convegno di firenze

testimonianze

è impossibile fare un discorso organico su questo incontro: sia perché è stata la prima volta che il movimento affrontava questa problematica in un momento allargato, sia per la difficoltà di avere resoconti da tutti i piccoli gruppi che si sono formati.
Speriamo e prevediamo che arrivino altre testimonianze: sarebbe interessante riuscire a fare un primo bilancio con le compagne che ce le hanno inviate
verso la metà di gennaio.

dicembre 1977

1
Firenze non è stato solo un convegno su «Donna e follia», ma anche un momento d’incontro, di riflessione sul movimento dopo l’estate. Infatti era il primo incontro nazionale dopo molto tempo e malgrado lo sciopero dei treni eravamo moltissime. Volutamente te non voglio parlare delle enormi difficoltà di comunicazione, del disagio che a più riprese ci prendeva, della paura della follia che serpeggiava, in quanto non riesco ancora a rifletterci serenamente, a capirne le reali cause; voglio parlare solo delle cose che mi sono state più chiare, di ciò che ho imparato a Firenze, attraverso il confronto, anche se difficile, con le varie compagne.
La prima impressione che ho avuto sin dalla mattina dell’assemblea generale, è stata che per moltissime compagne non era solo la problematica della follia che le aveva portate a Firenze, ma la voglia di confrontarsi, di dibattere sulla fase attuale del movimento, sulle difficoltà che in molte sentiamo, sulla non sufficienza delle pratiche avute sino adesso.
Nei due gruppi formatisi all’Ospedale Psichiatrico a cui ho partecipato, ripetutamente è sorto il bisogno di discutere sull’insufficienza del confronto dei vissuti, dell’essere solo testimoni delle esperienze delle altre, sul rischio di vivere prevalentemente il femminismo come affettività ritrovata, come grande madre fedele, proiettando su di esso tutte le nostre aspettative; è come se oscillassimo tra una visione del femminismo come forza collettiva di costruzione della propria identità, (perciò coscienti delle enormi difficoltà, e del lungo periodo di questo processo), ed una concezione del femminismo come «ultima spiaggia», ove si possono, ritrovare rapporti umani, gratificazioni mai provate etc. Una specie di nuovo eden al femminile: successivamente però, nello scoprirne le reali difficoltà, le incomprensioni, le sfiducie reciproche, la competitività, il maschile, il borghese introiettato, cadiamo nella crisi, nel pessimismo: e ci sentiamo per un pezzo nuovamente sconfitte. Invece, diceva una compagna nel mio gruppo di discussione, non basta più comunicare vissuti, esperienze, ma dobbiamo costruire, creare, esprimerci insieme a tutti i livelli. Io l’ho intesa questa frase come una riscoperta del collettivo, dopo la prima fase necessaria di solo confronto sul personale, di lavoro sul personale, di ritrovarsi con la propria sofferenza da sempre nascosta nell’altra, nelle altre, nelle loro storie. Riscoperta del collettivo come passaggio dalla coscienza della sofferenza, dell’esproprio, del negato, dello stupro storico subito, alla costruzione in positivo, al risollevarsi insieme. Da alleanza delle espropriate, delle emarginate tra gli emarginati, alla lotta collettiva per iniziare da subito il processo (lunghissimo) per non esserlo più. In questo senso anche l’autocoscienza può essere ripresa in modo diverso: come momento non solo di indagine su sé stesse, ma anche come strumento di analisi di ciò che ci impedisce questo processo di riappropriazione, di rifiuto dell’emarginazione, di critica alla nostra storica passività. Così forse possiamo iniziare a superare il rischio di appiattimento, di riduzione delle differenze che c’è nel vivere positivamente soltanto il comunicare con donne simili a te, con donne la cui esperienza ti corrisponde, il cui vissuto somiglia al tuo. Troncando così possibilità importanti di confronto, di ricerca comune tra compagne di esperienza, età, provenienza diversa.
Ritornando allo specifico tema del convegno, rispetto a Trieste è stata sviluppata in modo più ampio la problematica della devianza; già allora avevamo individuato il tema delle due follie; da una parte la scelta di essere «devianti» in quanto femministe, in quanto «praticanti la devianza» rispetto la norma figlia-moglie-madre, dall’altra la follia, intendendo per follia il non riuscire più a difendersi, a sviluppare momenti critici, coscienza sulla propria condizione. A Firenze si è approfondito il come trattare la contraddizione tra la propria «devianza» cosciente e la realtà quotidiana. La scissione continua tra ciò che abbiamo conquistato, capito, praticato ed il confronto avvilente con i ruoli quotidiani a cui siamo costrette all’esterno. In questo verificando che il movimento rispetto alla famiglia ha prodotto strumenti critici reali, abbiamo praticato e stiamo praticando momenti nuovi di ricerca e di lotta alla istituzione familiare, molto più debole (quasi inesistente) è invece la nostra riflessione sul rapporto «essere femminista-lavoro», sul come non ricadere nel modello emancipatorio, ormai anche questo diventato tradizionale, costantemente riproposto, sul come rifiutare il maschile, i metodi maschili a cui si ricorre per difendersi nell’istituzione. Anche in questo il nostro essere tra la normalità (intesa come norma ufficiale) e l’anormalità, il nostro rischio di follia nella lacerazione continua dei ruoli, nel rifiuto cosciente della tradizione «femminile» per poi ritrovarsi nel quotidiano «emancipata per difesa»; e nel momento in cui critichi, rifiuti l’essere emancipata, il rischio del vuoto, di non sapere più come muoverti, come agire all’esterno, come ritrovare un nuovo equilibrio, una nuova identità.
Un’altro elemento emerso è l’oggettiva similitudine tra noi e le ricoverate negli Ospedali Psichiatrici. Entrambi partiamo da una condizione di rifiuto dei ruoli, di crisi sul proprio essere donna in quel modo; solo che soggettivamente per noi il femminismo è una scelta cosciente, frutto di riflessione e di capacità critica sul vissuto precedente; il ricovero è invece la risposta istituzionale, segregante alla ribellione istintiva, -non approfondita, non cosciente alla propria condizione di subalternità che però non riesce ad esprimersi. A una contadina che improvvisamente rifiuta il lavoro domestico o la maternità, nella maggioranza dei casi si risponde chiamando il 113 e ricoverandola in manicomio; la famiglia la vuole segregare se rifiuta il modello imposto e l’istituzione psichiatrica garantisce la morte civile della «devian-te». È questo il momento in cui c’è il passaggio dalla ribellione istintiva alla follia, non avendo sviluppato coscienza sul proprio vissuto, sulla propria esperienza, sul proprio ribellismo. E tutti intorno ti dicono che sbagli, ohe sei «matta» perché rifiuti ciò che tutte han sempre fatto. Ed è proprio qui che si dovrebbe intervenire, per impedire, non so bene come, il salto nel buio. Agli stessi motivi noi abbiamo risposto con il femminismo, con la pratica collettiva tra donne, anche così però rischiando la follia, rischiando di non avere sempre la forza della propria diversità, per le enormi difficoltà di iniziare a costruire un’alternativa. Da questi temi emersi si vede la profonda differenza tra questo modo di affrontare la «follia»e le metodologie usate nella maggior parte dei contributi sull’antipsichiatria di questi ultimi dieci anni. Infatti spesso vi ritroviamo la mitizzazione del folle, come se non ci fosse contraddizione tra chi sceglie la devianza, in quanto scelta politica cosciente rispetto alla norma imposta, e chi senza strumenti si ritrova etichettato come deviante, come folle, viene costruito come folle, e si trova rinchiuso nelle varie istituzioni di controllo. Non si può approfondire realmente la problematica della devianza, senza praticarla, senza sentirsene personalmente coinvolti, proprio perché si mette in discussione il proprio quotidiano, le proprie calde e rassicuranti scelte. Se no si diventa i buoni tecnici che capiscono, aiutano, e giudicano democraticamente, sempre rassicurati dalla propria «normale» vita personale. Indicativo è che a Firenze la maggior parte delle cosiddette tecniche si sono inserite nei vari gruppi di discussione, si è rifiutato di fare la commissione delle operatrici della follia che parlano della follia. È stato il movimento delle donne a parlare della follia delle donne, rompendo la mistificazione del rapporto tecnico-utente inevitabilmente colonizzatore, di potere, malgrado i vari tentativi degli ultimi anni. È il movimento con al suo interno le specialiste, le psichiatrizzate, che si sentono prima di tutto donne, che deve cercare nuove risposte, con le capacità, le conoscenze, le esperienze di ognuna collettivizzate.
Elena Vitas
2
Al momento della partenza per Firenze, il nostro gruppo di autocoscienza stava attraversando, già da qualche settimana, una grossa crisi. Dopo un anno di incontri, durante il quale il gruppo si era allargato fino a comprendere una decina di donne, ci eravamo ritrovate in sei in seguito a fughe e ad espulsioni comunque drammatiche. I rapporti tra queste sei si erano venuti inoltre complicando per il desiderio di alcune di trovare qui anche la risposta ad esigenze affettive altrove inappagate e la non disponibilità di altre prese da timori tuttora non pienamente chiariti.
In quattro siamo partite per il convegno di Firenze con il desiderio e la speranza che questo incontro con le altre donne, con cui il nostro gruppo ha sempre avuto pochissimi contatti, potesse restituire un equilibrio ai rapporti divenuti a questo punto così difficili. A ciò si aggiungeva naturalmente il piacere di passare due giorni insieme ih un’atmosfera diversa da quella quotidiana e sciolte da impegni familiari e di lavoro.
Va subito detto detto che alcune di noi hanno avuto grosse difficoltà nel ritrovarsi con le altre e nelle altre, pur sentendo la necessità oggettiva di avviare un confronto ed una collaborazione con tutte le donne che stanno vivendo analoghe esperienze all’interno del movimento. Nonostante questa consapevolezza, anziché cercare di superare questo disagio sfruttando tutte le occasioni di contatto con le altre, siamo ricorse — quasi involontariamente — ad una serie di espedienti più o meno grossolani (scelta dell’albergo isolato, modo di vestire ecc.) per isolarci e sottolineare la differenza di età e di esperienza, esasperando in tal modo la sensazione di non essere -completamente «dentro» e comunque facendo riaffiorare problemi di accettazione.
Già durante i due giorni del convegno, e poi più approfonditamente all’interno del nostro piccolo gruppo, abbiamo parlato di questa nostra paura nel confronto con le altre donne, ravvisando tutte le nostre difficoltà, ancora una volta, nella mancanza di abitudine al dialogo ed al confronto con «l’esterno». Durante il convegno dal dibattito stesso delle compagne è risultato come il problema dell’isolamento si riproponga a tutte le donne che lavorano nei piccoli gruppi: ed infatti lo si è affrontato a livello di organizzazione tecnica, di superamento della politica di isolamento delle donne tra donne con i rischi che essa comporta, e a livello di recupero di tutto il lavoro fin qui svolto nei piccoli gruppi da parte di tutto il movimento.
Per venire più propriamente al convegno, il tema «Donna e follia» ci aveva particolarmente attratto per la fascinazione che questo argomento esercita su molte di noi come fatto e culturale e di pelle. Di fronte alla viva realtà dei racconti ascoltati, molti dei quali hanno evocato in noi esperienze rimosse o dimenticate, al fascino si è sostituita la paura della follia come possibilità concreta e sempre presente. Questa scoperta è stata vissuta in maniera così intensa da lasciarci in uno stato di spossatezza altrimenti inspiegabile.
Ciò che ci ha maggiormente scosse non è stata la paura della follia istituzionalmente intesa, ma quella più sottile della follia come schizofrenia del comportamento che vive ogni donna la quale abbia preso coscienza della propria oppressione. Anche questo infatti è stato uno dei temi più dibattuti e ancora una volta ci siamo trovate a dover fare i conti con l’immagine della donna spaccata, fantasma da esorcizzare. È forse perché questa paura e questa tensione sono state avvertite da tante che sul tema della follia il dibattito è sconfinato toccando temi e argomenti tra i più vari ed anche perché la massa dei problemi urge talmente e le occasioni di incontro sono così scarse. Siamo tornate a Roma con una folla di idee su cui riflettere e da elaborare, tra cui emergono due punti principali: la esigenza dell’allargamento e possibilmente l’apertura del nostro gruppo, sia per calarci più profondamente tra le donne, sia per distribuire con maggiore equilibrio affettività e proiezioni, ed evitare la spirale dell’angoscia che anche nel convegno è parso essere il problema più grosso dell’autocoscienza, e la necessità di una «politicizzazione» dell’autocoscienza stessa, perché venga colmata il più possibile la spaccatura tra questa esperienza e la nostra vita quotidiana.
Carla, Cristina, Donatella, Laura, Manuela, Maria Piccolo gruppo di Roma
3
Parlare del Convegno «Donne e follia» svoltosi a Firenze è estremamente difficile; ancora più difficile è farne un bilancio e collocarlo all’interno della storia del movimento femminista e della fase contraddittoria che in questo momento sta attraversando. Vogliamo comunque tentare di farlo, esprimendo ciò che per noi è stato più rilevante e significativo, al di là della contradditorietà che questo incontro ha espresso, sia a livello di forme organizzative che di contenuti. Questo convegno si è svolto in un momento in cui il movimento sta attraversando una crisi molto profonda, di cui ogni compagna, crediamo, è cosciente. Una crisi che lo vede paralizzato e «clandestino» nei confronti di quelle stesse tematiche che da sempre sono state suo patrimonio e sulle quali è cresciuto. In una situazione come questa, la presenza di un convegno nazionale ha avuto un grandissimo valore: quello di incontrarsi, finalmente, dopo molti mesi e di ricominciare a confrontarsi sulla nostra pratica e sulle nostre prospettive politiche. Questo, infatti, crediamo sia il significato dell’enorme partecipazione che probabilmente andava al di là della specificità del tema, e che era un chiaro sintomo della volontà di capire, e capire insieme, di cosa ne facciamo di questo nostro movimento. «Sfortunatamente» questa potenzialità non si è potuta esprimere in tutta la sua pienezza, a causa di difficoltà che per comodità ci limitiamo a definire «organizzative», ma che senz’altro sono diventate direttamente politiche quando due terzi delle compagne sono state costrette ad andarsene via per mancanza di spazio, come è successo per l’assemblea conclusiva, nel pomeriggio di domenica. Il dibattito ha avuto una notevole difficoltà ad articolarsi: rimbalzava continuamente da un intervento all’altro la non chiarezza del tema da affrontare: di quale follia si doveva parlare? Sì che molte incomprensioni sono nate proprio dalla diversità d’approccio ad una tematica così vasta, ma anche posta in modo confuso e contraddittorio. Nonostante il modo confuso in cui venivano fuori, crediamo che due siano stati i modi d’approccio: da una parte c’era chi, anche in forza della sua collocazione professionale, tendeva ad affrontare il problema del rapporto donna-follia sotto un ambito ristretto e tutto interno ad una logica specialistica (sia stata essa psichiatrica o antipsichiatrica); dall’altro chi, ed era la maggioranza, privilegiando un approccio più generale, tendeva ad affrontare in tutta la sua complessità il significato del disagio femminile e la carica di «devianza» che l’essere femminista comporta. E si può dire che è stato il secondo modo a pervadere di sé tutto il dibattito, non lasciando molto spazio a chi avrebbe voluto rimanere tutta interna ad una logica specialistica (questo è avvenuto senz’altro nella nostra commissione, quella della sala grande della Casa del Popolo, ma ci sembra che tutto il dibattito abbia avuto questo taglio).
Negli interventi di diverse compagne è emersa chiara la coscienza che nessuno dei nostri disagi e nessuna delle nostre sofferenze possano essere superate e distrutte individualmente, senza l’organizzazione collettiva sui nostri bisogni. Certamente il femminismo non potrà mai essere una sorta di vaccinazione contro la «follia», ma certamente costituisce un passo avanti verso la costruzione della nostra forza contro questa società che ci vuole sole e passive di fronte all’emarginazione e alla repressione. Lo «star male» è forse una condizione «endemica» della vita della donna in questa società: la repressione dei nostri istinti e della nostra volontà di essere «persone» da bambine; la costrizione della nostra personalità entro ruoli passivi ed emarginati da adulte; la perpetua negazione della nostra entità di persone dovunque, dalla famiglia al lavoro. La continua autorepressione e autodistruzione che la nostra condizione ci richiede è fonte di per sé stessa di grandi lacerazioni psichiche e di una profonda alienazione da noi stesse. Ma proprio per uscire dalla solitudine e dalla passività molte donne hanno cominciato ad unirsi e ad organizzarsi, con la coscienza che nella solitudine delle case non potremo mai riuscire a vincere chi ci vuole emarginate e represse.
Ma se questo è stato il contenuto di parte degli interventi, molte, in un certo senso, hanno in pratica avallato nei loro discorsi l’interpretazione che questa società’ ha da sempre tentato di dare del movimento femminista: una massa caotica e colorata di pazze, senza nessun collegamento con la realtà. Se ci pensiamo bene questo è stato, esorcizzandoci, il modo per non parlare delle nostre lotte e dell’antagonismo che esse hanno espresso. Ci hanno definite folli per isolarci e impedire che altre donne si organizzassero e cominciassero a lottare, come hanno definito criminali tutti i compagni e le compagne che in questi mesi hanno lottato contro la politica dei sacrifici e la collaborazione di classe, per isolarli dal resto del proletariato.
Questa ambiguità di fondo, questo avallo del nostro isolamento è venuto fuori in molti interventi. C’era in essi un autocompiacimento della propria «follia», quasi che la devianza psichica fosse di per sé politica, quasi che la perdita di autonomia che lo «star male» comporta fosse un dato carico di positività e di antagonismo. Una compagna ha detto ad un certo punto: «Compagne, bisogna cavalcare la nostra follia!». Questa frase, che secondo noi è la sintesi di molti interventi che esprimevano posizioni di questo tipo è il sintomo di come ancora un grosso settore del movimento non sia uscito dalla ghettizzazione cui lo ha costretto un modo tutto individualista e intimista di intendere la lotta delle donne per la propria liberazione.
La uguaglianza donna-follia, che veniva fuori anche dal titolo del convegno, è, a nostro avviso una rivendicazione perdente. Se donna è bello, follia non lo è. Perché la follia è la sconfitta più dura, e forse più irreversibile che possiamo subire; perché, se qualcosa abbiamo imparato, lottando insieme per i nostri bisogni, è che ogni volta che noi perdiamo quel poco di «razionalità» e «lucidità» conquistate, chi ci vuole ancora passive e isolate riguadagna terreno per ricacciarci indietro nella privatezza della nostra irrazionalità. Nonostante queste grosse contraddizioni che ancora una volta il movimento ha espresso in questo convegno, riteniamo comunque che esso abbia avuto un segno positivo, sia perché, da un lato, abbiamo cominciato ad affrontare un problema che tutte abbiamo di fronte ogni giorno, nel quotidiano della nostra vita, sia perché ci siamo tutte rese conto di quanta potenzialità questo movimento abbia ancora, nonostante la crisi contingente che sta attraversando,
Per questo ci sembra che si debba cominciare a parlare delle tematiche emerse in questo incontro: da questo punto di vista il nostro contributo non vuol essere altro che la puntualizzazione di alcune cose che per noi hanno avuto più rilevanza. Molte altre ce ne sono state, tutte ugualmente importanti per il dibattito nel movimento. Anche sotto questo aspetto, tra l’altro, ci sembra che l’indicazione venuta fuori dall’assemblea del pomeriggio di domenica, di un convegno nazionale prima della fine dell’anno, per confrontarci sulle prospettive del movimento, vada subito raccolta, per cominciare a preparare questa scadenza con tutta la attenzione che richiede.
Collettivo Femminista di S. Croce – Firenze
4
L’esperienza di quest’ultimo convegno ci ha riproposto le difficoltà sorte già altre volte, quando il movimento si è incontrato per discutere e lavorare sui propri temi: il momento dell’assemblea appare sempre dispersivo e frustrante, non riusciamo a farne il luogo di confronto e sintesi delle cose dette durante il convegno, mentre il lavoro di gruppo appare ancora come il più valido, perché più vicino alla pratica dei nostri collettivi. Ci siamo trovate in una delle tante camerate del 5° Reparto dell’Ospedale Psichiatrico S. Salvi, attualmente smobilitato e tuttavia eloquente testimonianza delle condizioni di vita all’interno delle istituzioni manicomiali: la scelta del luogo era significativa proprio in rapporto al tema del convegno, e ne eravamo consapevoli, tuttavia l’ambiente ha provocato in noi reazioni emotive molto forti, e cominciare a lavorare non è stato facile. Le prime sensazioni espresse erano di rifiuto della realtà in cui ci trovavamo, che ci appariva estranea, accanto al bisogno istintivo di proteggere in qualche modo noi stesse e la nostra «diversità» dalla follia. Così non è stato facile affrontare. il nesso tra il nostro «star male» e la nostra «devianza», derivati dal rifiuto consapevole dei modelli culturali e dei ruoli imposti (ma anche caratterizzati da un modo collettivo di vivere la diversità e la sofferenza), e là follia, che ci appariva soprattutto come regressione nella subalternità, perdita di coscienza, esclusione e incomunicabilità. Fra i casi più frequenti all’interno delle istituzioni psichiatriche ci sono donne che hanno vissuto in modo traumatico l’evento cosiddetto «naturale» della maternità, casalinghe che si sono scontrate con il rifiuto dell’istituzione familiare, donne più anziane che hanno perso l’identità data loro da ruoli e funzioni che ormai non sono più in grado di svolgere. Il problema era per noi capire a che livello si pone lo spartiacque fra il nostro star male e la rottura che ha portato loro, e può portare noi, a finire chiuse in manicomio. Alcune compagne dicevano che era un problema di equilibrio, «io ho il mio equilibrio», ma già discutendone questo risultava precario, sempre esposto a mille rischi, dati soprattutto dal carattere individuale delle risorse su cui ognuna poteva fare affidamento. Ci sembrava invece importante, proprio partendo da noi e dal nostro star male, individuare dove questo comincia, in quali ambiti e a quali livelli scatta quella incompatibilità fra te e il sistema, su cui si innestano quei processi che possono portarti anche alla follia: nella nostra società, così fortemente caratterizzata ancora dal «regime familiare», è proprio a partire dalla famiglia, dai suoi ruoli e da quello che di essi abbiamo interiorizzato, che ci sembrava occorresse partire, per aggredire l’incompatibilità e la sofferenza del nostro essere, e voler essere, «diverse».
Il discorso del «vivere la follia», come forza di per sé eversiva, che pure era stato proposto nella mattinata all’assemblea dell’Andrea del Sarto, non ci trovava d’accordo, perché poi ognuna paga da sola il peso di questo star male che non riesce, almeno in questa fase, a trasformarsi in un progetto e in un processo concreto di modifica della realtà.
La scomposizione di noi stesse raggiunta attraverso la pratica femminista nei collettivi di autocoscienza, la consapevolezza della nostra diversità, che fa spesso scattare nei nostri confronti le categorie interpretative della devianza e dell’emarginazione, erano cose sentite dalla maggior parte di noi come processi di non-ritorno. Ma il problema che ci si poneva era quello della difficile identificazione da un lato di forme possibili di sopravvivenza-resistenza in un quotidiano che non ti consente di vivere la tua autocoscienza, dall’altro degli strumenti collettivi per aggredire e modificare la vita. Le compagne trentenni, numerose in un gruppo dove tuttavia la prevalenza era di giovani della generazione successiva, portavano la loro esperienza di ricerca di un equilibrio attraverso la emancipazione, vissuta nel lavoro, nei rapporti con la cultura, nella politica e nell’autonomia dall’uomo. Ma mentre da un lato ci dicevano la sofferenza posta nel conquistare cose che ora appaiono troppo spesso «largamente concesse» (non era vero allora e non è vero ora), dall’altro esprimevano tutta la crisi in cui vivono oggi questa loro emancipazione, dove la sicurezza data dall’approvazione degli altri (stima, ammirazione, invidia, ecc.) è pagata a prezzo di una continua contraddizione con i vecchi sensi di colpa (come è difficile superarli!) e la nuova coscienza di sé che sono venute ottenendo nei collettivi e nel movimento. Le compagne più giovani hanno invece toccato un aspetto che più dell’altro ci coinvolgeva da vicino: il rapporto con l’uomo è’ il nodo centrale della nostra sofferenza, dicevano, ma i rapporti che proprio per questo avevamo riscoperto fra di noi, con la gioia e la forza che ci veniva dal sè per le donne, ora non ci aiutano, ci fanno anzi star male. Anche all’interno dei collettivi c’è sofferenza, nel rapporto donna-donna, e questa è peggiore dell’altra. «Troppe volte dentro i collettivi la nostra pratica era di ricercare una risposta affettiva a livello di comunicazione delle cose che io faccio e che tu fai, un modo per vivere un po’ meglio cose che ci dobbiamo pur sempre faticare… Il nodo della nostra sofferenza è che ci siamo messe ad affrontare i nostri dati materiali e pesanti come cose private, solo modificando il modo di esprimerle, con la comunicazione ad altre». «Non è diversa, proseguiva la compagna, la situazione delle donne che non hanno retto ed hanno cercato loro stesse la rottura, perché in ambedue i modi non si trova risposta».
Da qui molte di noi hanno portato il discorso sul movimento, nel tentativo di approfondire queste esperienze che facciamo da anni ma che ancora ci fanno restare divise: «Abbiamo visto il collettivo soprattutto come sfogo dell’eventualità di non farcela più a sorreggere i nostri ruoli. Era anche una proposta che ci facevamo, e in questo la nostra esperienza di collettivo ci salvava dalla follia, ma di fatto era un modo per riuscire solo a non essere i ruoli». Un’altra compagna si chiedeva anche se l’autocoscienza nel collettivo dopo anni di esperienza non diventi una spirale di grossa debolezza, «là dentro — diceva — non riesco a figurarmi qualcosa di alternativo». «In realtà siamo tese alla modifica dei rapporti e perdiamo il nesso tra i rapporti e il loro modo di essere, e tutto il resto». E qui il discorso era sull’organizzazione del lavoro, sulla crisi economica che non permette più nemmeno quelle soluzioni di tipo emancipatorio di cui parlavano le compagne prima, sulla vicenda politica di questi anni, che ancora non abbiamo analizzato a fondo quanto e come ci ha attraversato ed è parte della nostra storia e anche del nostro star male.
Eravamo un po’ tutte consapevoli di aver vissuto i collettivi come una grossa speranza e con la gioia di questo rapporto riscoperto con le donne, ma anche con quello che una di noi chiamava «un modo cattolico» di chiuderci fra di noi, lontane dalle altre donne, solo noi e la nostra identità. Tutto questo ci appariva in crisi: «Per me il problema oggi è imparare a vivere in modo “laico” il nostro femminismo. Ho sentito chiaro che la nostra rivoluzione è quella più lunga, ma ho anche sentito il femminismo in certi momenti come “utopia”». «Occorre — concludeva questa compagna — imparare a gestire la contraddizione, perché sarà una cosa lunga. Questo forse è lo equilibrio di cui si è parlato». E tuttavia era anche emerso con forza, anche se non ripreso che da poche di noi all’interno del gruppo, proprio questo tema dell’utopia, che è la liberazione; essa è «gusto del proprio vivere», che non nasce più, diceva la compagna che lo ha posto, dalla comprensione di sé in chiave storico-etica (senso di colpa), dal dover fare, ma che fa perno sul gusto di essere, fare, sulla creatività, in cui tutto poi può rientrare, la politica, il lavoro ecc. «Pensando all’autocoscienza di ieri, il limite è nel non aver cominciato a modificare la nostra condizione esterna, che è poi la nostra vita, senza di che la liberazione è per forza utopia».
Anna e Patrizia di Firenze