporto della donna con la casa, investito così di significati sovrastrutturali (che a loro volta determinano una proiezione simbolica della realizzazione e del corpo stesso della donna sulla casa), resta però circoscritto inequivocabilmente all’interno di essa. Al contrario, tutto ciò che concerne la più generale politica degli alloggi e la progettazione (quindi la quantificazione, la loro dimensione e configurazione interna, il rapporto con la città e l’eventuale presenza-supporto di servizi sociali), viene da sempre determinato soltanto da uomini: politici, operatori economici, urbanisti, architetti, designers…
La donna, completamente assente, dunque, come soggetto decidente, viene però completamente assimilata al concetto stesso di casa, al punto da rappresentare l’“ingrediente”, l’“ingranaggio” indispensabile della macchina abitativa (machine à habiter). L’indiscussa presenza di “una donna in casa” (naturale conseguenza dell’assenza di servizi collettivi) rappresenta, attraverso l’avvenuta ghettizzazione spaziale e funzionale, il primo livello di privatizzazione da parte dell’uomo e corrisponde al modello culturale di casa come “bene” e “scrigno di beni e persone”. Essendo dunque la donna completamente assente dal momento decisionale per tutto ciò che determina le grandi scelte urbanistiche e tipologiche in genere, si può dire che l’evoluzione del sistema abitativo sia stata la diretta conseguenza delle scelte e della storia dell’uomo.
La prima limitazione spaziale subita dalla donna, è stata di tipo territoriale e risale ad epoca preistorica, al momento in cui si verifica anche la prima divisione di rapporti sessuali, all’interno dell’orda primitiva, quella tra genitori e figli.
In questa fase, per la prima volta, la donna viene alienata dall’uso più lato del territorio. La sua sfera d’azione, infatti, viene limitata alla capanna ed al territorio immediatamente circostante, in cui viene confinata a causa delle maternità ed in cui svolge un lavoro complementare a quello dell’uomo; raccolta, cura dei bambini e degli anziani, conservazione dei cibi, manutenzione del riparo abitativo divenuto ormai stabile e punto di riferimento costante per l’uomo cacciatore.
È appunto rispetto alla totalità spaziale di cui usufruisce l’uomo che per la donna si verifica una prima rudimentale forma di segregazione. Per tutto l’arco di tempo caratterizzato dalla discendenza per linea materna (il cosiddetto matriarcato) e dalla forma di comunismo primitivo dei mezzi di sostentamento, la divisione mansionale e quindi la competenza territoriale non corrispondono ancora alla supremazia di un sesso sull’altro ma, al contrario, ognuno è libero e padrone nel proprio ambito.
Ma, man mano che le attività svolte dall’uomo si evolvono (caccia, pastorizia, allevamento, agricoltura) e determinano la nascita della proprietà privata della terra e degli armenti, la separazione tra i sessi assume anche l’aspetto di gerarchizzazione funzionale. Quando perciò l’uomo, progressivamente avvicinatosi alla casa, con l’invenzione dall’agricoltura, vi entra definitivamente e stabilmente, e lo fa da padrone introducendo la monogamia (come forma di controllo politico del corpo della donna al fine di avere figli di paternità indiscussa) e la discendenza per linea paterna. Con l’avvento del patriarcato la separazione spaziale che prima era solo tra spazio aperto e spazio chiuso, si estende anche all’interno di quest’ultimo {harem, gineceo). Da questo momento in poi il confinamento della donna all’interno dell’abitazione subirà delle variazioni di misura, a cui corrispondono altrettante variazioni nella forma, fino all’attuale ghettizzazione delle casalinghe nei quartieri dormitorio delle periferie urbane, così come in quelli residenziali dei ghetti di lusso.
Anche la segregazione di tipo territoriale, però, da quel lontanissimo momento della preistoria, resterà una costante della vita femminile, fino a tradursi nella città moderna in termini “di ostilità”, cioè mancanza di spazi, di servizi, complessivamente di “libertà”, rispetto alle esigenze più elementari della donna stessa e dei bambini a cui la sua vita continua ad essere strettamente collegata.

la perdita dei valori di relazione dell’abitare: dalla famiglia patriarcale allargata a quella nucleare
Le grosse trasformazioni subite dalla organizzazione familiare che costituiscono una fase determinante nella storia della donna sono certamente quelle del passaggio al patriarcato e lo smembramento della grande famiglia patriarcale.
Con il crollo dell’economia rurale ed artigianale e la nascita delle prime fabbriche, questo tipo di famiglia allargata cessa di esistere e dal suo smembramento nascono tanti nuclei autosufficienti.
La famiglia nucleare, composta di pochi elementi (padre-madre-figli), facilmente dissolubile, è il frutto della mobilità territoriale verso le zone industrializzate e della mobilità economica del salario che costituisce un vincolo meno saldo della bottega e della terra. Ma, mentre da un lato lo smembramento della famiglia patriarcale ed i nuovi posti di lavoro, che si creano nell’industria anche per le donne, fanno intravedere per queste ultime un’insolita possibilità di emancipazione dall’uomo, dall’altro l’organizzazione generale dell’insediamento ed i valori che vi continuano ad essere sottesi apportano invece ulteriori elementi di condizionamento per la famiglia e quindi per le donne in particolare.
Se è vero infatti che si determina una forte richiesta di manodopera femminile, motivata dalla sua minore tutela contro lo sfruttamento sul lavoro, è però anche vero che si tratta pur sempre di quantità esigue rispetto alla maggioranza delle donne che resta comunque in casa.
Ma nel precedente tipo di condizione familiare lo STARE IN CASA comportava per la donna una situazione di relazione, quanto meno con le altre donne della stessa famiglia (suocera o madre, sorelle o cognate nubili, collaboratrici domestiche, ecc.).
Inoltre, data la maggior commistione casa-attività lavorativa del marito, in molte situazioni sia agricole, che artigianali, commerciali e professionali, la moglie era in qualche misura partecipe delle stesse.
Era quindi inserita nel ciclo produttivo più vasto (oltre a gestire in proprio quello più specificamente domestico del vestiario, degli alimentari, ecc.), cosa che del resto si verificava anche per i bambini, apprendisti del lavoro paterno fin dalla prima infanzia. Si aveva quindi una situazione di discreta integrazione sia a livello funzionale che spaziale e con le altre donne ed, in una certa misura, con gli uomini (mariti).
Con l’inurbamento invece, conseguente al concentrarsi delle attività produttive, la famiglia, in via di restrizione, viene da un lato spaccata con l’enucleazione del marito che deve recarsi all’esterno, lontano per tutto il giorno, dall’altro invece viene resa più rigida ed univoca nella fissazione dei ruoli per la moglie ed i figli. Al suo arrivo in città infatti, la famiglia viene alloggiata in spazi minimi, carenti di tutto, in cui si trova isolata, poiché gli unici elementi collettivi e di relazione con i vicini, per lo più estranei e di diversa provenienza, sono elementi funzionali di tale primaria necessità (wc, lavatoi, passaggi, ecc.), da essere più che altro causa di attrito e dissapore tra le famiglie. Ma, del resto, mano a mano che l’alloggio migliora e tali servizi vi sono incorporati, la situazione peggiora ancor più ed aumenta l’isolamento rifugio dai vicini che, mancando occasioni alternative e luoghi comunitari, diventa totale.
A fare le spese di tale situazione è essenzialmente la donna che, relegata in casa per tenere in vita la FAMIGLIA e perpetuare la riproduzione, si trova a dover compiere ancora tutte le stesse funzioni di prima, ma in uno spazio molto più ridotto, assolutamente sola e quindi responsabilizzata al massimo per quanto riguarda le funzioni educative ed assistenziali,
Nel passaggio dalla vecchia forma di organizzazione familiare e residenziale a quella nuova, si perde dunque irreparabilmente l’originario tessuto di relazioni familiari e sociali che, seppure ristrette ed obbligate, erano comunque esistenti e dal loro disgregarsi non ne nascono di alternative.

Con il crollo dell’economia rurale ed artigianale e la nascita delle prime fabbriche, questo tipo di famiglia allargata cessa di esistere e dal suo smembramento nascono tanti nuclei autosufficienti.

A ciò contribuisce in maniera decisiva la soluzione urbana dell’insediamento, sia in termini di distribuzione sul territorio delle attività, che in quelli di tipologia residenziale. Nella vecchia situazione l’abitare constava di un insieme di funzioni integrate sia a livello di partecipazione umana, che di localizzazione spaziale. Oltretutto i tempi erano assai diversi dagli attuali ed anche gli spazi, sia interni che esterni all’alloggio, avevano un’altra dimensione, dovuta alla minore concentrazione umana. Nell’urgenza di alloggiare le grandi masse di lavoratori venuti in città attratti dall’industria, la funzione insediativa si scompone, invece, si disintegra ed al problema dell’abitare si dà una risposta solo parziale. In questa fase infatti anche la costruzione della casa, passa dal singolo (che la edificava talora anche con le proprie mani, a misura delle esigenze sue e della sua famiglia) ad imprenditori estranei, per lo più privati, che dalla risposta al bisogno di case fanno la propria ragione di sussistenza economica.
Nasce infatti in questa fase la speculazione sul bisogno d’abitare, che è primario ed imprescindibile per l’uomo. Nel trasferimento dei meccanismi decisionali ai pubblici poteri, che lasciano però la fase di realizzo all’iniziativa privata, nasce anche tutta la problematica inerente l’interpretazione del bisogno dell’utenza. E se agli inizi, è il mero tornaconto economico degli imprenditori a rispondere con sole case, potremmo dire addirittura con soli posti-letto, al bisogno residenziale, paralizzando così brutalmente una funzione altrimenti complessa, in seguito anche l’intervento scientifico di teorici della architettura, come quelli della Bauhaus, non riuscirà a restituire integrità a questa funzione.

nei falansterio germoglia l’utopia della donna libera
Fourier di fronte agli incalzanti ed abnormi problemi indotti dalla rivoluzione industriale si pone in termini totali cioè tenendo conto di tutte le componenti che concorrono a determinare l’assetto spaziale della vita urbana.
È, infatti, avanzando nuove proposte in queste molteplici direzioni che gli utopisti in genere hanno potuto ipotizzare modelli alternativi di vita e quindi di città. In Fourier c’è il rifiuto del nuovo mondo basato sull’industrializzazione ed da ciò può venir fuori uno dei limiti del suo discorso, radicato ancora in un’ottica illuminista che, d’altra parte, prorompe in grosse intuizioni di tipo libertario e soprattutto nella chiara percezione (e quindi assunzione) dell’evoluzione sociologica della famiglia, in parte già avvenuta e in parte solo latente ma ormai inderogabile e dello stretto nesso intercorrente tra quest’ultima e la disfunzione del sistema abitativo. È perciò interrelando le due problematiche (organizzazione sociale e familiare-organizzazione spaziale) che arriva a fare premesse coerenti per l’attuazione di una diversa forma dell’abitare. L’operazione di Fourier, bollata come utopica, si rivela da questo punto di vista ricca di anticipazioni veramente rivoluzionarie. Molto più astratto e quindi utopico è stato il credere, da parte di tutti gli operatori urbani; nel perpetuamente dei vecchi valori della famiglia patriarcale ed in quelli della nuova famiglia che andava formandosi in città e su questi basare ora una ricerca di ottimizzazione, ora una lotta sul bisogno degli alloggi, senza peraltro mettere minimamente in crisi il tradizionale sistema aggregativo nell’abitare né i rapporti personali all’interno di esso.
È invece dalla comprensione di questi meccanismi di interconnessione che Fourier può arrivare ad individuare il problema della liberazione femminile come uno dei principali fulcri, per impostare non solo l’emancipazione globale della società ma anche una nuova condizione abitativa. Tale emancipazione, per Fourier, non è demandabile a tempi successivi ma la pone già in atto nel Falansterio come garanzia della vita societaria, mediante la rottura dell’organizzazione socio-familiare tradizionale. Nella costruzione di Fourier la famiglia perde infatti il suo valore etico ed economico di fortezza rifugio e primo livello di privatizzazione di beni e persone: per la Falange il matrimonio (nel caso in cui si voglia stipularlo) non assolve, infatti, a queste funzioni. Tale nuova impostazione sociale dovrebbe permettere una completa emancipazione femminile dal lavoro casalingo ma purtroppo anche nelle previsioni di Fourier appare una grossa contraddizione.
Difatti questo lavoro viene solo riproposto ad altri livelli passando dalla segregazione nell’alloggio della metropoli borghese, al grosso cuore pulsante del Falansterio, sede dei servizi collettivi. La donna della Falange non è più subordinata al marito o al padre per la sopravvivenza ma alla collettività, sublima il lavoro in un gioco di passioni, svolge le mansioni più disparate mantenendo i più ampi contatti umani. Il suo ruolo è indubbiamente meno alienato di quello della casalinga nella famiglia patriarcale artigianale o rurale o della stessa nella famiglia nucleare cittadina ma è ancora una volta. “il ruolo”.
Un punto cardine del modo alternativo di vita associativa proposta da Fourier (che diventa automaticamente garanzia della inutilità dell’istituto familiare e dell’assoggettamento della donna alla funzione genitrice) è quello della liberazione dei bambini. Questo processo è possibile attraverso un meccanismo di deinfantilizzazione per cui i bambini vengono sottratti alle famiglie ed occupati produttivamente e collettivamente all’interno della stessa Falange.
Il meccanismo di deinfantilizzazione che si basa sulla negazione della visione borghese schizofrenica “momento di gioco-momento di lavoro” costituisce una delle più significative intuizioni di Fourier che sarà poi compiutamente sviluppata dalla letteratura femminista e che si ritrova, sotto forma di attuazione pratica, nell’organizzazione delle comuni agricole e cittadine della Cina di Mao.
Per rendere il più possibile realizzabile questo orientamento societario all’interno dell’intera comunità, nel Falansterio vengono adottati particolari accorgimenti architettonico-spaziali. Si controlla, infatti, l’estensione spaziale di tutto l’organismo che si ripiega su se stesso a corpo doppio, al fine di non estendere troppo il fronte, e l’un corpo e l’altro sono collegati da vie coperte provviste di impianti termici.
I servizi collettivi sono al centro mentre nelle ali vengono collocate le funzioni che potrebbero intralciare la vita societaria.
Si introducono molteplici occasioni spaziali d’incontro, testimonianza dell’avvenuta apertura sociale contrapposta alla segregazione dei nuclei familiari.
Nulla di questa piccola città è dispersivo o affidato al caso ma finalizzato alla facilitazione dello scambio umano, alle passioni amorose, logica conseguenza e garanzia della organizzazione societaria.
Concludendo, la scoperta più interessante e rivoluzionaria di Fourier è quella di avere evidenziato, prevedendo la fine della famiglia patriarcale, il PRIVATO come POLITICO.
A tale scopo il suo discorso sulla donna non si ferma a livello puramente emancipatorio ma arriva a teorizzare la libera formazione del “suo essere”. Pur anticipando così un autentico concetto di liberazione, Fourier non riesce ad impedire lo scontro tra queste illuminate intenzioni e la sua presunzione, tipica peraltro degli operatori della cultura maschile di voler catalogare (anche se nell’intento di non ostacolarle) le innate tendenze femminili. Frutto di tale presunzione è il massimo rigore con cui classifica 2/3 delle bambine inclini alle buone maniere ed 1/3 inclini al rischio ed alla sporcizia, invertendone, poi, la percentuale nei maschi.
Forse questo spiega perché vengano ancora confinate in mani femminili quasi tutte le mansioni di tipo domestico nel mondo di Armonia. Da questo punto di vista si può quindi affermare che il desiderio di Fourier, comune a tutti gli Utopisti, di distruggere, detestandone le conseguenze ed i guasti, l’organizzazione spaziale, economica e sociale della città industriale, si freni improvvisamente recuperando gli stessi presupposti culturali da cui la società capitalista crea “l’angelo del focolare” affinché, nell’inferno della famiglia borghese, possa regnare l’armonia.
Infatti, il lavoro, svolto nei servizi sociali del Falansterio, oppure a domicilio negli appartamenti privati dello stesso, anche se alleviati da una specie di volontariato di tipo affettivo, costituisce comunque un momento, di subordinazione.
Lo stesso Fourier prende atto di questo dato affrettandosi a specificare che si tratta di una subordinazione provvisoria in quanto il “servente” in un altro ambito lavorativo e spaziale si troverà a dirigere il lavoro del “servito”. Il fatto che la famiglia perda il suo valore etico ed economico è, quindi, necessario ma non sufficiente affinché la donna possa emanciparsi dal lavoro di tipo casalingo.

razionalismo ovvero: ottimizzazione dei ruolo domestico della donna
Il Razionalismo, maggiore movimento dell’architettura moderna occidentale, nato in Germania dalla Bauhaus (scuola d’architettura operante tra il 1919 ed il 1931), fa della risposta al problema casa, ulteriormente acuitosi nella Germania post bellica, la sua tematica fondamentale.
Ma, benché si dedichi con accanimento estremo, al limite dell’abnegazione, all’analisi delle esigenze dell’uomo in tutte le sue attività, non riesce a superare neppure minimamente il problema.
Il suo rigore scientifico e metodologico infatti viene applicato con procedimento meramente deduttivo ai problemi concreti che si manifestano nell’espletamento delle singole funzioni abitative, senza peraltro mai mettere in dubbio il tipo di organizzazione sociale, familiare e di ruoli che vi sono sottesi. Cade perciò nell’equivoco, di tipo meccanicistico, di indagare le funzioni che la MACCHINA SISTEMA ABITATIVO deve compiere per un buon rendimento globale, dando assolutamente per scontato, anzi cercando di ottimizzare un certo modello di organizzazione della famiglia e di comportamento dei singoli, colti più che nelle loro esigenze umane profonde, in quelle di adeguamento al tipo di organizzazione economica capitalistico-borghese che si stava instaurando.
Con ciò il Razionalismo perde l’occasione di porsi come movimento rivoluzionario, per restare invece scuola operante all’interno della borghesia, cui del resto si rivolge in prima persona.
Così naturalmente viene posto in dubbio il fatto che all’interno della macchina abitativa ci sia una presenza umana per farla funzionare e che questa presenza di tipo femminile, la MASSAIA.
Sono infatti i movimenti della donna all’interno della casa (sorvegliare i figli mentre qualcosa cuoce sul fuoco e lei sta facendo qualche altra cosa) che vengono analizzati per essere ottimizzati.
Nello stesso tempo però, impostando di problema spaziale dal punto di vista della minimizzazione, si riduce proprio il suo spazio vitale e così anche quello dei bambini.
È infatti in questo periodo che s’introduce, ad esempio, la soluzione della CUCINA IN NICCHIA che, prevista solo come appoggio ad un servizio esterno collettivo, finisce con il sopravvivere anche in assenza dello stesso.
È da qui che nasce il tipo della CUCINA NON ABITABILE, poi universalmente adottata fino ad oggi, che presuppone la funzione del “servire a tavola” in altro luogo, il pranzo, retaggio d’un modo d’uso della casa di tipo nobiliare, cioè con disponibilità di servitù, che in alternativa è svolto dalla donna.
Quest’ultimo esempio è significativo di come il Razionalismo, non avendo impostato il problema in termini socialmente innovativi, presta il fianco al recepimento di modi d’uso imitativi del modello nobiliare fino ad allora correnti, e con ciò aggiunge un ulteriore elemento d’incongruenza, e quindi di disagio per gli utenti, nel processo di minimizzazione.
La casa nel suo insieme è definita, nel-parole di uno dei più scientifici teorici del Razionalismo, A. Klein “rifugio dalle contraddizioni e dai conflitti della città, luogo privilegiato della intimità, del riposo e della ricostruzione della forza lavoro”.
Nessun dubbio che, affinché qualcuno (marito e figli) possano fruire di tutto ciò, qualcun’altro (la moglie-madre) debba sacrificarsi e lavorare anche oltre l’orario lavorativo dei suddetti.
Se infatti il Razionalismo imposta il problema della centralizzazione e collettivizzazione dei servizi domestici, ciò accadde soprattutto in riferimento a situazioni di individui singoli o coppie sole, ritenendo, sulla base di un calcolo puramente economico, che per le famiglie sia da preferirsi l’espletamento in proprio di tutte le necessità.
Appare scontato che in tali situazioni sia la donna a sostituire i “servizi residenziali”, come del resto anche quelli sociali che, benché teorizzati, difficilmente però sono presenti nella realtà. Il Razionalismo dunque, per risolvere il difficile problema di restituire integrità al fenomeno abitativo, completandone le funzioni, lo ha disaggregato riducendolo alle sue entità elementari, ma poi da questa semplificazione “scolastica” non è più stato in grado di risalire.
Forse il solo Le Corbusier si è avviato in tale direzione, introducendo un certo numero di servizi all’interno dello stesso organismo edilizio comprendente anche gli alloggi (Unite d’habitation).
L’esame anche spaziale dei quartieri realizzati dagli esponenti del Movimento Moderno in architettura rivela per lo più organismi stereotipi, ben distinti tra loro e dai servizi a nessun livello interagenti.
Possiamo perciò dire che con la lezione del Bauhaus si è creato il presupposto, anche teorico, affinché, nella pratica di attuazione di tutti gli interventi che in seguito si sono rifatti a tale scuola, si desse una risposta al problema abitativo solo per parti, espletando la funzione più urgente ed imprescindibile, quella di “alloggiare”, e rimandando invece, talora, all’infinito, la realizzazione di tutte le altre, ugualmente necessarie, ma differibili, e soprattutto delegabili.
Destinataria di tale delega è la donna che, “naturale” supplente di tutte le carenze del sistema abitativo, consuma il suo tempo-vita tra percorrenze urbane per fruire dei pochi servizi esistenti (con cui aspirerebbe a spartire le responsabilità educative ed assistenziali, che le sono completamente demandate) e la manutenzione di una casa in cui invece è rimasto inalterato e il numero delle funzioni originarie (lavare, stirare, cucinare, rigovernare, ecc.) ed i modi d’uso (“salotto buono”, “camera matrimoniale”, chiusa ed inviolabile allo sguardo, servizi, tra cui la cucina, rivolti verso il cortile, oppure addirittura inesistenti come spazio proprio, ecc.).

la città fallica
L’artefice a tutti i livelli del processo di costruzione della città nel suo complesso, ‘ così come delle singole unità abitative, è stato l’uomo, inteso come categoria sessuale specifica e non come “tutta l’umanità”.
La donna infatti è stata esclusa dalla responsabilità di costruire le abitazioni fin dal momento in cui esse hanno cessato di essere ripari provvisori e caduchi per divenire dimore stabili, quindi “beni”, barattabili con altri beni all’interno di una economia divenuta ormai di scambio e con il predominio economico e sociale che l’uomo acquisisce, rispetto alla donna, in concomitanza con l’affermazione dell’agricoltura (e quindi della monogamia e del patriarcato). In questa fase infatti egli assume la potestà della casa e vi rinchiude i suoi averi, tra cui la donna ed i suoi figli.
Ancor’ oggi l’attività edificatoria è una mansione femminile presso quelle tribù che sono in situazioni climatiche e soprattutto socioeconomico paragonabili a quelle preistoriche antecedenti lo sviluppo dell’agricoltura quale fondamentale forma di sostentamento e di attività (nell’Africa centrale, in certe zone dell’Asia e in alcune isole del Pacifico).
Ma da quel lontano momento della preistoria in poi tale competenza è sempre stata invece, a tutti i livelli, appannaggio maschile, essendo tali gli operatori relativi, sia politici (governanti e legislatori), che economici (finanziatori ed imprenditori) e tecnici (progettisti e realizzatori).
È perciò che l’insediamento umano rappresenta la traduzione fisico-spaziale del potere che l’uomo riveste nei vari gradi e settori, delle sue esigenze, dei suoi scopi esistenziali e complessivamente della sua maniera di vivere.
Ma, poiché la vita dell’uomo non è strettamente relazionata con i problemi del risiedere (alloggiare la famiglia, i figli e procurarsi ciò che è utile a tale scopo), demandati invece alla donna, la città si è sviluppata e trasformata nelle diverse epoche secondo ben altro tipo di esigenze: ora belliche (città fortificate), ora celebrative (città monumentali), ora economico-speculative (città capitalista).
‘ Questi e simili sono i tipi di esigenze che hanno via via configurato il rapporto dell’insediamento umano con il territorio (ora sparso ora accentrato), quello delle diverse attività tra di loro (integrate o separate), le tipologie residenziali (unifamiliari piuttosto che plurifamiliari) o persino l’alloggio stesso (nelle sue caratteristiche sia dimensionali che distributive), determinando nel complesso una struttura spazio-funzionale che condiziona in maniera molto precisa la vita al suo interno.
È perciò naturale che la donna, assente sia dal momento decisionale che da quello operativo di questa realtà, anche se in ultima analisi destinataria, come gerente e fruitrice, di una buona parte di essa, la viva come estranea, incontrandovi difficoltà ed ‘ impedimenti allo svolgimento di quelle mansioni che pure le sono demandate.
Ma, mentre in alcuni periodi della storia, antecedenti la rivoluzione industriale e l’inurbamento, la condizione abitativa femminile era anche quella dell’uomo della stessa classe sociale, data la maggiore commistione tra attività lavorative e residenza (ad esempio nel Medio Evo), oggi, in presenza della maggiore divisione e specializzazione dei ruoli, così come dei luoghi (casa e lavoro ben distinti e per lo più lontani), diventa condizione specifica e particolare.
Quindi più acuta risalta l’incongruenza tra gli scopi e le esigenze dell’operatore e quelle del destinatario.
È certo infatti che una città che deve massimizzare la remunerazione degli investimenti privati in terreni e case (rendita fondiaria ed immobiliare) non può minimamente tenere conto di quelle esigenze e quindi di quelle funzioni urbane che non sono in grado di pagare tali rendite.
Non è infatti certamente casuale che la città occidentale-borghese sia andata configurandosi come città piramidale, con l’esaltazione di un centro che riunisce le funzioni ed i servizi più prestigiosi e numerosi, via via decrescenti verso la periferia, dove invece sono sempre più relegate le residenze medio-popolari.
La conseguenza è la scarsissima dotazione di servizi e la quasi totale assenza di qualità urbane nei quartieri residenziali, da cui comunque l’uomo esce la mattina per farvi ritorno la sera, e in cui resta invece la maggior parte della popolazione femminile che si trova a non avere strutture di cui avvalersi nell’espletamento delle sue molteplici mansioni quotidiane, cosi come nessuna alternativa sociale (ghetto).

La carenza dei servizi più propriamente “residenziali”, cioè quelli che dovrebbero essere il naturale completamento di alloggi sempre più ridotti e di una vita sempre più privatizzata, è tuttavia caratteristica di quasi tutte le zone della città ed obbliga perciò le donne, che devono comunque supplirvi, ad affrontare lunghi giri urbani, cui sono costrette anche da un nuovo tipo di incombenza, quella di sbrigare pratiche burocratiche per tutta la famiglia, marito compreso.
Ma i percorsi e la mobilità urbani non tengono affatto conto, anche solo dal punto di vista tecnico-fisico delle loro, del tutto caratteristiche, esigenze di spostarsi con appresso un carico, sia esso di vettovaglie piuttosto che di figli (siano essi in carrozzina o no).
A quest’assetto fisico-spaziale della città, strutturalmente estranea alla donna per i motivi suddetti, si sovrappone inoltre l’insieme, sovrastrutturale, delle maniere d’uso e dei comportamenti ugualmente estranei alla popolazione femminile in quanto espressione del “pubblico” dell’uomo.
Ciò fa sì che l’“estraneità” si traduce addirittura in “ostilità” quando la donna, per tentare di perseguire la libera espressione della sua individualità esce, anche solo momentaneamente, dal ruolo assegnatole.
Fruizione della città da parte della donna:
LA CITTA’ DI GIORNO
Di giorno la donna è accettata ma essenzialmente nella veste di madre, di consumatrice e di lavoratrice. In questi casi può circolare abbastanza tranquillamente nell’espletamento delle sue funzioni.
LA STRADA: Anche nei casi sopracitati la donna deve comunque muoversi in un ambiente “estraneo”, in cui l’assenza, di rispetto verso la sua persona si manifesta ad ogni isolato dai muri tappezzati di cartelloni pubblicitari che riproducono immagini di “donne-oggetto” ed ad ogni edicola che espone bene in vista altre immagini ancor più degradanti. La prevaricazione fisica diretta può verificarsi, invece, su tram e metropolitane affollati. In questo caso la città si manifesta non solo sottoforma di “estraneità” ma anche sotto quella di “aperta ostilità”.
I NEGOZI: Sono aperti solo di giorno e costituiscono in queste ore un grosso alibi per la donna che ha voglia di uscire di casa. Le regole del sistema sono queste: l’uomo produttore – la donna consumatrice. Così mentre l’uomo nel negozio con la lista della spesa o per strada con la sporta piena fa sorridere, la donna nella quotidiana affannosa ricerca del supermercato meno caro viene accettata senza riserve.
LA CHIESA: È aperta solo di giorno. Qui la donna è accettata e giustificata né più né meno che in casa: si tratta infatti di un’altra casa, quella di Dio.
IL BAR: La donna, di giorno, vi può accedere con una certa sicurezza, anche se questo luogo ha quasi l’aspetto di un locale per soli uomini.
I GIARDINI: Qui la donna è accettata soltanto nella veste di madre o accompagnatrice di …
L’ASILO, LA SCUOLA: Uno dei più grossi handicap nella vita quotidiana della donna è costituito dalla carenza di asili e nidi d’infanzia. Quando questi servizi vengono istituiti è sempre la donna ad esserne beneficiata direttamente sia come fruitrice del servizio stesso, sia come lavoratrice (puericultrice, maestra d’asilo). La presenza femminile è ancora massiccia ai vari gradi nelle scuole il cui livello didattico non raggiunge punte di alta qualificazione.
LE UNIVERSITÀ’: Il corpo docente appare compatto nella sua monosessualità. Tutte le donne che vi hanno accesso, indipendentemente dal ruolo che ivi rivestono, vivono una dimensione subalterna.
IL POSTO DI LAVORO: Il posto che la donna occupa nel luogo di lavoro non ha niente in comune con la soffice poltrona del megadirettore. Nel migliore dei casi la donna viene collocata nell’anticamera del principale alla macchina da scrivere. Comunque non riesce a sentirsi completamente sgravata dagli infiniti problemi del “privato” che l’uomo da sempre delega alla moglie.
I CIRCOLI POLITICI E CULTURALI: Mediamente la donna vi partecipa nella veste di accompagnatrice o, quantomeno, di spettatrice e la sua qualifica, quando c’è, si limita a quella di “donna del tale…”. Se poi si tratta di riunioni al vertice, così come in -altri luoghi sempre in simili circostanze (riunioni sindacali, parlamentari, concili, consigli di facoltà ecc.) la presenza delle donne viene a mancare completamente: l’unica tacita evocazione della figura femminile è la “vera” che quasi tutti i convocati (preti esclusi naturalmente) anche i più giovani, portano al dito, testimonianza discreta del comodino domestico che li attende a casa.
LA CITTA’ DI NOTTE
Col calare della sera per la donna scatta l’ora del coprifuoco.
Cessando le sue funzioni di accompagnatrice di bambini, di consumatrice o di lavoratrice, non può permettersi di circolare liberamente per semplice svago. Ogni donna sa, per esperienza vissuta in prima persona, quanta poca sicurezza dia girare sola di notte, Se si ha proprio voglia o necessità di uscire di casa, per non essere disturbate, bisognerà farsi accompagnare da un uomo.
LA STRADA: Più che mai, dunque, di notte viene rispolverato il vecchio mito di “strada simbolo di perdizione” contrapposto alla “casa come rifugio”. La strada in queste ore, non a caso, registra un certo tipo di presenza femminile, quella delle prostitute: ennesima testimonianza che la città offre dell’avvilimento della figura femminile. È dunque in un generale quadro di mercificazione del corpo della donna (dovuta alla disparità sessuale di potere) che l’uomo sa di poter esplicare le sue avances più o meno violente senza porsi minimamente il problema di quanto possano essere gradite dalla donna che le subisce.
I NEGOZI: I negozi che riservano alla donna un margine di giustificazione ai suoi spostamenti per la città e le rendono la strada meno ostile, di notte sono chiusi.
LA CHIESA: Di notte è chiusa, come ogni altro luogo dove la donna è accettata senza riserve.
IL BAR: È aperto anche la notte quando, più che mai, assume la caratteristica di locale per soli uomini. Qui, dove la donna di giorno è abbastanza accettata, di notte viene guardata con sospetto e resa oggetto di attenzioni poco gratificanti.
I GIARDINI: Di notte per le donne sono tabù: una passeggiata corrisponderebbe ad una aggressione sicura.
L’ASILO, LA SCUOLA: Sono chiusi.
LE UNIVERSITÀ’: Sono chiuse.
IL POSTO DI LAVORO: È chiuso.
I CIRCOLI POLITICI E CULTURALI: Anche in questo momento di ritrovo serale, la donna sarà generalmente accompagnata da un uomo e si troverà coinvolta nei medesimi meccanismi di emarginazione sopracitati.
LOCALI NOTTURNI E CINEMA: Di notte sono aperti, ma la donna normalmente non vi accede mai sola. In caso contrario, verrebbe violata la sua libertà individuale.
Comunque, anche soltanto assistere ad uno spettacolo cinematografico o teatrale (sia pure ad un certo livello culturale), si traduce per la donna in un ennesimo disagio, dovuto alla constatazione di un ennesimo processo di degradazione della sua immagine.

la casa dell’uomo
Il fatto che la concezione dell’alloggio sia — il frutto di una mente maschile, che comunque ne fruisce senza accudirvi — il risultato di una logica economica, che specula anche su un bisogno primario come quello dell’abitare — il luogo di rappresentazione del proprio stato sociale e familiare, essendo ancora concepito come “bene” e non; come “servizio”, e quindi sede di proiezione delle aspirazioni alla promozioni; ne sociale (status simbol) — oltre che il “focolare” ed il “rifugio”, in una ! società che non offre alternative, ha i fatto sì che l’intera impostazione attuali le dello stesso sia falsa ed errata, in quanto non risponde alle vere esigenze dei suoi fruitori, ed in particolare delle donne e dei bambini che pure vi passano la maggior parte del tempo.
Si è verificato che la riduzione degli spazi abitativi (MINIMIZZAZIONE), di fatto operante dalla Rivoluzione Industriale in poi, come conseguenza dell’inurbamento della popolazione e della riduzione della dimensione familiare (famiglia nucleare), e teorizzata dai Razionalisti, si è nella realtà risolta in ; MINIATURIZZAZIONE di un tipo di alloggio precedente, quello nobiliare.
Ma tale tipo di alloggio presupponeva una logica di organizzazione socio-familiare ben diversa dall’attuale, e basata sul rapporto di subalternità tra padroni e servitori che, in assenza di quest’ultimi, si è trasferita sulla donna la quale, anziché acquisire nuove possibilità di liberazione nella nuova, più agile dimensione abitativa, ha perso anche quelle di, seppure relativa, socializzazione (con altre donne), che la situazione precedente comportava.
È così che negli schemi distributivi ; anche, e soprattutto, dei più recenti alloggi, si trova la cosidetta CUCINA NON ABITABILE, che presuppone il \ pranzo della famiglia in altro ambiente e quindi il “servizio-tavola”, appannaggio, come tutte le altre funzioni domestiche, del gentil sesso presente; tale cucina inoltre, concepita sempre come ambiente, di servizio, anche se la casalinga vi passa molte ore della sua giornata e spesso con attorno i bambini, è per lo più ricavata come ritaglio dagli altri ambienti, dislocata nel lato più sfavorito dell’alloggio stesso, con esposizione su cortile, e rifinita squallidamente.
Le funzioni di rappresentanza, anche esse retaggio di un tipo di vita più formale, hanno trovato espressione sintetica nel sopravvivere di INGRESSI e CORRIDOI, spesso inutili e sovradimensionati, ma non tanto da poter essere utilizzati per funzioni diverse da quelle del passaggio, e nel permanere di quel “salotto buono”, il cui concetto spesso informa anche l’uso del più moderno soggiorno”, sottratto all’uso quotidiano e all’esigenze di maggior spazio-gioco dei bambini o di isolamento degli adulti.
I bambini vengono invece spesso relegati nella ZONA-NOTTE avente di solito un affaccio meno favorito del soggiorno e dimensione dei locali, soprattutto delle camere per i figli, minori.
Più favorita, in molte soluzioni, resta ancora la STANZA DA LETTO MATRIMONIALE, di solito più grande e meglio esposta, ma chiusa ed inviolabile allo sguardo e inutilizzata per tutta la giornata.
Analogo tipo di discorso vale per i materiali di finitura e gli arredi. Per entrambi si nota la stessa ambiguità tra la rappresentatività (il lusso) e la economicità, l’una e l’altra producenti come unico effetto quello di un maggiore lavoro di manutenzione necessario sia nel caso di materiale pregiato (ad esempio marmo) che in quello di eccessiva economicità e quindi deperibilità.
Gli arredi poi, come tutte le suppellettili domestiche, rientrano nella ottica del consumismo e quindi dell’invito al rinnovo del gusto, indipendentemente dalla funzionalità sia come uso che come manutenzione. Ma tant’è (!), esiste, comunque, sempre, chi provvede a fare funzionare il tutto e di solito si tratta di una persona diversa da chi l’ha pensato e da chi l’ha realizzato.
Non esiste del resto alternativa, non c’è la possibilità di scegliere situazioni abitative diverse, secondo le proprie maggiori o minori aspirazioni ad investire nella manutenzione della casa la propria vita.
Le tipologie aggregative sono infatti di un unico tipo, senza spazi di socializzazione e servizi collettivi, il taglio dimensionale pure (3-4 locali più servizi), i criteri distributivi e di finitura improntati alla stessa mancanza di sensibilità.