INCONTRI

belgrado un congresso che si farà “dopo”

…in un paese “socialista” che non smaschera la divisione in classi al suo interno da dove possono mai partire le donne per definirsi come un soggetto politico autonomo e specifico?

dicembre 1978

quando alle 3 del pomeriggio del 27 ottobre l’aereo è atterrato a Spalato (lo scalo), venendo dal mare, ho avuto la sensazione di fare un salto indietro di 3 mesi e di cominciare la vacanza estiva. Avevamo sorvolato le meravigliose isole che costellano il mare Adriatico e il cielo era limpido. Unica differenza il vento forte e freddo che ci ha investite fuori dell’aereo: la bora. Il tuffo nella realtà è stato inevitabile. Non stavo in vacanza ma in un paese dell’Est (oltre cortina?) anche se il più “anomalo” tra i paesi socialisti. Alle 16,30 ero, assieme alla cosiddetta (dalle iugoslave) “delegazione” italiana, a Belgrado, in cerca della Marsala Tita, la grande strada dove si trova il Centro Culturale Studentesco, Dalle finestre a piano terra si poteva vedere dentro, c’erano donne e foto di donne alle pareti sicché abbiamo bussato ai vetri per farci indicare l’entrata.
Le nostre facce e le nostre borse debbono aver indicato alle donne di lì da dove venivamo perchè le abbiamo trovate ad attenderci nella hall del Centro con un sorriso aperto e simpatico. Una di loro parlava bene l’italiano e ci ha indicato dove era la sala del convegno e l’albergo. Dopo 10 minuti ci siamo ritrovate in una vasta sala di stile moderno, al contrario del palazzo, al centro della quale c’era un’autentica gigantesca tavola rotonda con tanto di poltrone e microfoni tutt’intorno. La sala era piena ma non affollata sicché tutti stavano seduti; in cambio di un documento di riconoscimento ho ottenuto una cuffia per la traduzione simultanea in 4 lingue: inglese, francese, italiano, tedesco. Ho poi saputo che le traduttrici hanno prestato la loro opera gratis (militante diremmo noi). Tra le donne c’erano anche alcuni giovani uomini attenti, incuriositi e senza quell’aria di sfida impaurita che assumono ormai i nostri compagni quando si trovano tra tante donne.
Stava parlando una iugoslava ma la stanchezza mi ha impedito di ascoltare il suo intervento. Ero frastornata dal viaggio e dall’organizzazione dell’insieme. La mia attenzione è stata richiamata pochi minuti dopo da una voce maschile; ho infilato la cuffia ed ho potuto sentire l’intervento di un uomo iugoslavo che cercava di dimostrarci che siamo oppresse. Brusio in sala, qualche “basta” urlato in più lingue e finalmente l’interruzione, dell’intervento. «Aria di casa» ho pensato in quel momento: gli uomini sono ammessi ma solo come uditori e d’altra parte, si sa, siamo in un paese socialista e di separatismo non se ne parla. E invece non era per niente aria di casa perchè come ho verificato in seguito quelle veramente diverse da noi erano le donne iugoslave, anche se tuttora non saprei dire il perchè.
Infatti i loro interventi sono stati in generale pochi ed ampi ma quasi tutti letti e mai partendo da sé, come diciamo noi. Anche se non c’era una vera e propria «presidenza», nei fatti l’ordine degli interventi veniva deciso da alcune donne sedute in cima alla tavola. Erano ormai le 6.30 e mancava poco più di mezz’ora alla fine dei lavori di quel giorno. Mi sono guardata intorno e ho scorto fisionomie, abbigliamenti, capigliature ricche che indicavano la presenza dell’Occidente accanto ad un Est rappresentato da donne ben poco diverse da noi come aspetto ma assolutamente impenetrabili nella loro compostezza ed attenzione. “Dobbiamo ancora fare conoscenza”, ho pensato, quando tutte ci siamo alzate per andar via. Le “occidentali” si sono cercate tra loro un po’ attraverso i nomi letti e riletti sulle riviste dei rispettivi paesi oppure perchè già si erano incontrate altrove. Eravamo tutte le rappresentanti di qualche situazione nazionale e questo conferiva all’insieme un tono di ufficialità un tantino imbarazzante. Ci siamo disperse per i vari alberghi che le iugoslave avevano messo a disposizione delle ospiti straniere e molte di noi dopo una cena rapida sono andate a dormire. I lavori veri e propri cominciavano l’indomani e infatti la mattina dopo alle 9 ci siamo ritrovate, noi italiane, a fare colazione insieme e a scambiarci qualche prima impressione approssimativa. Alle 10 circa si sono aperti i lavori; il tema previsto era il rapporto delle donne con la cultura e siccome io ero lì assieme ad Anne Marie Boetti come “Edizioni delle donne” ho pensato che quello era lo spazio adatto per raccontare come lavoriamo noi qui.
I lavori li ha invece aperti una donna di mezza età, chiaramente una competente di sociologia, con una lunga relazione (letta) sulla famiglia e sul suo significato < nella situazione iugoslava. Quando la relazione è terminata ero stupefatta e a guardare le facce delle altre «europee» non ero la sola. Il succo della relazione infatti era il potenziamento della famiglia come unità produttiva inserita in una sorta di cooperativa di famiglie. Questa “cooperativa” aveva lo scopo di realizzare il progetto nazionale iugoslavo: l’autogestione. Mi rendevo conto che la mia disinformazione sulla situazione iugoslava rendeva molto difficile interpretare il significato politico di quell’analisi ma sapevo anche che, quale che fosse il contesto in cui la relazione si inseriva, lo stesso era inverosimile che delle donne colte e politicizzate potessero proporre il potenziamento della famiglia senza aver fatto menzione della divisione sessuale dei ruoli che vi è all’interno. Chiara Saraceno, nel suo breve intervento, ha poi chiesto chiarimenti sulla relazione ed ha anche detto che le italiane, e non solo loro, sono comunque su altre posizioni che si possono schematicamente definire come “depotenziamento” della famiglia.
Lo stupore di tutte noi è diventato ancora maggiore quando alle domande di Chiara si è risposto che non aveva compreso bene la «traduzione». Di risposte alle sue domande però non ce ne sono state. Da quel momento si è praticamente perso il filo del discorso e gli interventi delle occidentali sono avvenuti un po’ a ruota libera sui temi generali che i movimenti femministi hanno affrontato in questi anni. Si è parlato infatti del privato, dell’autonomia del movimento delle donne, di come l’inconscio entra nell’oppressione femminile ma sempre facendo domande e chiedendo alle iugoslave cosa pensavano di tutto questo. Risposte non si sono avute salvo l’affermazione che le domande che ponevamo erano importanti. Devo dire che neanche durante i pranzi e le cene, che erano momenti d’incontro più “intimi”, sono riuscita a capire come queste donne si vivono e come vivono il rapporto con l’uomo. Eppure erano quasi tutte, se non tutte, donne colte bi o trilingue, con una conoscenza diretta dell’Europa; molto simili a noi insomma salvo una differenza non marginale: vivono in un paese che si autodefinisce socialista.
Sembra che il 60% delle donne iugoslave abbia un lavoro e quindi, secondo i nostri parametri, la maggior parte di loro è «emancipata”. Ma che vuol dire emancipata in un paese dove si afferma che il lavoro individuale è il contributo che il singolo dà al benessere collettivo? Certo non può quindi essere posto nei nostri termini il problema della liberazione della donna, perchè ciò che unisce le occidentali, al di là delle classi, è la consapevolezza di essere sesso oppresso ma questo filo rosso che lega le donne da noi lo si è costruito a partire dalla critica fatta al modo come la sinistra ha impostato la «questione femminile”. Ora in un paese “socialista” che non smaschera la divisione in classi al suo interno da dove possono mai partire le donne per definirsi come un soggetto politico autonomo e specifico?
A sentire le compagne iugoslave, le donne lì sono impegnate nella costruzione del socialismo che è la base per la liberazione della donna. Loro cioè danno la priorità allo sviluppo della collettività composta di uomini e donne e sembra che per ora si limitino a rilevare che all’interno di questa comunità certo le donne sono in qualche modo subalterne ma come e perchè io non sono riuscita a capirlo.
L’ipotesi più ottimista e che io faccio mia è che i nostri discorsi sono in realtà serviti a loro per discutere dopo tra di loro. Per dirla in parole povere hanno fatto dire a noi ciò che loro non si sentono di affermare (e forse di dirsi) in prima persona. E infatti sarebbe interessante sapere come si è svolto il convegno dopo che le “occidentali” sono partite. La sera del sabato infatti è stato annunciato che dalle 12 di domenica terminava la traduzione, come dire che il convegno per le ospiti era terminato.
Certo è che le loro facce man mano che il tempo passava, tradivano sempre di più emozioni contrastanti e anche qualche intervento dell’ultima ora cominciava a rivelare che una breccia si era aperta nella coscienza di queste donne. Forse un giorno sapremo cosa è stato raccolto delle nostre parole e forse una parte non piccola di ciò che abbiamo detto li queste donne già la conoscevano. Resta il fatto straordinario che si è fatto un convegno di donne in un paese dell’Est, che non è stato impedito o censurato alcun intervento nostro e che ormai parlare in quanto donne è un fatto quasi automatico che va al di là della presa di coscienza. Non è forse su questo elemento che dovremmo riflettere?