il nostro corpo

corpo rubato corpo violentato

l’estraniazione dal nostro corpo è la violenza più grande che subiamo, la più difficile da combattere, la più complicata persino da capire. Nella nostra intimità, in ciascuno dei mille gesti quotidiani, quante volte non stiamo bene nella nostra pelle? Perennemente inadeguate rispetto ad un modello estetico che non abbiamo scelto e che non ci corrisponde mai. Goffe timide insicure. Proviamo a riflettere insieme su questa nostra «ciccia che è sempre in più o in meno».

marzo 1978

quando parliamo di «corpo violentato», vale a dire della violenza fatta al corpo in tutte le manifestazioni dell’esistenza, sappiamo bene che questa violenza nella nostra società riguarda non soltanto le donne ma anche gli uomini. Mutila gli uni e le altre, paralizza l’esercizio del loro desiderio, deteriora i loro rapporti. Ma se il danno è comune ad entrambi, (è certamente più grave per le donne ed inoltre riveste, nel loro, caso, delle forme specifiche: ed è questo aspetto che dobbiamo analizzare, in quanto donne, in quanto femministe.

il corpo di tutti
Lo sfruttamento del corpo maggiormente messo in evidenza dopo Marx è quello che si esercita sul corpo produttore. Nella società industrializzata che noi conosciamo, il corpo del lavoratore non è considerato che una fonte di lavoro, determinante per chi ne è proprietario, un plus-valore. Tutta la giornata, tutta la vita del lavoratore, manuale o intellettuale, è assorbita dall’imperativo della produzione, il tempo per il riposo, anche se maggiorato, non servendo ad altro che al recupero delle sue forze e al consumo irrazionale dei beni prodotti. Nelle ore di lavoro come nelle ore di riposo, il corpo del lavoratore è dunque totalmente mobilitato, asservito a degli imperativi il cui controllo, come del resto i benefici, gli sfuggono: il lavoratore è un proletario. E con il termine «proletario» intendiamo la grande maggioranza dei membri della nostra società, in cui l’aumento del «livello di vita» e la maggiore disponibilità di beni materiali si accompagna ad una mobilitazione sempre più grande delle energie dei singoli per obiettivi al di fuori del loro controllo.
Lo sfruttamento del corpo produttore si traduce in una usura fisica e; nervosa senza controparte, che si rallenta solo alla soglia della vecchiaia, nell’età della «pensione» che spesso corrisponde all’età del decadimento fisico e/o finanziario. Gli incidenti sul lavoro e le numerose malattie professionali non sono che le forme visibili di un processo di violenza generale che fa del corpo una fonte di profitto.

rendimento e piacere
La mobilitazione esclusiva o quasi delle energie in vista della produzione non solo toglie agli esseri umani la gioia (perché il consumo non si identifica certo con la gioia) ma la capacità stessa di gioire, vale a dire di godere della gamma sottile dei rapporti sensibili che la complessità del corpo permette. Questa privazione, questo esproprio è così radicale che si vedono persino apparire organismi di soccorso: l’erotismo si apprende sui libri, nei gruppi di terapia, nelle imprese commerciali specializzate nell’organizzazione del tempo libero, che non sono altro che una panacea e molto spesso una forma più sottile di recupero. La paralisi è tale che vivere diviene un oggetto e li ricerca. Il corpo si rattrappisce e non riesce a trovare soddisfazione se non in alcune attività ricreative stereotipate alle quali viene condizionato da una industria specializzata. Come meravigliarsi che in simili condizioni, la vita fisica e mentale naufraghi? Si muore in età sempre più avanzata ma raramente ci si sente bene nella propria pelle. Si ha occasione di vedere sempre più paesi, ma si è sempre più incapaci di rapporti spontanei.

la salute monopolizzata
Approfittando (obiettivamente) dello stato di confusione generato da questo stato di cose, un corpo di specialisti, i medici, forti della loro autorità scientifica — di cui peraltro estendono i limiti e che essi confondono con un’autorità sociale o morale — fanno presa sulle masse. Non ci soffermeremo qui sugli aspetti economici di questa situazione, nonostante siano scandalosi. Ciò che è più grave è che essa implica un vero abuso di potere nei riguardi degli strati più deboli, tra i quali le donne. L’estensione e la generalizzazione delle cure mediche in simili condizioni si risolve nella monopolizzazione della salute nelle mani di alcuni, e a un corrispondente aumento di irresponsabilità e di dipendenza di un numero sempre maggiore di individui. Il terrorismo dell’istituzione medica e un consumo sempre maggiore dei suoi servizi, implica una espropriazione sia degli individui: non soltanto il medico conosce il mio corpo meglio di me, ma arriva a convincermi, quando soffro, che non ho male. In simili condizioni, nessuno più si sente a suo agio nel suo corpo, né osa intervenire su di esso, neppure quando si tratta di un banale raffreddore o di una indigestione. E ciò non implica affatto una migliore gestione della salute: privato del suo corpo, l’uomo medio non può nemmeno avvalersi delle cure specialistiche e delle tecniche estremamente avanzate di cui beneficia una élite, né gli vengono fornite le cure adeguate. Il corpo, così come viene considerato dalla medicina, non è altro che una composizione di pezzi separati che vengono studiati e trattati separatamente, e non certo un organismo. Inoltre, i «managers» della salute sono completamente estranei alla dimensione sociale e psichica che molto spesso influenza lo stato del corpo, la qual cosa rende la loro scienza inoperante. Infine il criterio della salute così come viene determinato o più esattamente ratificato dall’istituzione medica e farmaceutica si basa sull’attitudine dell’individuo ad occupare il suo posto nel sistema di produzione (e/o riproduzione se si tratta di una donna). Tutta la medicina non è altro che medicina del lavoro che cerca di far adattare nel migliore dei modi gli individui alle esigenze della società e alle condizioni di vita che essa impone, piuttosto che giudicarle e modificarle.
Così per lungo tempo ha rispedito alle loro occupazioni o in manicomio i «falsi malati» o quelli che considera come tali fino a quando il loro numero ha incominciato a paralizzare la macchina e hanno dovuto allora prenderli in considerazione nel quadro della psicosomatica. In generale possiamo dire che la medicina, dichiarando normali e persino normative le strutture esistenti, e uniformando le persone, si risolve in un potente fattore di immobilismo. La psicanalisi (e le psicoterapie che ne sono derivate) ha potuto essere liberatoria in taluni casi, scoprendo i meccanismi complessi e ignoti del desiderio e l’importanza della sessualità: tuttavia, perlomeno oggi, essa gioca un ruolo riduttivo.
Tende infatti a identificare le modalità culturali della sessualità con il suo funzionamento e quindi a farli perdurare. Così essa ha potuto favorire il Persistere dei ruoli maschile e femmine propri di un’epoca e di una classe; quelli della realtà familiare in cui Freud li aveva identificati. Nella pratica essa rischia di accentuare una irresponsabilità facendo credere che è possibile superare i propri conflitti per mezzo di una tecnica (d’altra parte costosa e perciò elitaria) di cui alcuni detengono il potere. Infine il processo puramente verbale della relazione psicoanalitica ha potuto apparire ad alcuni come una astrazione, un certo indietreggiare del corpo a favore del simbolismo del linguaggio.

«La mobilitazione delle energie in vista della produzione, non solo toglie agli esseri umani la gioia, ma la capacità stessa di gioire».

una cultura di «voyeurs»
Come per far fronte alla degradazione generale di cui è l’oggetto, il corpo si trasforma, nella nostra cultura, in pura superficie: corpo visto, interamente ridotto alla sua apparenza visibile, a pellicola, a immagine, I sensi si riducono a uno solo, il più astratto, quello che permette di tenersi a distanza: la vista. Ne risulta un singolare appiattimento del mondo, una riduzione delle cose e degli esseri viventi a una sola dimensione. Ora un corpo è anche sentire, carezzare, è una percezione di tutti i sensi e di quei sensi che lo avvolgono tutto e che non ha nome, e che ci permettono di «percepire» una persona. Ridurre l’altro a «l’altro-come-viene-visto», operare una discriminazione in nome della sola vista, è mutilarsi. Questa riduzione dell’altro come oggetto di sguardo ha raggiunto nei paesi latini una importanza che spesso sorprende i nordici o gli anglosassoni.

cultura e cultura
Questo approccio schematico a qualche forma importante di alienazione del corpo di tutti non presuppone una «natura» del corpo identica in tutti i tempi e in tutti i luoghi, 11 corpo umano, da sua statura, la sua gestualità, il suo portamento, la sua percezione, variano secondo la cultura e quindi da una società all’altra. Ciò che ci sembra inaccettabile non è quindi questa forma ineluttabile, ma il fatto che questa forma si tramuta in camicia di forza e paralizza l’esercizio del desiderio, del piacere, piuttosto che rafforzarla. Inoltre esso determina l’assoggettamento di una categoria di individui a un’altra, e in particolare, della donna all’uomo.

il corpo delle donne
È nel rapporto primario che il suo corpo ha con il mondo e con gli altri — un rapporto di pelle — che la donna trova il segno della sua proscrizione. Proscritta perché prescritta, marchiata come si marchia una bestia che appartiene a qualcuno, situata nell’insieme dei rapporti, degli scambi, come una merce.

la violenza fisica
In tutte le culture, in ogni epoca, troviamo delle pratiche per marcare fisicamente le donne, per costringere il loro corpo al fine di dimostrare la loto soggezione: i piedi fasciati delle cinesi, le labbra a piattello o i colli incisi delle africane, i corsetti delle nostre nonne, i visi coperti delle arabe, la clitoride escissa, i capelli ricci o lisci, le orecchie forate, il seno il naso corretti dal bisturi, il grasso del ventre o delle natiche staccato sotto anestesia, mentre altrove è un fatto apprezzato. Gli esempi abbondano, fino a toccare quello in uso ancora nella nostra società della «deflorazione» spesso traumatizzante, fatta da un partner, mentre sarebbe più semplice farsela da sole o medicalmente.
Dappertutto ci si ricorda che il corpo delle donne appartiene all’altro, che deve conformarsi alla sua volontà. Legata al suo carro, prima ancora che alla sua veste, la donna non può né correre, né godere, né portarsi verso il mondo in modo autonomo.

lo stupro
Il segno più evidente della violenza specifica fatta alle donne è lo stupro, che alcuni non esitano a considerare, ancor oggi, come lo schema fondamentale di ogni rapporto sessuale. Se sono gli uomini che violentano le donne, è inutile spiegare questo fatto attribuendolo a un destino biologico; se ne troverà la causa piuttosto nel struttura di dominio che determinai loro rapporti. La motivazione profonda dello stupro si rifà alla aggressività e alla volontà di dominio che è il fulcro dei rapporti umani in seno alti nostra società e che culmina nel rap porto uomo-donna. Violentare, non per soddisfare una irresistibile esigenza «piacere — basterebbe la masturbazione — ma una esigenza di dominio.
Il rapporto sessuale tradizionale, e in modo particolare quello coniugale, potuto essere assimilato in un certo modo allo stupro o alla prostituzione nella misura in cui è imposto alla donna dal suo partner piuttosto che scelto da lei nelle forme che preferisce. Così forzando un altro essere nella sua intimità, il matrimonio è stato per lungo tempo, ed è ancor oggi, teatro di una barbarie che ci si stupisce non venga più spesso denunciata. Se dei mutamenti si delineano essi sono ancora lungi dal poter essere di carattere generale.
Che una certa aggressività faccia parte di un rapporto sessuale complesso è verosimile. Ma essa è una componente del desiderio femminile come di quello maschile, mentre è stata finora respinta dal primo e esaltato dal secondo. Un rapporto sessuale egalitario la lascia giocare nei due sensi. La paura della violenza carnale, della aggressione, paralizza la vita delle ragazze e delle donne. Impedisce loro di passeggiare liberamente in una città, di portare il loro passo dove fa loro piacere. Le americane reclamano, per potersi difendere, dei servizi di polizia speciali e consigliano l’apprendimento di tecniche di autodifesa, come il karaté per esempio. Ma anche se non si devono trascurare questi mezzi, bisogna tuttavia constatare che il tasso di violenza aumenta nelle grandi città e ovunque le condizioni di vita sono sottoposte a una tensione esacerbata.
Lo stupro è strettamente legato alla guerra, quella dei campi di battaglia e quella dei conflitti sociali o razziali: questo per sottolineare l’importanza delle sue componenti socio-culturali.

la prostituzione
La prostituzione è il segno tangibile, caricatura ma anche quintessenza, dello schema dei rapporti intersessuali della nostra società: l’uomo impone il suo desiderio in cambio di denaro. La sua superiorità economica gli permette di assicurarsi i servizi delle partners che, perfettamente frigide, cercano un mezzo di sussistenza. Oltre al corpo esse spesso devono fornire, alla tariffa convenuta, segni di godimento. Attorno a questo schema elementare si sviluppano una serie di sfumature che vanno dalla mantenuta alla sposa fedele. Si ritrova sempre la forma dell’acquisto o della locazione, con uno scambio di denaro contro servizi, o di servizi reciproci. L’uomo regola la esazione: la donna ne è l’oggetto anche quando ne è la partner e anche quando ne, è la beneficiaria.

la riproduzione
La gestazione e il parto, appannaggio escIusivo delle donne, avrebbero potuto essere fonte di ricchezza e sono invece stati per secoli pretesto per affermare la dipendenza femminile. Indubbiamente perché esse non potevano esercitare su queste che un debole controllo, almeno fino alla scoperta dei mezzi anticoncezionali. Forse anche perché — ed è un’ipotesi avanzata da un certo numero di analisti — lo straordinario potere di donare la vita che le donne possiedono, è stato all’origine l’oggetto di una gelosia incosciente, ma intensa da parte degli uomini che si sono sforzati di minimizzarla o di annullarla finché potevano. Il fatto che gli uomini si siano presi la tutela delle donne non sarebbe quindi altro che un fenomeno di autodifesa con il pretesto di un compenso per la riproduzione. Nonostante i vantaggi che difficilmente si possono contestare, il parto in clinica effettuato dalla mano esperta (?) del medico priva la donna di una esperienza che le appartiene. Anche con i correttivi apportati dal parto indolore, nel quale la partecipazione della donna diviene più importante, si ha un po’ l’impressione che sia il medico a partorire. (Nella vocazione dei ginecologi si potrebbe individuare un’oscuro fenomeno di sostituzione, un po’ come il rito della «couvade» in certe culture in cui l’uomo si mette a letto quando la donna deve partorire). Anche la messa al mondo non deve quindi sfuggire al potere maschile: bisogna che l’uomo la recuperi in qualche modo.
Pensiamo di poter denunciare anche nel fenomeno della riproduzione (e dell’educazione) un’oscura volontà di espropriare la donna del suo corpo. Questa volontà si manifesta sempre in due modi contraddittori: o il disprezzo, la negazione del suo valore o la appropriazione. E siamo persuase che la riproduzione sarebbe socializzata in modo sistematico se i bambini invece di essere formati nel ventre della madre potessero — come la scienza lascia intravvedere — essere fatti in vitro nei laboratori. Essere madre avrà pieno valore quando la madre sarà un padre: l’uomo di scienza. Nel frattempo la madre è incensata a parole ma utilizzata come un operaio: deve produrre senza poter avere un controllo sulla produzione. Lo si vede bene quando trattando i problemi sollevati dall’aborto un ; insieme di uomini di governo maschi, di medici e di magistrati pretendono di imporre una linea di condotta alle donne. Gli stessi hanno il coraggio poi di parlare del rispetto della vita privata. Che la donna possa appropriarsi del suo corpo e determinare essa stessa le condizioni favorevoli alla sua riproduzione sembra suscitare dovunque un certo panico, come se l’uomo vedesse in questo una minaccia per il suo potere. Essendo la donna come partner sessuale e come madre legata a dei processi che non controlla, che non desidera coscientemente, si può dire che il suo corpo subisce la più radicale delle violenze, quella che la tocca nella intimità e nel privato.

la moda
Se la violenza sul corpo delle donne può esprimersi in modo immediato e brutale, può anche assumere forme indirette e più subdole. La moda, che apparentemente esalta il corpo femminile, è una di queste ultime. La moda non valorizza il corpo reale della donna, la costringe al contrario in uno stereotipo di anno in anno sempre diverso. La pressione esercitata dalla moda sul corpo raggiunge un numero sempre più grande di donne e si diffonde in tutte le classi sociali, anche se si esercita in modo diverso. Rari o pressoché inesistenti gli anni in cui il corpo alla moda rassomiglia al suo corpo reale.
La donna è sempre o troppa grassa o troppo magra, troppo colorita o troppo pallida, troppo alta o troppo bassa, troppo giovane o troppo vecchia. In questa corsa perpetua verso la propria immagine la donna plagiata consuma senza usarli vestiti, belletti, prodotti-miracolo, acque diverse. Il disagio verso la propria immagine e le ambizioni suggerite dalle diverse riviste fanno la prosperità di un’industria.

i modelli
Da tutti i muri e da tutti i giornali la femminilità inaccessibile ha una sola grande costante: la giovinezza; e un’altra sicuramente: l’irrealtà. Di fronte a un’immagine più inafferrabile di quella di una divinità dai cento visi, immagine inodore, insipida, intoccabile ogni donna reale si sente male(odorante) e nessuno dei saponi decantati dalla pubblicità la può sbarazzare da quell’odore così intollerabile e insormontabile: quello della vita, di cui dovrebbe quasi scusarsi.

tentativo di analisi
«Gli uomini misurano in continuazione il loro potere e il corpo della donna è uno dei mezzi migliori di cui dispongono per farlo».
Quando ci sforziamo di riunire in un fascio le diverse esperienze che abbiamo descritto — che costituiscono il nostro vissuto interno più intimo — ciò che appare è che il corpo delle donne non esiste. Non è che il prolungamento del desiderio dell’uomo, come si esprime nei comportamenti privati e nelle strutture socioculturali, nella pratica e nella rappresentazione. Il corpo delle donne è un testo dettato dagli uomini. È uno schermo sul quale vengono proiettati in maniera violenta o cortese, diretta o indiretta, i fantasmi maschili. Così la donna non è mai l’altro per lui, checché ne dica: essa è lo stesso. E la storia della poesia lo dimostra ancora più chiaramente, di quanto non faccia la «letteratura» erotica o pornografica. La donna ispiratrice dei testi più sublimi è sempre solo un effetto di specchio: quella che sostiene il sesso o il calamaio e grazie alla quale l’uomo può sentirsi forte.
L’uomo si stupisce quando scopre di potere essere lui pure oggetto di sguardo, oggetto di desiderio. Perché questa esperienza gli fa sospettare l’esistenza dell’altro, dell’altro come soggetto. La sola rappresentazione della sua nudità lo disturba e gli sembra sempre almeno un po’ ridicola; egli giustifica la sua reazione con delle considerazioni estetiche che servono a mascherare le sue vere difese: «un corpo d’uomo non è bello», dice, come se si trattasse di bellezza. Sapersi guardato, sapersi concupito, non fa parte dell’esperienza intima dell’uomo mentre è parte costante di quella della donna, anche quando, anonima, cammina per la strada.
Il rapporto con la donna è per l’uomo innanzitutto l’occasione d’una affermazione di potenza, nel senso proprio e nel senso figurato, una rassicurazione di sé sempre ripetuta. Trionfo del cacciatore che aggiunge alla sua collezione una virtù ostinata o una bellezza reputata inaccessibile, trionfo del proprietario che esibisce il suo possesso. La potenza (sessuale) scivola verso il potere e si confonde: si tratta della prima o del secondo? Tutto è in senso proprio e figurato insieme. Anche far godere può divenire un modo di dominare.
Se non si può «possedere» la donna, occorre farlo credere: assicurarsi una reputazione di Don Giovanni, alla quale spesso si sarebbe incapaci di fare onore. Si gioca sulla quantità o la qualità. Si consuma o si possiede una donna, delle donne, come si consumano o si possiedono dei beni: una Tv a colori, una macchina, una casa. Lo scambio e spesso il puro piacere resta estraneo a questi meccanismi:
ne è il pretesto più che lo scopo, La donna conosce il destino di tutti i beni: viene usata e mostrata. Perché si gioca a questo gioco? Perché colui che vi si abbandona vi trova una riaffermazione della sua potenza. Il muratore, che dall’alto della sua impalcatura fischia dietro a una ragazza che passa o a una signora che esce dall’auto, l’uomo di mondo che spinge la mano nella schiena delle sue invitate, il marito che mette in maniera ostentata il braccio sulle spalle di sua moglie (magari incinta per opera sua) si rassicurano. Si rassicurano sotto gli sguardi degli altri: gli uomini. Come i bambini piccoli misurano la lunghezza dei loro rispettivi peni o la distanza coperta dal getto della loro urina, gli adulti misurano in continuazione il loro potere e il corpo delle donne è uno dei mezzi migliori di cui dispongono per farlo. Potenza vana e falsa, e che molto spesso nasconde una grande fragilità, ma di cui il silenzio complice delle donne garantisce l’illusione.
Che cosa determina questi comportamenti così distruttivi d’una vera intesa tra uomo e donna come due uguali, e che contribuiscono a prolungare l’equivoco? Non possiamo ancora descriverlo qui in maniera sufficientemente precisa e complessa. Si possono trovare delle motivazioni nelle strutture socioeconomiche e culturali in cui viviamo: il capitalismo e la famiglia. Da una parte, infatti, la posizione della donna è paragonabile alla posizione di un oggetto qualunque e serve a rinforzare lo schema di dominio che caratterizza la nostra società. D’altra parte la triade edipica della famiglia può chiarire alcuni dei suoi aspetti. L’uomo sembra perdonarsi (ma perché?) con difficoltà l’essere stato e l’essere il figlio d’una donna: forse si vendica segretamente su ogni donna dell’immenso potere che sua madre ha avuto su di lui, dell’immenso e oscuro desiderio che li legava. Che la donna giochi in ogni società umana il ruolo d’un bene tra i beni, che si scambiano i maschi, non sono le femministe ad averlo inventato: «una constatazione della scienza etnologica che l’ha riscontrato nelle specie selvagge e in quelle avanzate come le nostre, dove ad esempio un padre dà la mano di sua figlia ad un uomo di; gliela chiede esplicitamente o implicitamente. Lo scambio delle donne (figlie, sorelle, spose o amanti) si regola tra gli uomini, con violenza, cortesia, sotto il segno della tolleranza o della gelosia, ma soprattutto tra uomini.
Non siamo poi così lontano da quelle tribù in cui l’anfitrione offre sua figlia o sua moglie agli invitati. Sono queste le «leggi dell’ospitalità». L’uomo dà o prende a un uomo il suo bene: questo bene è la donna.

le tre norme
Per mantenere la donna nel suo stato, la società dei maschi ha costruito intorno a lei un triplice livello di norme; relative al comportamento esterno (le buone maniere), alla morale e alla estetica.
Essere «ben educata» per una ragazza è più importante che essere semplicemente educata. Ancora oggi, malgrado i mutamenti di costume, ci sono un gran numero di cose che le ragazze «non devono fare», gesti e modi su cui la gente troverebbe da ridire. Il modo di sedersi, di camminare, di parlare, di sorridere, di ridere, di prendere degli oggetti, obbedisce a un rituale raffinato ma limitante. Tutti i movimenti d’una ragazza sono messi a confronto d’una norma «ideale», mentre il ragazzo si vede assegnato un campo di manovra ben più vasto. La «buona educazione» si sposa con la morale per stigmatizzare il corpo femminile. Una ragazza deve aspettare (eventualmente provocando) che sia il ragazzo a farsi avanti. Il ruolo della donna nel campo sessuale è passivo. Prendere l’iniziativa è considerato una perversione o un comportamento inopportuno. Anche tra i giovani l’espressione aperta del desiderio delle ragazze è spesso male accolta. Una ragazza non chiede appuntamenti, se li fa chiedere, anche con oscure manovre. Anche quando la pressione dei divieti sociali e morali s’allenta, quando le donne acquistano una certa libertà di andare e venire, sorgono altre forme di pressione che tendono a rinchiudere il corpo femminile in un’impalcatura. Se alla donna di ieri veniva imposta la castità, cioè una verginità incondizionata in caso di celibato, la donna d’oggi si vede al contrario quasi obbligata a rivaleggiare sul mercato migliorando le proprie apparenze: deve ad ogni costo apparire giovane, sempre bella per non perdere il suo compagno o per poter conquistare qualcuno. Deve apparire magra come un fuso, eternamente giovane, conservare il seno sodo e il ventre piatto anche attraverso eventuali gravidanze, esibire una carnagione di pesca, e cuoio capelluto esente da ogni pelo grigio. In questa lotta, le più coraggiose rischiano di logorarsi e d’essere poi gettate nel rango dei rifiuti. La donna d’oggi si conserva giovane a lungo, ma a quale prezzo. Le rimane appena il diritto di sentirsi umana. Dovunque si allenta il vincolo della morale, in tutte le classi sociali, viene rimpiazzato da quello ancora più confinante dell’estetica, La via lasciata libera al corpo femminile da queste diverse forme di norme, che si accavallano l’una sull’altra, è senza dubbio molto angusta. Il desiderio non riesce a emergere: vi si spegne.

i meccanismi
Esaminando ed analizzando i fatti, si è visto che se il corpo dell’uomo è sfruttato come corpo produttore in un meccanismo socioeconomico che non controlla, quello della donna è sfruttato in maniera triplice:
•    — come corpo produttore alla stessa maniera dell’uomo e in modo ancora maggiore dato che la donna occupa nel mondo del lavoro i posti più svalutati e meno pagati;
•    — come corpo riproduttore inoltre, perché essa fornisce alla società, senza nessuna controparte, i bambini di cui essa ha bisogno e provvede alla loro formazione e al loro mantenimento fino all’età matura. E questo senza che le sia stato riconosciuto fino ad oggi né il diritto di. decidere da sola sull’opportunità della sua riproduzione (resistenze ai metodi contraccettivi, proibizione dell’aborto) né di diritto d’intervenire a livello decisionale nell’orientamento di questa società che essa alimenta.
— come oggetto sessuale infine, oggetto di consumo per il piacere dell’uomo, oggetto tra gli oggetti, tra la vettura sportiva e l’acqua di colonia, oggetto di scambio (merce) di cui ci si appropria per un momento o per lungo tempo. Oggetto nella pratica dei rapporti umani e/o nel sistema di rappresentazione dove l’uomo si progetta: immagini, libri, pubblicità, ecc. Questa descrizione sembrerà brutale: mostra le regole che imperano nei rapporti della società e dell’uomo con il corpo delle donne, regoli; che sono coperte da usi molti diversi e che vengono a volte fortunatamente violate nella pratica individuale. Tuttavia esse indicano un meccanismo culturale nel quale s’inseriscono tutti i comportamenti interpersonali per confermarlo o violarlo. Quando un uomo guarda il corpo d’una donna o se ne avvicina, non è soltanto lui che s’avvicina, attraverso di lui (e spesso suo malgrado) è tutto un sistema di rapporti che s’instaura. È preferibile, perché l’incontro abbia le sue possibilità di sviluppo, esserne coscienti.

come uscirne
Se questo è lo schema dei rapporti eterosessuali nella nostra società e la condizione imposta al corpo della donna, bisogna disperare? Le donne potrebbero disperarsi se la legge che regola i rapporti fosse immutabile. In effetti essa dipende in parte da fattori socioeconomici e culturali che solo una rivoluzione potrebbe modificare, tuttavia essa vige anche grazie al terrorismo nel quale le donne troppo spesso si fanno intrappolare. Se le donne cessano di credere che ogni soggetto (ogni potere) sta da una parte, se liberano dentro di sé per affermarlo questo desiderio che secoli di tradizione hanno profondamente seppellito, se improvvisamente, e insieme, dicono: «io ti voglio» ad un uomo od al mondo, e che lo vogliono con l’intensità che le anima, sapranno di quale argilla è fatto il corpo armato dell’altro. Scopriranno che erano e sono ben più forti di quanto non credono.

il corpo presente
Ma prima di delineare quello che dovrebbe essere o. potrebbe essere e verso quali mete avanzano le donne, possiamo fare un inventario rapido delle ricchezze di cui noi donne disponiamo quotidianamente, nel nostro corpo rubato, nel nostro corpo presente. Perché il corpo delle donne ha le sue glorie segrete, inalienabili, i suoi piaceri permessi e proibiti. Piaceri discreti nati a volte dalla passività, è vero, o dal caso, come se non potessero emergere se non per miracolo, maldestri, colpevolizzati, e ai quali conviene ridare i loro pieni diritti.
Contatto del corpo del bambino contro il nostro corpo, dalla nascita, pelle, odore che noi rifiutiamo progressivamente tanto hanno agitato davanti a noi il «tabù dell’incesto», lo spettro delle «madri possessive» o «edipiche», carezze, pelle, peso sulle braccia, voce e parole, contatto con le cose con cui lavoriamo: mani nella pasta, dita che mescolano burro, che rompono le uova nella farina, odore di pesce, di zuppa, vento nelle gonne, sole sulle braccia e le gambe nude nei vestiti d’estate, schiuma di sapone, lana sui seni nudi, lana nel palmo delle mani che la lavorano, freddo dell’ago riscaldato sotto l’ascella. E ancora lo scivolare d’un neonato tra le cosce, d’un uomo, il gusto della salsa sul cucchiaio di legno, la lingua bruciata dal primo caffè mattutino, la prima tazza presa nella solitudine mattiniera della cucina, macchie di sperma sulle lenzuola quando rifacciamo il letto (lenzuola che alla vigilia parlavano di castità), pavimento tirato a cera, secchi d’acqua gettati sulla pietra, geografia mai finita da un corpo all’altro, uomo o donna, gioco di giocattolo di carne sempre pronto sotto le nostre mani, seni cremosi di neve nella scollatura d’una blusa, caverne e superfici, gole e pieghe, bel sangue rosso che ci esce fuori, marmellata nei vasi, gelatina, supposte infilate in teneri ani, grani di pepe macinato, bistecca al sangue, ubriacatura d’aceto bollito, sali dai mille odori, spazzola nei capelli, nylon, seta, cashemere sui nostri corpi eretti, i jeans che s’incollano alle nostre natiche senza mutande, acqua tiepida che ci lava, tamponi spinti dentro (avere un corpo che è un dentro e un fuori), bottiglie di plastica schiacciate, folate d’aglio, piede sul pedale d’una vettura, guance al vento in bicicletta, rullio gioioso della lavapiatti, schiuma saltellante sull’orlo del lavandino, calore del corpo d’un bambino febbri-dante sulle ginocchia, camicia di cotone, sapone nero, arrosto al forno… Potremo non finire mai d’elencare questi mille piaceri che si mescolano ai nostri lavori e al nostro asservimento. Piaceri furtivi di schiave forse, ma imperiosi e di cui non possiamo fare a meno anche se non vogliamo limitarci a questi.
È solo attraverso la riscoperta e la riappropriazione lucida del desiderio che è in noi che noi potremo liberarci e liberandoci promuovere nuove modalità di rapporti umani. Desiderio che è desiderio di sé, desiderio del mondo, desiderio dell’altro.

desiderio di sé
Desiderio di sé. Desiderio di sé come desiderio. Amarsi, non è decorarsi, rendersi desiderabile per lo sguardo dell’altro. È prendersi come si è (e non si sa mai completamente come si è), portare il proprio viso, il proprio corpo, la propria esistenza come un dato, non come un oggetto di giudizio. La donna come l’uomo non può essere resa oggetto ed è solo un tragico equivoco — il frutto di secoli d’oppressione — che fa sì che la donna s’identifichi nella somma degli sguardi posati su di lei o in uno solo di questi sguardi. Certamente la schiavitù può essere rassicurante. A volte è comodo credere di conquistare la propria identità ricevendola da un altro come un’immagine. Ingannevole conforto e spesso incerto: quando l’altro se ne va, non si è più niente. Assumersi come desiderio significa rinunciare a definirsi una volta per tutte ad abbandonare lo specchio, a correre il rischio. Benché bisogna perdersi per ritrovarsi.

desiderio del mondo
Troppo spesso le donne conoscono il mondo solo attraverso un altro, in rapporto ad un altro. Il movimento che le porta spontaneamente verso le cose, in tutta autonomia, che le rende curiose, attive, è stato represso nelle donne dall’infanzia ; «non toccare, è sporco», «non andare sola», «non parlare ad uno sconosciuto», «non fare questo, non fare quello». La loro energia si ritrova imprigionata, in un ciclo a vuoto chi: non trova sbocco esterno se non nelle occupazioni domestiche: le pulizie e l’ordine non bastano tuttavia ad esaurirla e la trasformano in mania. O negli acquisti: non potendo esplorare e trasformare il mondo le donne accumulano oggetti. Pertanto è proprio un contatto diretto con il monda — godimento, lavoro — che può rimettere le donne nel pieno possesso del loro corpo, e fare in modo che il rapporto con l’uomo cessi d’essere un bisogno, una necessità assoluta e divenga gioia gratuita e in qualche modo «grazia». Nel rapporto con il mondo il corpo s’ingrandisce, si diversifica: gode di sé producendosi. Aprire le porte, uscire, percorrere le strade di non importa quale città, scuotere la terra, prendere in mano, agire, osare, intraprendere, prendere su di sé, prendere la parola: è il primo passo verso la liberazione.

desiderio dell’altro
Noi non pensiamo che la liberazione delle donne e la riscoperta del loro corpo implichi l’inversione del rapporto di dominio che esse hanno subito e subiscono ancora. Il rapporto di dominio non deve essere invertito ma superato.
Più facile a dirsi che a farsi? Probabilmente. Questo mutamento comincia d’altronde con la presa di coscienza (teorica e vissuta) che l’uomo è, anche lui, oggetto di desiderio e non solamente soggetto. A questo riguardo, la rappresentazione del nudo maschile nelle riviste e sui manifesti può aver un effetto positivo a condizione che non ci si fermi qui. Quando lo sguardo non funziona più a senso unico, quando gli sguardi si scambiano, quando l’uomo è confessato, si confessa oggetto di concupiscenza come la donna, quando ciascuno si sa desiderante e desiderato, e ne assume i segni, allora né l’uno né l’altro sono più «oggetti» nel senso peggiorativo del termine: sono visibili, d’una visibilità in piena luce — ciò che è differente. Detto altrimenti, quando l’oggettivazione è reciproca non è più un’oggettivazione ma un movimento. L’uomo e la donna divenuti capaci di questo doppio gioco dove essi si scambiano, si vedono negli occhi, non nello sguardo. E in questo gioco, l’uno o l’altra possono farsi «oggetto» passivo o soggetto attivo del godimento, si tratta solo d’un gioco, non d’un obbligo, i ruoli s’invertono nello stesso gioco o in quello successivo,
È vero che la nostra società sclerotica, dove sembra che da sempre ci sia un sopra e un sotto, non incoraggia questa evoluzione che si deve fate contro di lei più che in lei. Questo mutamento sarà possibile solo se le donne si liberano dalla tirannia dello «sguardo dell’altro», attraverso il desiderio e il godimento di sé, attraverso il desiderio e il godimento del mondo.
L’altro diventa un sovrappiù, scelto nella libertà e non come condizione della nostra esistenza. Perché il desiderio non è bisogno: può esserne a volte il contrario. E non si può senz’altro veramente amare un uomo o una donna, se non si accetta di farne a meno, di «rischiare» ad ogni istante, È in questo rischio che le donne devono avventurarsi. Smettendo d’essere attente, mute provocazioni, prede docili e possessive insieme, diventeranno slancio verso ciò che le affascina: saranno gesto, parola, azione (e questo implica un mutamento radicale delle abitudini).
Non tutti gli slanci riescono ad avere ragione. L’altro che manca — capita — rinvia a sé, un sé sempre in subbuglio, un sé mortale, un sé vivi «Questo è il mio corpo: dato, desiderante».