il nostro corpo

come stai nel tuo corpo?

proseguiamo il discorso sulla danza moderna iniziato a febbraio, approfondendo alcuni aspetti del rapporto tra danza e riappropriazione del nostro corpo.

marzo 1978

l’articolo di Leonetta Bentivoglio sulla danza moderna pubblicato sul n. 2 di Effe, poneva una serie di interrogativi, lasciando aperto un discorso talmente vasto che vale forse la pena di proseguire per approfondirne alcuni punti e chiarirne taluni aspetti. Che la donna debba riappropriarsi del proprio corpo è divenuto ormai luogo comune, ma dietro questa affermazione, pur celandosi spesso un sentimento confuso di inadeguatezza a vivere la propria gestualità ed espressività corporea, manca sovente una vera e propria presa di coscienza di ciò che questo significhi, ignorandone le matrici storiche e sociali. La dicotomia anima e corpo ha origini lontanissime e difficili da collocarsi con esattezza nel tempo. Certamente comunque nelle epoche pagane non esisteva questa rigida separazione; gli stessi riti religiosi erano, ancora presso i greci e i romani, esempio della simbiosi tra spiritualità e sensualità. Il corpo era di sovente il momento di rappresentazione della fusione perfetta dell’essere in sé nella sua totalità. Con l’avvento del cristianesimo vengono introdotti nuovi motivi culturali e soprattutto si sviluppa una diversa concezione del rapporto spirituale-materiale.
Il concetto di anima viene a configurarsi con lenta ma inesorabile determinazione come il preciso opposto dell’altro da sé: il corpo. Predicando e diffondendo il culto dell’anima e dei beni spirituali, il cristianesimo condannò tutto quanto concerneva la vita materiale, e come oppose alle attività lucrative (benché sin dal suo primo strutturarsi la chiesa non disdegnò di incrementarne molte e di vario tipo per riceverne i proventi) quelle il cui solo fine fosse l’amore e la bontà verso il proprio prossimo, così pure oppose la castità, dono gradito alle divinità celesti, alla sessualità, che venne relegata al ruolo di pura attività procreativa (benché nel Mille fosse la Chiesa a detenere il maggior numerò di casini a Roma e a ricavarne parte dei guadagni).
Nella preghiera e nella meditazione l’uomo doveva trovare la forza di superare i propri impulsi e la propria natura terrena.
E se questa nuova concezione della vita colpì indubbiamente sia l’uomo che la donna, è evidente che fu quest’ultima a risentirne maggiormente. È la donna difatti che con il proprio corpo induce l’uomo in tentazione portandolo sulla via del peccato e della perdizione. Essa impara dunque ad avere vergogna della propria persona fisica, negando come conseguenza la propria sessualità e sublimando il desiderio nell’amore.
E nella forzata presa di coscienza di un falso ideologico che vuole sinonimi corpo e peccato, essa perderà la coscienza della propria corporeità quale mezzo di soddisfazione, di felicità e appagamento. Questa visione della sessualità fu tramandata di secolo in secolo sino ai nostri giorni, benché ogni periodo storico la rivestisse di motivi di volta in volta più congeniali al momento culturale e politico nel quale si collocava, mantenendo come denominatori comuni il ruolo subordinato della donna e quello privilegiato dell’uomo. All’inizio del 1900, si sviluppano nei vari campi dell’arte nuovi motivi che portarono al costituirsi di avanguardie artistiche nel campo della pittura (Picasso, Duchamp), della letteratura {futurismo: Mari-netti) e della musica (Schönberg, Cage).
Non fa eccezione la danza, nella quale il configurarsi di nuove tecniche non desta gli stessi clamori che in altre discipline, probabilmente per la propria specificità.
Come per le avanguardie letterarie la ricerca di nuovi mezzi d’espressione si associa alla contestazione della società borghese nel cui conformismo e nei cui modelli l’artista non più si identifica, così nella danza assistiamo alla ricerca concettuale di un nuovo uso del corpo, in contrasto con quello affermatosi con la danza classica. Ma il fatto più importante è che a portare un nuovo messaggio in questa disciplina sono alcune donne, tra cui in primo luogo Martha Graham che modifica il concetto stesso di «danza» mutandone totalmente le tecniche espressive,
Martha Graham colse l’occasione offertale di insegnare danza in America, per sperimentare e creare nella propria scuola nuovi modi di danzare rompendo non solo con la tradizione classica, ma con la stessa Isidora Duncan e affermando: «Non voglio essere un albero, un fiore, un’onda o una nuvola. Nel corpo di un danzatore noi dobbiamo, come spettatori, prendere coscienza di noi stessi… La tecnica è ciò che permette al corpo di trovare la sua piena espressività…». La «modem dance» di cui la Graham è iniziatrice, i numerosi balletti dei quali è coreografa, sono il risultato di studi profondi e accurati della filosofia occidentale ed orientale, come anche la conoscenza della psicanalisi le si rivela fondamentale per la comprensione delle pulsioni istintuali del corpo determinando così i princìpi sui quali elaborare ricerche di nuove tecniche espressive.
«La vita… è un’avventura, — afferma — una forma in cui l’uomo si esplica e che esige una estrema sensibilità per essere compiuta con grazia, con dignità, con efficacia.., L’anima e il corpo sono indivisibilmente implicati in questa esperienza della vita, e l’arte non può essere vissuta se non da un essere totale». Viene spontaneo chiedersi a questo punto come mai sia una donna a portare nella danza princìpi innovatori di tale risonanza, a differenza delle altre avanguardie artistiche,. nelle quali i nomi più rilevanti sono quelli di uomini.
Non sarebbe probabilmente azzardato avanzare l’ipotesi che, in un momento culturalmente fertile quale il primo 900, solo una donna poteva avere la volontà e il coraggio di violare i capisaldi di questa disciplina poiché in questa, come forse in nessun’altra, essa fu al tempo stesso soggetto e oggetto, acclamata ed emarginata, sublimata e sfruttata in modo tanto diretto e concreto. Usata per secoli solo come mezzo di espressione, la ballerina rappresentava, nella finzione scenica, la realtà della propria condizione di donna poiché colui che disegnava le coreografie, chi creava, era un uomo la cui fantasia ha in sé i limiti della propria visione della donna e delle sue possibilità espressive. La danza moderna, quale insieme di tecniche di movimento, diviene il mezzo di espressione attraverso cui l’individuo comunica, al contrario della danza classica nella quale il corpo era mezzo d’espressione della tecnica in sé e dei sentimenti di colui che la creava. In altri termini, oggi è il corpo che usa una tecnica e non una tecnica che si avvale di un corpo per realizzarsi. In questo senso la danza moderna trova la propria ragion d’essere non solamente in una finalizzazione professionale; proprio per i precedenti discorsi essa ci si pone di fronte come valida alternativa per riacquistare la coscienza di un corpo dimenticato, umiliato e sfruttato. Danzare potrebbe essere, per quante si avvicinassero a questa disciplina, un modo diverso di << viaggiare nello spazio», di comunicare e di usare materialmente la propria esistenza.
Riappropriarsi del proprio corpo significa essenzialmente recuperare una spontaneità psico-fisica cancellata nei secoli, riacquistare una sicurezza corporea che non può essere scissa da quella intellettuale.
Ma fino ad oggi la danza moderna non ha conquistato quel posto di privilegio che pur le spetterebbe. E non c’è da stupirsi se le autorità competenti in materia ostacolano, se non altro ignorandola, questa nuova forma di espressione; non c’è da stupirsi poiché da sempre il potere rifiuta il nuovo che considera comunque un attacco diretto e personale ai valori culturali nei quali affonda le proprie radici.