un voto difficile

L’ennesima scadenza elettorale italiana ci ha riproposto non solo il problema del rapporto con le istituzioni, ma anche il fare i conti con una situazione politica complicata. L’articolo che segue riassume le lunghe discussioni del collettivo di redazione.

maggio 1979

una elaborazione comune delle donne che garantisce decisioni collettive in occasioni come le elezioni non è nata” 

il 3 giugno ci troveremo alle urne con due anni di anticipo rispetto al previsto e il 10 ci saremo di nuovo per l’elezione del Parlamento Europeo. In un clima politico teso e confuso (l’arresto sulla base di prove vaghe dei presunti capi delle Brigate Rosse, l’attacco alla Banca d’Italia attraverso il mandato di comparizione per il governatore Baffi e l’arresto del vice-direttore Sarchielli, l’assalto armato delle B’R alla sede del comitato romano della Democrazia Cristiana) i partiti fissano la loro strategia preelettorale. Il Partito Comunista conclude il congresso con la riaffermazione di una unità nazionale che consenta la sua partecipazione al governo, mentre il consiglio della Democrazia Cristiana esclude l’accordo con i comunisti seppellendo insieme a Moro anche la sua politica. I socialisti attraverso Craxi sconfessano la linea dell’alternativa consacrata al congresso di Torino prospettando un centro-sinistra questa volta aggressivo. L’operazione Quirinale fa scuola. La Nuova Sinistra dopo aver discusso per la formazione di una lista unitaria, che sarebbe servita soprattutto ad assicurare il quorum, si presenta separatamente: il PdUP ha preferito attestarsi sulla sua linea di unità delle sinistre (al governo) su un programma comune e DP tenta di convogliare sulla lista di Nuova Sinistra Unita una parte dell’area di Lotta Continua e dei 61 promotori. I radicali parlano di preghiere laiche cercando voti anche nel recinto cattolico.

Il movimento femminista tace, salvo alcune iniziative espresse attraverso i giornali. Quotidiano Donna ha aperto un dibattito da cui sono uscite posizioni diverse: firmare le schede e chiedere un rendiconto semestrale alle elette, annullare la scheda con il simbolo femminista ed eventualmente un nome di donna. O formare una lista femminista con i nomi di donne memorabili: Virginia Woolf, Anna Maria Mozzoni, la Kuliscioff, la Kollontaj e altre ancora. Ileana Montini scrivendo al quotidiano // Manifesto ha proposto la presenza di donne che possano riscuotere la fiducia delle altre donne come indipendenti nelle liste della sinistra. Rossana Rossanda, una delle donne citate, ha risposto seccamente che non si presenterà per nessun partito e in nessuna lista, né comunale, né regionale, né nazionale, né tantomeno europea. Qualcun’altra ha proposto una lista femminista aperta a tutte le auto-cartdidature sulla base di un programma che raccogliesse le esigenze delle donne. Non sarebbe il partito femminista perché «le compagne ci prenderebbero a calci «dice Aurora Gioia a Quotidiano Donna, ma un modo di riunire il movimento «e portare dentro le istituzioni una nuova forza alternativa che si configurerebbe come una nuova forza della sinistra». La lista delle donne sarebbe l’unica garanzia per la difesa dei nostri interessi. Ma le esperienze di altri paesi in questo senso non sono positive. Al di là della polemica ideologica sull’opportunità di entrare completamente nelle istituzioni che contestiamo perché maschili, è difficile realizzare un programma che esprima realmente ì bisogni delle donne. Ci sono grossi problemi di comunicazione tra i collettivi e i gruppi nel movimento, e un programma diventerebbe inevitabilmente l’opinione di un gruppo di donne che si rivolgono a tutte le altre. Come arrivare alle altre donne che non sono nel movimento è un problema di fondo per noi femministe e le elezioni non sono una scorciatoia per risolverlo. L’esperienza non positiva dei gruppi della Nuova Sinistra dovrebbe averci insegnato qualcosa. Questa posizione, che era comunque improponibile secondo la nostra legge elettorale, è stata superata dai fatti.

Il punto in discussione è ora se votare o no, e se sì, per quale partito. Dalla nascita del movimento femminista ci sono state in Italia tre scadenze elettorali importanti, nel 72, nel ’75, nel ’76 e due referendum, nel ’74 e nel ’78. Le posizioni del movimento femminista non sono state sempre uguali. La difficoltà delle donne ad avere un rapporto con le istituzioni sentite estranee perché permeate da regole, modi di espressione e comunicazione fortemente maschili, ha segnato profondamente il movimento femminista. Le scadenze elettorali hanno riproposto questo problema che si è intrecciato alla contestazione che delle forme di democrazia delegata aveva fatto il movimento del ’68. Per le regionali del ’75 si impegnarono soprattutto le femministe comuniste che praticarono la doppia militanza, cioè il lavoro in un partito, in genere della Nuova Sinistra, e nei collettivi femministi. Con le elezioni del 76 si sviluppò un dibattito politico che portò le femministe a decidere di votare a sinistra, ma di non presentarsi candidate nelle liste, salvo qualche eccezione. Su Effe del giugno ’76 alcune compagne espongono i motivi di quella decisione: la fine della doppia militanza, la sfiducia che un partito possa capire le esigenze delle donne, la ricerca di una politica delle donne che trovi i suoi canali. (Il libro La parola elettorale, Edizioni delle donne, 1977, riporta molto bene tutta questa esperienza). L’indicazione di voto a sinistra di molte femministe fu soprattutto dettata dalla volontà di non spaccare il movimento delle donne sulla scelta del partito da votare perché sarebbe stata una scelta fatta con criteri prefemministi, non da donne, ma da militanti politiche di partito. Oggi il movimento femminista è molto cambiato nei suoi connotati. In parte è presente dentro istituzioni decentrate come i consultori pubblici, in parte si è frantumato in mille piccoli gruppi che lavorano su interessi specifici nati dalla pratica dei collettivi o sollecitati dall’esperienza professionale e di vita delle donne che ne facevano parte. Altre donne lavorano per il cambiamento della condizione della donna all’interno dei partiti e, dopo il movimento degli studenti del ’77, molte giovani aderiscono all’area dell’autonomia operaia. Una elaborazione comune delle donne che garantisca decisioni collettive in occasioni come le elezioni non è nata e il movimento non si pronuncia più come tale. Gruppi di donne o singoli collettivi si esprimono separatamente. Ogni decisione viene dunque maturata in un clima molto diverso da quello del ’76. L’estraneità nei confronti della politica e il distacco rispetto alle elezioni non riguarda più esclusivamente le donne. E’ cresciuta in .questi anni una sfiducia nelle forze politiche che una compagna diceva giustamente sa-reb superficiale chiamare «nuovo qualunquismo». Gli scandali che coinvolgono uomini politici sono sempre più numerosi, la politica della sinistra è per lo meno insoddisfacente, la crisi del sistema si accentua, mancano alternative valide. Lo spazio per esperienze politiche collettive e sociali si restringe, corroso dalla dura lotta tra Stato e Brigate Rosse le cui azioni trovano un terreno fecondo nella mancata soluzione dei problemi politici, economici, sociali che alimentano la crisi. Chi votare e perché non è quindi un problema solo per le donne. Esiste un problema di credibilità che investe le istituzioni, i partiti, le singole persone. Queste e altre considerazioni spingeranno molte compagne a noti votare o ad annullare la scheda. L’assenteismo verso le scadenze elettorali \pi è mutato in questi ultimi anni in astensionismo di protesta nei confronti della sinistra. La fiducia di molti si è spostata sulle lotte extra-istituzionali che i movimenti sono in grado di fare. Probabilmente le compagne dell’autonomia non voteranno, molte altre indicheranno i partiti della sinistra sulla scheda con accanto il simbolo femminista e scriveranno «questa volta non ti votiamo». Altre compagne ancora non andranno a votare o voteranno scheda bianca perché ritengono le elezioni una scadenza esterna alle nostre lotte, una questione; tra maschi che a noi non interessa,. che ci divide e ci fa perdere tempo. Senza dare alle elezioni più significato di quanto ne devono avere, sapendo che nessun partito può esprimere i bisogni delle donne e che l’unica forza ci può venire da quello che sapremo^ costruire insieme alle altre donne, cerchiamo di decidere valutando lucidamente quale assetto politico favorisce di più il nostro lavoro. Le posizioni astensioniste riflettono una parte della realtà ma in questo momento sono oggettivamente utilizzate da altri. Eun rafforzamento della destra e della DC, partiti che ideologicamente e praticamente sono sempre -stati contro la liberazione della donna, non farebbe che aumentare quella reazione a tutto quello che abbiamo portato avanti con il femminismo che oggi ci troviamo a fronteggiare. I partiti della sinistra autonomamente non hanno lavorato molto a favore delle donne, ma per la loro stessa natura sono soggetti a dover recepire le richieste dei movimenti, quando sono di massa. Anche se snaturato qualche nostro obiettivo riesce a filtrare, creando degli spazi che facilitano il nostro lavoro.

Noi compagne del collettivo redazionale quindi voteremo e voteremo a sinistra, PCI, Nuova Sinistra Unita, POUP e PSI a seconda della nostra storia personale e politica. E voteremo le donne. Sappiamo che non è facile portare avanti i propri bisogni e quelli delle donne nelle istituzioni. Il linguaggio, i tempi, le regole sono quelli che governano la società maschile. Se la emancipazione dà forza, contemporaneamente tende a staccarci dalle altre, dai luoghi dove affondano le nostre radici, lasciandoci sole in territorio nemico. Chiediamo perciò alle donne che voteremo e che hanno la nostra fiducia per il loro impegno nel movimento delle donne, di avere un rapporto costante con tutti i luoghi dove si esplicita la politica delle donne, di tentare una comunicazione permanente tra le donne elette nella sinistra per una politica comune a favore delle donne, di opporsi pubblicamente a decisioni del loro partito che danneggiano la nostra lotta. Rendere conto alle donne più che ai partiti avrebbe un significato che va al di là del puro controllo delle elette; restituirebbe la politica al sociale tirandola fuori dalle aule e dalle segreterie dei partiti.

 

noi del collettivo redazionale voteremo, e voteremo a sinistra, a seconda della nostra storia personale e politica”

 

Abbiamo organizzato un dibattito con alcune compagne femministe romane per continuare il discorso sul movimento e sulle istituzioni in generale e in questo caso specifico sulle elezioni del 3 giugno.

 

«Rispetto alle passate elezioni ci sono degli elementi di novità. Sappiamo infatti’ da almeno un’anno che esiste un movimento delle donne che in qualche modo coinvolge non solo spazi “storici” del movimento femminista, ma anche spazi all’interno dei partiti della sinistra. Se nel ’76 parlavamo di doppia militanza, il riferimento era diretto alla nuova sinistra, mentre oggi abbiamo questo dato che doppia militanza vuol dire sinistra storica; e con questo faccio riferimento soprattutto al PCI e al PSI. In questo senso le donne che si presentano alle elezioni hanno già delle interlocutrici che non sono necessariamente e solo il movimento femminista come si esprime in certi luoghi e in certi spazi». Questo il primo intervento di Gabriella Frabotta, preceduto da quello di Giuseppina Ciuffreda, che aveva “riassunto” le riflessioni che avevamo avuto in redazione e che sostanzialmente si concretizzavano in una posizione di richiesta alle donne che si presentano in Parlamento di una attenzione verso i luoghi di lotta e di lavoro delle donne. Un discorso questo che porta ad una richiesta più generale del recupero del sociale al politico. «Il realismo ci fa capire che una donna eletta si occupa di tutto — ha sottolineato Giuseppina — e questo ci fa dire che ad esempio le donne elette si oppongano pubblicamente a situazioni in cui il loro partito prenda posizioni che possono danneggiare le lotte delle donne…».

Il dibattito si è avviato non solo sul terreno dello specifico elezioni ma sulla modificazione del movimento delle donne e sul rapporto donne istituzioni, donne partiti. Uno degli spunti di riflessione è stata una parte del discorso di Gabriella Frabotta, che dopo aver parlato dell’astensionismo («…sono d’accordo che ora stranamente l’astensionismo poggia su di una realtà. Ma per me il non andare a votare è come un cancellarmi ancora di più. Si poteva forse pensare ad una forma di astensionismo organizzata ma diversamente penso ad una cancellazione…» ) ha affrontato il problema del movimento delle donne e i movimenti in generale rispetto al discorso sulla soggettività e sul fatto che ci sono persone («compagni e compagne, persone…» ) «che oggi si apprestano a dare un voto come nel caso del Partito radicale, sull’espressione della soggettività». In questo senso Gabriella diceva «in qualche modo sento che noi abbiamo messo in moto un processo di questo tipo che viene spacciato come modo di far politica nuovo e contiene una grossa demagogia politica. E credo che dal momento che le donne hanno fatto pratica debbano entrare in questo dibattito». Sul discorso della soggettività è intervenuta (anche) Anna Rossi Doria: «all’inizio sono stata incerta, rispetto alla mia storia politica, sul dare il voto a sinistra o ai radicali. Ma ho capito che non posso votare radicale perché sospetto sul tipo di aggregazione, di cattura del consenso anche demagogica e di trasferimento, anche in modo molto diverso da quello che pensavamo noi come movimento, della soggettività nel momento della formulazione politica. E questo mi ha colpita, perché mi sono scoperta, so che devo votare per una lista che in qualche modo ancora col comunismo abbia a che fare. I radicali non c’entrano colla mia tradizione, fanno un buon lavoro, fecondo, lo facciano. E tutto questo mi ha posto un problema più grosso che è quello del tipo di aggregazione, che tipo di rapporti andiamo a configurare noi donne tra soggettività e movimento collettivo. Voglio capire come mai sono preoccupata per le motivazioni per cui tanti compagni e compagne voteranno radicale. Un rapporto tra soggettività e movimento collettivo non può essere dato solo da una sommatoria di individui».

Secondo Michi Staderini, che invece aveva voluto sottolineare nel suo lungo intervento come il suo discorso volesse essere “più a monte”, la situazione generale delle donne nei confronti del voto, «dimostra l’impasse che viviamo oggi, come femministe, per non aver chiarito certi nodi teorici del rapporto uomo-donna, e quindi del rapporto donna-istituzioni». Ci sono due cose da chiarire, ha continuato, «primo, che ogni cosiddetta scadenza che non deriva dai nostri contenuti ci sia indifferente o esterna è falso e lo vediamo in pratica perché siamo femministe. Infatti eravamo molto più estranee alla politica dei partiti prima di scoprire la contraddizione uomo-donna di quanto lo siamo oggi, in cui siamo sensibili a qualunque cambiamento della vita sociale perché ne vediamo le ripercussioni nella nostra vita e in quella delle altre donne. Potrei fare l’esempio di una guerra, ma bastano i piccoli fatti della vita quotidiana, dal rincaro dei beni di consumo… L’errore sarebbe di privilegiare questo o quel momento dimenticando la contraddizione uomo-donna che vi passa all’interno, per credere, come abbiamo già fatto, che prima si deve fare un cambiamento sociale generale e poi si cambia il rapporto uomo-donna. In secondo luogo — affermava Michi — il rapporto donne istituzioni va impostato in linea teorica generale una volta per tutte, ma vanno analizzate una per una le cosiddette istituzioni con cui dobbiamo confrontarci volta per volta — stato, famiglia, chiesa, scuola — e quale valore esse hanno oggi sia se sì voglia entrarci dentro per cambiarle, o premere dall’esterno. E’ chiaro che col voto non si fa né una lotta rivoluzionaria, né una lotta femminista… Il voto non può sostituire ne per noi ne per coloro che vogliono cambiare la società le lotte che si stanno preparando in tutti i campi. Nello stesso tempo però non votare per contarci dà un’importanza al voto maggiore di quella che merita, proprio perché rientra nella logica politica maschile. Infatti proprio perché strumento che registra giochi già fatti, il voto non è in grado di registrare la realtà o i risultati delle nostre lotte sul rapporto uomo-donna altro che in maniera distorta e minima. E per contarci dobbiamo trovare come abbiamo già fatto altri modi. Proseguendo sull’analisi dell’astensionismo come aspetto del maggior grado di industrializzazione di un paese, Mi-chi ha ancora sottolineato che la questione dell’indicazione sul voto è mal posta, perché siamo femministe e perché non ci si è chiarito il rapporto donne istituzioni. In questo senso la “domanda” sulle indicazioni da dare alle donne fatta dalle donne che lavorano nei mass media (giornali femministi,radio delle donne ecc.) vada posta in altri termini. «Quale posizione politica si verrà a creare in Parlamento col mio voto potrà garantire maggiormente la mia lotta per l’abolizione della divisione sessuale dei ruoli? Quali condizioni politiche generali la favoriscono?». Su queste ed altre domande è necessario un confronto anche se le risposte non possono oggi che essere empiriche. «Non esiste un’ equazione possibile per dire sono femminista e voto il tal partito, ma esiste il riconoscimento della possibilità di votare in base al giudizio sintetico che deriva ad ognuna dall’aver partecipato al movimento femminista e dalla propria esperienza politica individuale, rinunciando a dare indicazioni al mi. «Mi interessa di più — ha detto Michi — questo discorso che non andare a chiedere alle donne che mi garantiscano…». Secondo Serena non si tratta di porre il problema di “chiedere”, che rispecchia una tradizione difensiva del movimento femminista, ma di “riflettere su un dato che è quello della registrazione di una esistenza del mi. nell’ambito dei partiti della sinistra. Il problema è quindi di essere propositive, cosa che non vuol dire che abbiamo un progetto che ci presenti come interlocutrici di partiti, ma in una situazione politica degenerata come quella attuale non c’è uno spazio per crescere e portare avanti i nostri contenuti. A noi, quello che interessa è che lo spazio si ricostruisca, ma non basta a ricostruirlo uno spostamento degli equilibri politici. Tuttavia non è vero che non è possibile dare un’indicazione di voto: come movimento abbiamo una tradizione, quella di sinistra anche se c’è un dato nuovo che è quello per cui ci sono donne che non hanno avuto un’esperienza politica, Del resto qui non siamo il movimento, siamo un gruppo di donne che uscirà su Effe, E’ una posizione, poi ci saranno le donne che dicono annulliamo la scheda, votiamo Virginia Woolf, che mi sembra una follia, come se quello che conta per noi di nuovo sia la lotta per l’esistenza, ci contiamo e così esistiamo. Quindi possiamo dire di votare a sinistra. E’ anche dire per la prima volta che tendiamo a votare le donne, e che chiediamo, cosa nuova, che ci sia un rapporto fra parlamentari donne e movimento, non solo per le tematiche che riguardano le donne, perché le donne hanno da dire su tante altre cose. Ma questo significa anche un impegno che ci prendiamo anche noi, e non sono così sicura che riusciremo a garantirlo».

Quanto uno dei grossi problemi da affrontare fosse l’analisi del processo in atto delle socialdemocrazie europee e il rapporto con un grande partito di massa come il PCI, è stato affermato da Roberta che ha sottolineato cornea dall’analisi di questo processo di modificazione generale fosse possibile essere propositive, Il discorso sulla differenza di dibattito rispetto al 76 è stato invece reintrodotto da Enrica: «Non solo è mutata la situazione politica, ma anche il nostro movimento. E vorrei capire com’è cambiato. Mi ricordo che nel 76 il voto a sinistra era una cosa combattuta perché dava l’impressione a molte di qualcosa di troppo generico… Esisteva la consapevolezza di rappresentare in qualche modo un progetto, e come tale si doveva porre il problema delle elezioni, perché collettivamente dovevamo trovare una collocazione all’interno della realtà politica italiana. In. qualche modo la nostra era una posizione di forza, oggi la situazione è mutata e in questo senso mi riallaccio all’intervento fatto all’inizio da Gabriella, siamo in una situazione in cui il movimento così come l’abbiamo conosciuto non c’è, ma ci comportiamo come se ci fosse, ma poi i nostri discorsi e la nostra pratica riflettono la nostra precisa convinzione che non c’è…». «Noi quest’anno abbiamo detto che non c’è più — ha proseguito Paola, affermando anche che invece c’è il fatto di un^idea di movimento delle donne indifferenziato — e quello che mi interessa è che il movimento non abbia una sua proiezione univoca ed indifferenziata, ma che ci sia la volontà qui tra noi di cominciare a riconoscere questa differenziazione. «L’asse del dibattito sulla modificazione progressiva del movimento ha dato modo di portare una critica ai mass-media ai giornali cioè come Effe o come Quotidiano Donna o ancora — con tutta la specificità di essere il giornale di una organizzazione — come Noi donne, e la necessità da parte di chi vi lavora di fare i conti col tipo di posizione da assumere. Come ha affermato Roberta, «dobbiamo prendere atto che le compagne di Effe hanno ragione a mostrare fino in fondo il loro disagio, se non esplicitano la situazione». Il problema su cui si è accesa la discussione è stato se dare o meno indicazioni, o comunque esprimere chiaramente la posizione che assumevamo come Effe, nei confronti della scadenza elettorale. Un discorso che in redazione era stato ampiamente discusso, ma su cui ci interessava un confronto a partire da quelli che erano i risultati di una elaborazione collettiva.