stragi

effetto evelina

desaparecidos usciti dai cassetti dei giornalisti dopo due anni, perché? libano, angola, iran, turchia, afghanistan, anche questi paesi in guerra: lontani dall’occidente e dai suoi interessi, chi fabbrica le notizie e chi le occulta?

novembre 1982

Stragi come quelle avvenute in ottobre in Libano avvengono nel mondo tutti i giorni. La violenza rimbalza da un posto all’altro, ma alcuni fatti, per nefandi e infami che siano, per i nostri giornali e TV è come se non fossero mai successi, per altri stampa e video entrano in frenesia e per qualche giorno orchestrano la sagra dell’indignazione.
In Iran dall’inizio dell’anno sono state fucilate 12 mila persone e 20 mila sono tenute in carcere in condizioni tipo Bastiglia (cifra raccolta dal settimanale inglese Economist). In Guatemala da luglio è sospesa la costituzione, vige lo stato d’assedio e sono stati massacrati tre mila indios. A metà ottobre in Angola i ribelli dell’Unita, una formazione anticomunista, hanno sterminato trecento abitanti di un villaggio, distrutte le case e disperso il bestiame. Sono fatti che non hanno trovato spazio sui giornali, o in rari casi gli si è dedicata qualche riga nelle pagine interne. «Non fanno notizia». Ma che cosa e quando «fa notizia»?
Se oggi un giornalista dicesse al direttore: voglio essere mandato in Angola o in Iran, quello direbbe: ma tu sei pazzo. Quando morirà Komeini tutti partiranno a razzo e “scopriranno” le nefandezze del suo regime. Così gli esuli argentini in Italia hanno seguito esterrefatti l’improvvisa esplosione di accuse e controaccuse sugli “scomparsi” italiani o di origine italiana. Che cosa c’è di nuovo —chiedevano i primi giorni— in quello che state pubblicando adesso? Che cosa c’è che non avevamo pubblicato da anni? Gli stessi giornali che hanno accusato il governo di un discreto e felpato silenzio si sono guardati bene dal chiedersi perché finora nessuno di loro, senza eccezioni, si era impegnato in una campagna di stampa su questa tragedia. Tutti sapevano tutto da anni, ma con una improntitudine da mozzare il fiato adesso telegiornali e quotidiani hanno sbattuto in prima pagina le faccine dei neonati scomparsi…tirandole fuori dagli archivi dove giacevano sprofondate. Una di queste fotografie, quella di Clara Anahi Mariani, nel suo passeggino, rapita a sei mesi nel 1976, campeggiava sul manifesto di un convegno sui bambini “desaparecidos” organizzato a Roma in Campidoglio il 24 novembre dell’anno scorso dalla Lega per i diritti dei popoli e da Amnesty International. Lo sa Giancarla Codrignani che lo presiedeva, lo sappiamo noi che l’abbiamo seguito che impresa è stata trovare un po’ di spazio sui giornali per le voci di quelle nonne disperate e ostinate. Adesso c’è chi dice: doveva cadere Gelli quello della P2, potentissimo in ministeri, cancellerie e redazioni italiane e argentine— perché le anime belle di giornalisti e “autorità” (si fa per dire) si svegliassero. Altri dicono che è un siluro contro il governo Spadolini…Miserie e sozzure che lasciano aperti interrogativi grandi come case. Di sicuro c’è che i tempi e i modi con cui “si scopre e si disvela” sono pilotati a freddo da interessi — internazionali e interni — che non hanno niente a che fare con la documentazione. Né cronistica né storica. Quest’uso scorretto dei mezzi di informazione mi sembra spaventoso. Ma chi mette in moto la valanga degli inviati speciali, cameramen, fotografi che si precipitano su quel fatto e non su quell’altro? Che criteri vengono seguiti?
Vedo di dirvi l’idea che mi sono fatta io.
Nella “cucina” dei giornali arriva una valanga di notizie dalle grandi agenzie di stampa e dai corrispondenti. Le prime due operazioni fondamentali sono: selezionarle (decidere quale pubblicare e quale no) e, diciamo così, gerarchizzarle, cioè decidere quale collocazione dargli. In tutti e due i casi entra subito in campo la “valutazione”, l’apprezzamento che il giornalista fa del “valore” che una data notizia ha per il pubblico. Questa valutazione è quindi inevitabilmente un fatto soggettivo. Si stabilisce fin dalle prime battute un rapporto di forza (il cosiddetto quarto potere) fra chi comunica e non comunica l’informazione e chi la riceve, completa incompleta o deformata. In questo modo il giornalista diviene inevitabilmente orientatore dell’opinione pubblica. I fatti da registrare e analizzare ogni giorno sono tanti, la responsabilità è ancora più grande perché ogni notizia resa pubblica o “soppressa” è suscettibile di produrre fatti. 0 non produrli, il che può essere a volte ancora più grave.
Prima di ogni altra strumentalizzazione, il criterio che oggi regna sovrano è quello di trattare la notizia come una merce: è importante se si può vendere bene. Non la notizia in quanto informazione dovuta, che vale per il suo contenuto intrinseco e serve per far in modo che i lettori non vengano colti di sorpresa dagli avvenimenti, ma quella che vale per lo scalpore che può fare, per lo spazio che può trovare sulle prime pagine, oppure nel tempo televisivo di massimo ascolto, incentivando (all’americana per quel che riguarda i difetti, ma senza i pregi) il contorno di pubblicità.
Per quanto riguarda la violenza nel mondo, i massacri, la crudeltà, i soprusi, episodi quantitativamente e qualitativamente simili hanno più o meno rilievo se sono più o meno “vendibili” e sono più o meno “vendibili” secondo tutto quell’insieme di collegamenti di cui parlavo prima. Il principale è: il rilievo è maggiore quanto più una crisi è importante per l’Occidente. Nel momento in cui ha importanza o rappresenta un pericolo per l’Occidente, o una possibilità di avanzata dell’Est, che quindi preoccupa l’Occidente, in quel momento la notizia è da prima pagina, è vendibile. Una visione assolutamente occidentocentrica. Un po’ di esempi. Primo esempio: il Vietnam. Finché in Vietnam c’erano gli americani e quindi c’era un problema di coinvolgimento dell’Occidente, col pericolo di scontro Stati Uniti-Unione Sovietica, il Vietnam compariva tutti i giorni sulle prime pagine dei giornali. Dopo l’accordo di Parigi del 27 gennaio ’73 ci fu l’illusione creata dalla stessa stampa che quell’accordo significasse fine della guerra (ed era una truffa), poi quando si constatò che la guerra continuava, però tra asiatici, senza più americani, a seguire la famosa “guerra dimenticata” c’eravamo quattro gatti di giornalisti. Quando si profilò la caduta di Saigon e di nuovo uno scombussolamento nei rapporti Est-Ovest con un Vietnam unificato, di nuovo monta l’attenzione, di nuovo i morti diventano importanti. La famosa fuga da Danang, con la gente appesa alle ali dell’aereo americano, fu pubblicizzata come un’epopea. Cose che se fossero avvenute “tra asiatici” non sarebbero state vendibili. Altro esempio classico: l’Angola. Finché c’era la guerra civile in Angola i massacri facevano notizia. Naturalmente erano più ghiotti quelli compiuti dal movimento marxista Mpla. Finita la guerra, i massacri compiuti con armi sudafricane dal movimento ribelle filoamericano Unita non vengono nemmeno nominati.
Idem per l’Iran. Rivolta contro lo Scià, allarme generale, oddio oddio che succede, l’Occidente perde un cardine del suo dispositivo politico-militare, le vie del petrolio minacciate…Sale al potere Komeini e per diversi mesi sembra uno che si barcamena, uno neutrale. Vengono richiamati gli inviati, nessuno se ne interessa più, non esce più una riga. Poi: cattura degli ostaggi americani, la Settima Flotta si mette in posizione avanti allo stretto di Ormuz, l’Iran minaccia di far saltare i pozzi petroliferi, pericolo di guerra. Di nuovo i riflettori sulla crisi iraniana. Gli ostaggi vengono liberati: si spengono i riflettori, cala la tela e poco importa che sul palcoscenico vengano fucilati “soltanto ” iraniani. Per non parlare della Turchia, dove ancora oggi a due anni dal golpe dei colonnelli, si arresta si fucila si censura nell’indifferenza del mondo. Su un muro di Vicolo del Moro a Trastevere è comparsa una scritta: Se il papa fosse turco…
Questo porta ad una disinformazione totale dei lettori (cioè quelli che leggono almeno un giornale) figuratevi quelli —e le tante quelle— che non leggono e sentono gli echi lontani della stampa, un po’ di telegiornale. Una parola qua, una là e l’opinione pubblica viene indirizzata senza che nemmeno se ne accorga.
Solo gente in malafede può dire di non aver sentito crescere negli ultimi tempi intorno agli ebrei —da destra e da sinistra— un’ondata di antisemitismo. Basti pensare che, sia pure per contrastarla, siamo costretti ad usare termini come “cristiani” ed “ebrei”, categorie che si credevano ormai superate. Ed una società in cui si fanno ancora queste distinzioni è una società pregiudizialmente diffidente nei confronti dei “diversi”, una società in cui le basi della democrazia scricchiolano paurosamente.
Ma c’è chi, specialmente nella sinistra, rifiuta qualunque accusa di antisemitismo. Allora mi devono dire com’è potuto succedere questo fatto che mi sembra inspiegabile, almeno razionalmente. Quando un giorno all’ora di pranzo un fiume di sangue è dilagato attraverso i teleschermi da Sabra e Chatila nelle nostre case, rivoltandoci l’anima e le budella, la sacrosanta collera del mondo intero, con un’unanimità e un’intensità senza precedenti, si è rivolta soltanto contro Israele, colpevolissimo di connivenza. Tutti hanno sorvolato sugli autori materiali del crimine, che con le loro mani hanno ucciso e seviziato: le milizie cristiane del maggiore Haddad (come in un primo tempo hanno urlato i superstiti) o di Gemayel (come ha dichiarato ufficialmente il governo di Gerusalemme). Come se gli israeliani avessero sciolto nei campi palestinesi mute di cani famelici, bestie inconsapevoli, quindi innocenti. Una forma di razzismo verso i “cristianissimi” libanesi, non ritenuti individui civili capaci d’intendere e di volere, oppure verso gli israeliani, a cui si addossano anche colpe altrui e non si lascia passare quello che si è rapidamente perdonato ad altri popoli con la solita abietta scusa che “la guerra è guerra “.
Ma ve lo dicevo che una notizia viene valutata a seconda di tutto un insieme di collegamenti. L’improvvisa durezza nei confronti del governo del terrorista Begin (che è sempre stato tale, ma prima pochi sembravano accorgersene) trae origine da una concomitanza di circostanze: le buone ragioni di quanti da decenni difendono il diritto del popolo palestinese ad avere una patria si sono incontrate sulla lunghezza d’onda delle cattive ragioni della radicalizzazione della svolta filoaraba dell’amministrazione Reagan. Fino a pochi mesi fa il segretario di Stato Schultz e il segretario alla Difesa Weinberger facevano parte della Betchel Company, la più grande compagnia di progetti e costruzioni in Medio Oriente. Stephen Betchel — al quindicesimo posto nella Usta dei 400 uomini più ricchi degli Stati Uniti— è stato tra i maggiori finanziatori della campagna elettorale di Reagan. Sono notizie che potrebbero essere utili ai lettori per stabilire qualche collegamento. O no?
La qualità e il difetto delle agenzie è di dare le pure notizie e non c’è niente di più mistificabile della pura notizia. Nemmeno l’immagine fa eccezione. Quelle immagini televisive che noi crediamo essere proprio un documento inoppugnabile sotto i nostri occhi. Qualche anno fa, in una delle tante riprese della guerra in Libano, arrivo con altri giornalisti a Nabatihe, un avamposto sotto il castello di Beaufort. Su un prato c’era una troupe televisiva americana. Tutti seduti per terra a mangiare e bere coca cola, una telecamera su un treppiede puntata su una collina. Ma che fate qua? chiediamo. «Ogni tanto arrivano tre o quattro cannonate su quella collina, quando vedo arrivare la prima premo il pulsante automatico e me la fa», risponde il giornalista a bocca piena. Dovevano aspettare mezz’ora tra un gruppetto di cannonate e l’altro, invece quando il servizio sarà arrivato montato nelle nostre case chissà che bombardamento spaventoso sarà sembrato. La standardizzazione porta a un appiattimento e la fonte responsabile è sempre più lontana e sempre più lo sarà. L’immagine che vediamo stasera in Tv non sappiamo chi l’ha girata, Spesso è arrivata col meccanismo dell’Evelina. Evelina era il nome di una donna svizzero-tedesca che circa trent’anni fa organizzò un pool di stazioni radio svizzere, tedesche, italiane e di un altro paio di paesi. Adesso a Ginevra c’è una specie di club internazionale radiotelevisivo a cui partecipano le maggiori reti americane, europee, dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente. Ci sono cinque collegamenti giornalieri con le varie sedi attraverso i quali si comprano e si vendono reciprocamente servizi di non più di tre minuti di notizie della giornata. Questo lavoro viene coordinato a turno da un giornalista di uno degli undici paesi più importanti, chela una preselezione anche in base alle notizie arrivate dalle agenzie di stampa televisive. La partecipazione dei paesi dell’Est avviene tramite un centro installato a Praga (l’Oirt) che fa per l’Est le funzioni di Ginevra.
In Italia l’unica reale, grossa differenza tra la Rai e le Tv private è che la Rai ha accesso alle Evelina e le private no. Tutto il lavoro1 t facevano da sole cinque donne con contratto di impiegate. Nell’80 hanno chiesto il contratto di giornaliste e per tutta risposta si sono viste mettere come capo un giornalista, che non è sempre lo stesso, ma a turno una settimana uno del TGl (democristiano) e una settimana uno del TG2 (socialista), che decidono quello che vedremo durante la giornata. Io sono spaventatissima per questa avanzata della tecnologia nell’informazione: banche dati, computer che ti danno in casa le informazioni messe nella loro memoria…L’equipe che deposita in un cervello elettronico queste informazioni può non mettercene una e quella si perde, non esiste più. Negli archivi elettronici dei fatti che ne so con che criterio sono stati messi i dati? …
Di fronte all’archivio che oggi ha ogni giornalista, di informazioni, ritagli di giornale, cose viste, cose sentite raccontare da persone di fiducia andiamo incontro a pochi centri di informazione che potranno manipolare le notizie come vorranno. Si sente dire con orgoglio che il futuro dell’informazione è nell’elettronica, che fa passi da gigante. Il videotel è già entrato nella vita quotidiana degli uffici e presto entrerà nelle redazioni dei giornali e poi direttamente nelle case per informarci di tutto a domicilio.
E una cosa di portata sconvolgente: nella prossima generazione ci saranno giornalisti che a 18 anni cominceranno a lavorare con l’archivio elettronico dell’Ansa. Si chiama Dea (documentazione elettronica Ansa) ed è già in funzione. Finita l’elaborazione, ti danno loro notizie e documenti. Al deposito materiale c’è chi ha fatto la scelta per te.
Ora sta all’abilità, all’esperienza, al fiuto del giornalista di collegare tra loro anche notizie di agenzia che apparentemente non hanno niente in comune, provenienti da paesi diversi, su personaggi diversi. Quando nelle redazioni non arriveranno più le agenzie scritte il giornalista premerà un bottone e la Dea gli darà, che ne so, tutti i precedenti sul vertice arabo di Fez. Cioè di quelli che per la Dea sono i precedenti e quelli soli. Secondo me in giornalismo andiamo verso il peggio, ma molto peggio. Tanto che veramente non so se nascendo in una generazione futura varrà la pena di fare la giornalista. Tanto vale fare direttamente la tecnica elettronica. Dato che saremo nelle mani dei programmatori in tutti i campi, la cosa più importante sarà impalare come funzionano queste macchine. A meno che l’uso scorretto e diabolico dei mezzi d’informazione finisca per accendere la miccia a una deflagrazione cosmica. E poi tutto ricomincerà punto e a capo. 0 forse il mondo cambia più velocemente di quanto possiamo anche solo immaginare di cambiare noi stessi e le nostre abitudini.