politico è personale
il titolo non è provocatorio. È semplicemente una frase che racchiude una sentita, anche se non sistematica, riflessione sui fatti dell’università di Roma.
L’8 marzo, alla nostra bellissima manifestazione, insieme ai duri slogans contro il lavoro nero, la sottoccupazione, i licenziamenti, il ricatto sessuale, si sentiva scandire: «Panzieri libero!»; e il grido non cadeva nel vuoto, perché tante lo raccoglievano e lo riproponevano con sempre maggior forza. Questo che significa? che le femministe hanno inquinato la propria manifestazione? Una valutazione di questo tipo mi sembrerebbe troppo affrettata e superficiale. La compagna Anna, che ci rende la testimonianza della sua esperienza di occupazione e di lotta nel movimento, non è un caso isolato; molte altre si sono misurate e si misurano tutt’ora con la rabbia, la disperazione, il giocare il tutto per tutto che nell’università sono scoppiati e che dall’università si sono propagati in un tessuto sociale evidentemente pronto a recepirli. Non mi sento ora, con gravi fatti vissuti personalmente troppo di recente, di teorizzare su questo composito movimento; la razionalizzazione, forse avverrà dopo, quando, superata la fase spontanea e contraddittoria della prima ora, sarà possibile individuare con più chiarezza le proposte politiche e le linee di direzione che in questo momento si accavallano l’una sull’altra travolte dalla parola d’ordine «tutto e subito». Non mi sento nemmeno di dividere i «buoni» dai «cattivi», perché non farei che avallare una vecchia logica di potere che ha sempre cercato, nei momenti di maggior tensione, di spaccare le masse e di metterle l’una contro l’altra.
Quello che però mi sembra opportuno sottolineare e proporre come momento di riflessione e di confronto con tutte le compagne è il grande tema che è uscito da questa università fatiscente, cioè il problema dell’occupazione. Tutte le forze politiche ne parlano in modo diametralmente opposto, ma anche le proposte più oculate, come quella della FLM sull’occupazione giovanile
dove si sostiene, tra l’altro, che il sindacato deve «avviare la sperimentazione di un intreccio tra scuola e lavoro, con regimi di orario giornalieri e settimanali ridotti che consentano lo ingresso nell’area della produzione contemporaneamente alla continuazione o alla ripresa dei processi formativi, sia nel senso di formazione professionale che di formazione scolastica generale»
non tengono in sufficiente conto, forse per propria impossibilità istituzionale, delle caratteristiche precipue dei giovani disoccupati della scuola e dell’università. Anche se si riconosce la disoccupazione giovanile non come un fenomeno contingente legato alla crisi, >ma come un problema strutturale dell’economia capitalistica, i contorni poi delle risoluzioni e ipotesi risultano nebulosi.
Secondo me il nodo da sciogliere è la attuazione reale della «democrazia dal basso», cioè la capacità di aggregare su problemi comuni strati sociali apparentemente disomogenei che poi, individuati gli obiettivi, lottino insieme.
È un tessuto connettivo da costruire, che passa anche attraverso alcuni momenti già individuabili, come per esempio le 150 ore, ma che non sono sufficienti da soli. I disoccupati organizzati, le donne emarginate, espulse dalla produzione, nuovo esercito industriale di riserva di manodopera dequalificata, gli studenti, d diplomati e laureati in cerca di prima occupazione da anni sono le realtà sociali che il sindacato come istituzione non può tutelare; e allora si crea l’apparente paradosso della condizione di privilegio (sic!) che vengono ad assumere gli occupati rispetto a chi occupato non è. Proprio tenendo conto di tutto questo mi sembra importante una mobilitazione collettiva per analizzare, capire, far procedere questi temi. Perché se è vero che le donne più emarginate, le casalinghe, attraverso le 150 ore trovano un’occasione di uscire dal ghetto e dall’isolamento in cui hanno vissuto per anni e possono impadronirsi degli strumenti concettuali per analizzare la propria condizione di emarginate, per imporre nuove condizioni di vita che diano libero sviluppo alla personalità, è anche vero che questa acquista validità soltanto nella misura in cui da esperienza personale diventa condizione collettiva e sociale. Attraverso strutture già esistenti (collettivi, consigli di quartiere, consigli di zona) o altri da inventare è necessario confrontarsi e crescere insieme, rompere la divisione del lavoro a tutti i livelli che per la società capitalistica è la garanzia per la propria esistenza. L’università a sua volta deve spostare il proprio asse di ricerca, deve accogliere e fare proprie le esigenze della base, la necessità di «conoscere per cambiare» che significa un uso diverso della scienza, una demistificazione della tecnica come asettica dispensatrice di progresso. Questo significa anche chiamare in prima persona noi, come donne, a misurarci sul terreno delle questioni economiche, a capire insieme, in una riflessione che ci coinvolga tutte ma che rimanga sempre aperta al rapporto con tutte le componenti sociali, che cosa significhi per noi l’accumulazione del capitale, l’orientamento della produzione e degli investimenti, la distribuzione del reddito.
Non esistono evidentemente formule precostituite, ma solo la consapevolezza di incamminarsi sulla strada della ricerca culturale e politica autonoma e collettiva.