testimonianze sulla maternità

perchè non ho figli

gennaio 1977

sapere fino a che punto la mia decisione di non avere figli, a 35 anni, sia davvero definitiva, non è facile. Anche e forse, soprattutto, perché ho appreso a vivere il presente. Il passato, come donna che ha cercato, più o meno coscientemente di rifiutare il matrimonio e la maternità come le trappole, è un buco nero, di angoscie e di conflitti risolti, in fondo, sempre a metà. Ciò che rimane, delle storie apparentemente irriproducibili, mie, è la banalità, il fatto che sono, nei loro contorni generali, troppo uguali a quelle che ascolto da anni, da quando, nel 1967, ho imparato, insieme ad altre donne, ad ascoltare i miei problemi, sentendo i loro. Non so davvero se la maternità e questo desiderio mio di essere meno dipendente, più sicura, più capace di capire e controllare le mie nevrosi, che sono quelle di tutte le donne, (tutto ciò, che io chiamo femminismo) siano  irriconciliabili. Finora, di fronte al fatto biologico concreto, ho risposto no ed ho rimediato all’errore della natura, che non corrispondeva alla mia volontà profonda; anche se, devo ammetterlo, l’errore ha potuto accadere, deve essere stato a causa di spinte profonde, inconscie ed incontrollabili. Anche se la tecnica miseranda che abbiamo a disposizione, che i nostri corpi rifiutano ogni giorno di più, dà poche garanzie, eppure qualche meccanismo profondo, che sta in agguato non so dove dentro di me, deve aver scattato ogni volta. Certo è che la prima volta, dopo due anni di femminismo, non si è trattato di un errore. Avevo 27 anni e ho pensato che anche mia madre aveva la stessa età,  quando mi ha concepito ed era lo stesso periodo, perché ciò che poteva diventare una creatura,  sarebbe stata dei gemelli, proprio come me. Mi sono, allora ,identificata con mia madre, anche se erano due anni che non la vedevo. Ho sperato che lei, anche se c’era la guerra, (era la fine del ’40) abbia provato il mio senso di potenza, amore per il proprio corpo, l’orgoglio di avere la capacità di produrne un’altro. Ma nel 1969 io non ero un essere  umano;  (non  so  neppure,  in giorni neri, che si fanno sempre più rari negli ultimi tempi, se lo sto diventando ora) e lo era ancora di meno colui che allora chiamavo il mio compagno. Ho pensato spesso che mia madre, a suo tempo, avrebbe dovuto fare lo stesso; guardare la foto del bel guerriero che amava alla follia e dire di no. Ma a lei, allevata in un collegio di suore per signorine bene, erano
negate le alternative. Ho sofferto per anni l’ambiguità di un rapporto con lei che dava tutto, ma non era libero. Abnegazione, sacrificio, ma come libera scelta, come mancanza di un altro modo possibile di vivere. Il rapporto masochista che è nato dalle ceneri dell’illusione di amore, quando il guerriero si è trasformato in un pacifico accumulare di soldi, neanche troppo abile, non le ha lasciato altro che la sua ossessione per me. Ogni volta che cercava di spezzare quel poco di forza che mi stavo costruendo sopra le mie nevrosi, violando la mia intimità, mi ribellavo; perché non poteva darmi quell’amore infinito ed impossibile che è l’unica alternativa alla mancanza di identità come individui che ci lascia il sistema. E’ certo che il mio essere figlia, per molti, troppi anni, mi ha impedito di essere madre a mia volta. La psicologia clinica, il freudianesimo e la psichiatria di gruppo hanno cercato di esorcizzare i fantasmi che essi identificano nella figura di mio padre. Essi hanno dato delle risposte parziali e spesso mi hanno messo fuori strada. Il femminismo, invece, mi ha fatto capire che amare la propria madre visceralmente, come non possiamo fare a meno di fare, fa male a noi tutte. Finché non abbiamo esorcizzato la sua figura, che modella il nostro rapporto tra fisiologia e umanità, non sapremo davvero se e perché vogliamo diventare madri. Il mio odio (quando mi sentivo debole) e il mio disprezzo (quando mi sentivo «forte» in senso masochista) per mia madre, si è trasformato in comprensione, solidarietà, pena infinita. Eppure sono sempre fuggita da lei, a causa delle reazioni pavloviane che avevo di fronte a questo cadavere ambulante di essere umano, piena di intelligenza, cultura, sensibilità e volontà di ferro, che si è dibattuta per anni dentro questa prigione di masochismo e di negazione di se.
E’ morta da sola, consumata dalla sua incapacità di accettare una situazione assurda, distrutta da una lotta impari. Io so tutto questo, ma nel necrologio, si è semplicemente scritto madre e moglie esemplare, che ha sofferto come ‘tutte, forse un po’ di più di altre, ma la sua storia è scritta nella sabbia; non si potrebbe distinguere da milioni di altre, nel bene e nel male. A centinaia di migliaia di chilometri, per una settimana, ho esorcizzato il suo fantasma e ne sono uscita liberata e serena, con la capacità di vivere alla giornata. Forse proprio per questo oggi non so dire fino a che punto la nostra biologia ci spinge alla maternità o, quanto invece è prodotto di socializzazione. E neppure rifiuto la maternità perché mi sento incapace di viverla e gestirla in modo diverso da mia madre. Oggi, tutto sommato, il problema, impostato in questi termini, non mi interessa più. Voglio cercare di diventare un essere umano, completo per quanto è possibile, con tutte le ferite e menomazioni che mi hanno inferto fin da quando stavo dentro la placenta. Forse sono egoista, penso solo a me stessa e agli adulti ai quali posso imporre — esigere un rapporto ugualitario, in cui si dà e riceve. Forse penso che ciò che può dare un infante è troppo di meno di quanto deve necessariamente ricevere. Dico tanti forse perché ho imparato a criticare le mie posizioni e quelle degli altri, solo nella misura in cui non danno equilibrio e possibilità di crescere; per questo non posso dire che sono sicura che non avrò figli; prova ne sia che ho rifiutato di farmi legare le tube. Posso solo dire che dubito che la maternità possa sembrarmi, domani, una via positiva per essere una donna, intesa sempre meno in termini fisiologici, e sempre più in termini umani.