processo per stupro
stupratori, uscite dalle toghe!
Non è solo dovere d’ufficio quello che induce gli avvocati difensori a diffamare le donne per salvare gli imputati, A colloquio con le autrici di «Un processo per stupro».
giovedì 26 aprile è andato in onda sulla seconda rete TV il filmato Un processo per stupro, di cui avevamo dato notizia nel dicembre scorso. Una testimonianza diretta di come si svolge nella realtà la violenza istituzionale sulle donne, realizzata da una équipe di donne, femministe, che da molto tempo lavorano nel campo dell’immagine (cinema o televisione o fotografia). Esperienze diverse, vite diverse, hanno dato vita a questo gruppo di lavoro formato da Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Roni Daopoulo, Paola De Mortils, Annabella Miscuglio, Loredana Rotondo.
Ci siamo incontrate con loro per farci raccontare la loro esperienza, le loro scelte espressive, la storia di questo lavoro che è stato così importante per noi.
Io lavoro alla Rai. Nella programmazione televisiva, malgrado lo sforzo di alcune compagne, manca una continuità di rapporto col femminismo. Allora ci siamo poste il problema di seguire dall’interno quello’ che di più importante avveniva nel movimento. L’anno scorso, per esempio, abbiamo filmato il convegno sulla “Violenza contro la donna” organizzato da Effe e dall’MLD e per il quale la TV non si era per niente mobilitata. Una volta visionato il materiale girato ci siamo rese conto che era troppo interno al movimento nei suoi contenuti e che per farne un programma avremmo dovuto integrarlo con qualche altra cosa. Ma a quel punto il discorso sulla violenza sarebbe diventato ancora una volta un discorso su un discorso, secondo il metodo tradizionale della nostra televisione. Volevamo invece dar valore all’immagine, far vedere qualcosa dall’interno, prendere una notizia o un evento nel suo svolgimento.
Rispetto all’uso del mezzo, avevamo scelto di girare in video-tape, che per le sue caratteristiche tecniche ci dava tutta una serie di vantaggi sulla cinepresa (maneggevolezza, minori costi, la possibilità di girare, a lungo, pochi problemi di luci); pensavamo che una cosa sono le immagini riprese dagli uomini, un’altra sono le stesse immagini riprese con Una coscienza femminista. Non era la prima volta che si riprendeva un processo per stupro; c’erano state le riprese dell’equipe di “Cronaca” al processo di Verona, interessanti sì, ma fortemente condizionate da una mentalità maschile, oltretutto erano brevissime. Gli uomini quando guardano le donne, qualunque sia la loro simpatia, le guardano sempre distinguendole in belle o brutte, ecc.
Ci sembrava importante cercare di acquisire una certa autorevolezza anche tecnica ai nostri stessi occhi, cosa che spesso le donne non hanno. Riuscire a costruire qualcosa all’interno di questa storia del processo di Latina era un’esperienza importante rispetto ad un simbolico esterno, maschile, istituzionale, importante filtrarlo attraverso una sensibilità femminile di cui forse non riusciamo a trovare un nome, ma che occorre tirare fuori. Così siamo partite una mattina per Latina e abbiamo piazzato le macchine,
‘Ci interessava anche fare un discorso politico, militante, che non avesse il tono dell’inchiesta e che soprattutto passasse attraverso l’immagine, più che attraverso il commento verbale. E la situazione che andavamo a riprendere si prestava particolarmente a questa nostra esigenza, in quando un processo è già di per sé una rappresentazione. Abbiamo giocato su questa “messa in scena” e la nostra interpretazione del reale risulta dalle riprese, che hanno cercato di cogliere quello che volevamo mettere in evidenza. Dalle riprese e dal montaggio in cui, per esempio, i volti degli stupratori interrogati si susseguono l’uno all’altro a un ritmo incalzante che allude alla scena vissuta da Fiorella. Vorrei notare che la descrizione forbita e insistente dei gesti sessuali evocati da uno degli avvocati, con notevole immaginazione (o immedesimazione?) svia l’attenzione dal reale, trascina psicologicamente il giudice — e lo spettatore — nell’immaginario, realizzando quel gioco tra realtà e immaginazione proprio della situazione cinematografica.
C’è stato questo preciso tentativo: modificare la maniera con cui finora il documentario — la ripresa del reale — è stato fatto. Si è spesso dimenticata la sua “nobiltà”, pensate a Ivens, a Flaherty, Leni Reifenstahl; insomma esistono riferimenti a inchieste fatte anche con la preoccupazione del linguaggio. Per noi il tipo di montaggio scelto, la maniera di girare, la decisione di mostrare solo il processo’ sono altrettante .proposte di continuare nella ricerca. Ecco, il momento della ricerca formale è stato per noi molto importante.
Rispetto a tutti i discorsi sul videotape come mezzo democratico per eccellenza, che consente la ripresa analitica, diffusa, sincera e via dicendo, la vostra posizione sembra essere molto diversa, almeno in questo caso.
Non so se le altre sono d’accordo, ma per me il video è essenzialmente un mezzo visivo. Partendo dal fatto che è solo qualcosa che riprende le immagini, ciò che lo distingue dalla cinepresa sono le sue caratteristiche tecniche che ne rendono facile l’uso.
Il video rispetto alla cinepresa ti facilita nel senso che puoi vedere subito l’immagine, non hai l’incognita della riuscita delle riprese e perciò puoi correggere subito gli errori, senza aspettare che la pellicola impressionata tomi dal laboratorio.
Quante di voi hanno usato il video per la prima volta?
Nessuna era alla prima esperienza. Avevamo girato Patrizia, il Convegno sulla violenza, due di noi avevano filmato il processo di Padova a Gigliola Pierobon per l’aborto. Bisogna però dire che questa di Latina è stata la prima volta che si poteva filmare in aula girando così liberamente.
Importante è stata l’organizzazione del lavoro. Col video tutte abbiamo potuto girare un po’, anche se non esperte; con la cinepresa sarebbe stato impossibile.
Tornando alla trasmissione, secondo me viene fuori qualcosa che rappresenta bene la mentalità femminile oggi. Il montaggio organizzato per contraddizioni più che per analogie, non è montaggiq propagandistico, è dialettico, è un modo diverso di stare nella realtà, dì aprire i problemi piuttosto che chiuderli. Questo credo che sia uno dei più grossi contributi che il movimento dà alla modificazione della logica, al modo di stare nelle cose. E la nostra scelta è il riflesso del contenuto di eversività che c’è nelle donne: stare nel concreto dei fatti. E’ un montaggio fatto per rotture; non è il tentativo di costruire il cinema come finzione, dando l’impressione di una continuità senza salti nello svolgersi di un’azione, ricostruendo a posteriori un’illusione di fluidità. Per noi è anche il modo di ricordare che dietro al processo di Latina c’era una realtà, non abbiamo cercato di catturare lo spettatore offrendogli una narrazione “morbida”. E’ importante questo rendere nelle immagini una certa crudezza, senza compiacimenti, senza far finta che il mezzo non esiste, senza fingere che tra immagine e immagine non c’era nient’altro.
Parliamo un po’ della ripresa diretta del suono…
In tutti i documentari c’è la presa diretta del suono.
Alludevamo alla mancanza dello “speaker” fuori campo che spiega, nel vostro lavoro v’è solo una voce che legge le scritte e che non “illustra” le immagini. Questa voce, all’inizio, dà solo alcune informazioni, non commenta, non fa analisi. Questa viene fuori dalle riprese, dalle scene montate ed è comunque lasciata allo spettatore.
Nel “Processo” c’è soprattutto un “diretto” dell’immagine, cioè una presa diretta completa di suono e immagine insieme, non ci sono trucchi.
Abbiamo organizzato il filmato come uno specchio per lo spettatore. Qualsiasi cosa tu spettatore vedi, qualsiasi reazione o elaborazione farai, la dovrai fare sempre da te; volente o nolente a un certo punto dovrai dirti la tua opinione o dirla a chi ti sta vicino, non esiste un’opinione che ti viene data.
A volte non puoi fare a meno della voce dello “speaker”, ma in quel caso se riesci a dire fatti e non giudizi non fai propaganda, ma un’operazione culturale corretta. Non parlo di obietti-vita astratta che non esiste. Noi da sedici ore di girato abbiamo tirato fuori un’ora di trasmissione, abbiamo operato quindi una scelta, con una precisa ottica di donne. Però abbiamo lasciato la possibilità di dissentire, abbiamo volutamente lasciato tutte le ambiguità della storia, per esempio.
Quando abbiamo deciso di seguire il processo anche nella seconda udienza che si svolgeva di lì a un mese, abbiamo voluto entrare in questa realtà il modo più “attivo”. Abbiamo voluto capire chi erano questi e soprattutto chi era la ragazza e come viveva, per non fare quello che in genere si fa, anche con le migliori intenzioni: rubare agli altri la propria storia.
Io ho fatto quest’esperienza: se tu dall’altra parte di qualsiasi strumento sei una persona nota, che ha scambiato esperienze, riesci ad avere una disponibilità alla ripresa o al colloquio, alla utilizzazione, che non si avrebbe con uno sconosciuto. Tu stessa che riprendi, con elementi di conoscenza a disposizione, riprendi in modo diverso, più ricco. Infatti nel filmato c’è una grande differenza fra la prima e la seconda parte.
Come se il mezzo fosse stato un luogo di interazione: tu, il mezzo e là ragazza, dove il mezzo congiungeva, metteva in comunicazione anziché dividere.
Certo, se non stabilisci questa relazione ti neghi attraverso questo strumento che spaventa la gente; è come per un medico avere in mano il bisturi — cioè un potere — e non spiegare perché lo usa. Anche solo raccontare a Fiorella i motivi di quello che stavamo facendo aveva un senso ed è servito.
Forse è solo una cosa fra noi del gruppo, ma voglio parlarne lo stesso. E’ vero tutto quello che abbiamo detto delle riprese del processo. Ma mi stavo chiedendo… il fatto del conoscere tutto prima di girare… qualche volta sembra quasi una scusa, una giustificazione del potere che ti dà il mezzo. Noi abbiamo agito sempre con questa preoccupazione, ma credo che sia un discorso da superare per chi continua a lavorare con questi mezzi. Non cercare più di giustificarsi per essere dalla parte del potere perché è potere stare dietro la cinepresa o il video, ma accettarlo e capire che questa posizione di potere la puoi superare, trasformare, sì, ma non basta dire “discutiamo tutto insieme”…
Al di là dell’aspetto morale, io ho scoperto che è un espediente tecnico, questo, che ti consente una migliore ripresa.
Dobbiamo crescere all’interno delle esperienze e accettare della realtà anche le cose meno piacevoli per noi, a livello ideologico, anche, perché ti serve per andare avanti, per superare ogni strumentalizzazione e ideologizzazione. E’ la prima volta che diciamo francamente una cosa del genere.
Riguardo a Fiorella per esempio la rispetti ora, perché dando un’informazione migliore cambi- tutta una serie di situazioni che le permetteranno di vivere meglio, e non solo a lei ma anche a me, alle altre.
In quella situazione la persona si fa anche usare e volentieri, perché c’è uno scambio, anche se non pari, di informazione.
Questo è l’unico modo in cui si può rendere paritario il rapporto fra le due parti.
Una donna che affronta un processo per stupro si dà veramente in pasto, il senso delle denunce è proprio quello di denunciare la mentalità presente nella nostra cultura, Perciò un lavoro su un processo per stupro fatto da un gruppo di donne che condivide un certo discorso ha la stessa finalità della denuncia.
E’ interessante il discorso sulla assunzione di responsabilità del potere. Qualsiasi altro discorso, anche se giustissimo, circa lo scambio reciproco in situazioni non paritarie rischia di essere una nuova giustificazione. Visto che lo stiamo affrontando fra donne che in qualche modo gestiscono un potere — noi dell’informazione, voi dell’immagine — avviarlo “dalla nostra parte” può far nascere un nostro uso o rapporto diverso col potere…
Affrontare questo discorso è camminare sulla lama di un coltello.
Non si può semplificare la cosa solo dicendo “basta assumerlo per…”. Richiede un lavoro con te stessa, coi tuoi compagni, con il mezzo che usi, con il reale che hai di fronte, il tutto complicato dalla fascinazione del potere. Una verifica di questo che stiamo dicendo sarà possibile dopo il prossimo lavoro che faremo insieme..,
Loredana ha parlato di uno sguardo dell’uomo e della donna diversi rispetto alla donna stessa. Quello che ci ha differenziato rispetto ‘al lavoro di Verona è stato che noi avevamo, come donne, idee ben precise sui difensori, per esempio, per cui le riprese sono state fatte come nessun uomo potrebbe fare, perché nell’inconscio si identifica sempre con lo stupratore. Invece dissento quando dice che lo sguardo della donna sulla donna è diverso. La donna dietro la macchina da presa subisce da parte della donna la stessa fascinazione che subisce l’uomo, qualche volta anche di più, in ogni caso la oggettivizza.
Anche noi subiamo il fascino di un bel viso. Ti ricordi le riprese di Verona quanto erano stupide e poco significative?
Riprendevano sempre il bacino e i fianchi della ragazza…
Non è una questione di sguardo, ma di coscienza. Lo sguardo non si definisce diversamente perché è diverso in sé. E’ ciò che “tu sai” che ti determina, e oggi, c’è poco da fare, noi sappiamo di più, Questo fa si che non andrai a riprendere “la coscia”, durante un’intervista, per esempio, perché non sei più in balìa del tuo inconscio così inconsciamente. Quando riprendi un uomo, anche se lo riprendi come oggetto di desiderio, lo farai con ironia, perché ne sei conscia. Puoi prendere in giro anche il tuo desiderio.