una esperienza di piccolo gruppo

è stato deciso di privilegiare il metodo di lavoro in piccolo gruppo, per incoraggiare lo scambio e la crescita di partecipanti provenienti da diverse professioni e realtà territoriali.

giugno 1977

«mi dovete salvare, sono disperata e se non mi aiutate voi non mi aiuta nessuno. Sono fidanzata e mi devo sposare tra tre mesi, sono fidanzata da cinque anni ma il mio fidanzato non mi ha mai toccata perché ci tiene a portarmi come si deve all’altare. Ma io non sono più vergine e lui non lo ha mai saputo. Avevo tredici anni quando è successo. Mi hanno detto che si può fare una piccola sutura, anche se c’è da spendere un milione non mi importa, dovete salvarmi».
Ostetrica del consultorio: «Ma non sarebbe meglio che tu raccontassi la verità al tuo fidanzato?».
Ragazza: «No, non posso. Forse era meglio, ma dovevo pensarci prima, dopo cinque anni di fidanzamento bianco, come faccio adesso alla vigilia del matrimonio»?
L’Ostetrica chiama in suo aiuto il ginecologo del consultorio, e insieme arrivano alla decisione di accontentare la ragazza.
Inizia tra gli altri operatori una discussione «tecnica» se il fidanzato avrà o no modo di scoprire la sutura, quale filo è più opportuno usare, ecc.
La situazione è una «simulata» durante il corso di riqualificazione per il personale dei consultori della Regione
Lazio.
Dopo vari tentativi per coinvolgere tutti i membri del gruppo si è ricorso alla tecnica della «simulata»: trequattro membri del gruppo simulavano di essere gli operatori di un certo consultorio, due o tre membri uscivano dalla stanza ed organizzavano tra di loro una situazione (il più delle volte veniva proposto un caso reale. che avevano dovuto o che dovevano ancora risolvere) che veniva presentato in simulata come se fossero degli utenti; i rimanenti membri del gruppo assistevano ed alla fine davano un parere su come gli esperti del consultorio simulato avevano risposto al caso.
L’esempio della ragazza che richiede la sutura dell’imene era stato portato da una delle ostetriche che, proprio in quei giorni, aveva ricevuto una richiesta analoga. La discussione nel gruppo come dicevo prima, non va oltre certi pareri tecnici. Dopo aver lasciato ampio spazio al confronto suggerisco che forse gli operatori del consultorio, preso atto dell’arretratezza del territorio in cui opera, dovrà farsi carico per sviluppare a tutti i livelli
– scuole, riunioni di caseggiato, associazioni ecc. — una diffusa educazione sessuale; solo così la discussione riprende su una angolazione più ampia.
Gli operatori che partecipano al gruppo di discussione, è bene ricordarlo, non vengono dal profondo Sud, ma sono tutti della regione Lazio ed alcuni della stessa Roma: ma a volte, come ho dovuto imparare in questa esperienza il «profondo Sud» è a meno di un’ora di macchina da Roma.
Il nostro gruppo era composto da circa venti persone, alcune si sono alternate, mentre circa quindici è rimasto il nucleo fisso. Il gruppo all’inizio era composto da quattro psicologi (tre donne e un uomo), quattro ostetriche (due di queste ultime hanno abbandonato il corso quasi subito, erano entrambe in attesa di andare in pensione ed avevano entrambe più di 67 anni): un’assistente sociale; sei assistenti sanitarie visitatori; quattro medici (di questi solo un giovane ginecologo di Roma ha seguito il corso dal primo all’ultimo giorno senza mai disertare una sola lezione o una discussione di gruppo).
A differenza di altri gruppi il nostro era anomalo ‘ per composizione: una sola assistente sociale contro quattro psicologi, che invece rispetto a tutti gli altri partecipanti erano una minoranza.
Nei giorni che avevano preceduto l’inizio del corso più volte mi ero ripetuta che dovevo fare attenzione a non abbandonarmi a tematiche femministe, in quanto il consultorio pubblico previsto dalla legge non deve servire solo utenti donne, ma deve rispondere anche ai bisogni degli u-tenti maschi.
A contatto con la realtà del gruppo, ben presto ogni mia incertezza di riuscire a controllare me stessa si è dimostrata superflua occupata come ero a dover controllare e conciliare le aggressività e i momenti di tensione soprattutto tra i membri più giovani (una psicologa aveva appena 22 anni) e quelli più anziani (l’ostetrica più anziana rimasta nel gruppo aveva 64 anni).
Finalità del lavoro in piccolo gruppo, oltre ad approfondire i temi che nelle lezioni assembleari gli esperti proponevano a tutti i partecipanti, era soprattutto attraverso la discussione ed il confronto arrivare se non ad un superamento almeno ad una
messa in discussione di ogni rigida posizione circa il proprio ruolo professionale.
Oltre alle specifiche tematiche del superamento del proprio ruolo, di rapporti con gli utenti, e delle finalità di prevenzione e coordinamento del consultorio, i temi che più hanno coinvolto e occupato il gruppo sono stati quelli della sessualità e della contraccezione.
Fino a quando la discussione rimaneva ad un livello «teorico» la maggior parte degli operatori sembrava di solito portatore di valori positivi e avanzati, ma appena si proponevano le simulate ed il coinvolgimento era più diretto ed immediato, regolarmente i casi che venivano proposti e le stesse soluzioni offerte erano di una preoccupante arretratezza.
Per esempio, nel caso in cui era una coppia di sposini che si presentava al consultorio, raccontando di essere sposata da un paio di mesi, ma di non riuscire ad avere rapporti sessuali in quanto, fidanzati da tre anni, un anno prima del matrimonio avevano avuto regolari rapporti sessuali, ma il giorno del matrimonio la madre dello sposo aveva consegnato a quest’ultimo un fazzoletto di lino ricamato dicendogli che con quello avrebbe dovuto «raccogliere» la prova della verginità della nuora. Bloccati da questa imposizione gli sposini da due mesi non avevano più rapporti sessuali, ma quello che più di tutto li preoccupava era come risolvere il problema del fazzoletto. L’equipe al completo, dopo ampio dibattito, consiglia agli sposi di sgozzare un pollo, e di intingere il prezioso fazzoletto di lino nel sangue del pollo.
Questi e tanti altri casi devono farci riflettere non solo sull’arretratezza di certi operatori (ed anche di certi utenti), ma soprattutto della necessità di un controllo e di una partecipazione democratica nella gestione dei futuri consultori; controllo e partecipazione necessari soprattutto lì dove non esistono né il movimento femminista né altre organizzazioni femminili, e dove nel suo complesso tutto il territorio presenta una arretratezza paurosa. Il movimento deve farsi i carico di queste arretratezze, perché è utopistico sperare che la sola apertura di un consultorio con due operatori possa in qualche modo cambiare certe realtà territoriali, anche nel caso di operatori aperti e democratici, da soli non potranno cambiare la realtà in cui devono operare; né è sperabile un interessamento degli enti locali (abbiamo visto come certe amministrazioni abbiano mandato a riqualificarsi personale sopra i sessantanni o che doveva andare in pensione nei successivi tre mesi).
A Roma è ipotizzabile che in certi consultori si arriverà a fare gruppi di autocoscienza per le donne o corsi di self-help, ma se il movimento concentrasse i suoi sforzi sui consultori di Roma, secondo me, perderebbe una grossa occasione di militanza perché è in provincia, nei paesini che occorrerà lavorare perché ogni utente che si avvicina al consultorio esca da questo incontro con una maggiore coscienza e conoscenza non solo del proprio corpo, ma dei propri diritti, di donna e di essere umano.