informazione in formazione

forse avremmo dovuto aspettare un altro po’ per una buona gravidanza.
Il dibattito sull’informazione femminista è appena iniziato, ed è quindi incompleto ogni tentativo di riflessione su questo tema.
Diciamo che il feto si muove nella pancia».

luglio 1978

testimonianza, unica dea
Cronaca e testimonianza, assunte rispettivamente come portatrici di significati maschili e femminili, sono al centro del dibattito sull’informazione femminista. Oltre il loro significato letterale, ripropongono pedantemente la scissione tra politico e privato, tra la sfera della razionalità e quella dei sentimenti. Perché pedantemente? Perché si riattualizza una frattura manichea (in cui uno dei due termini è sempre il bene e l’altro non può che essere il male) che diventa normativa e si sclerotizza stabilendo a priori modalità .di scrittura, in cui l’unica libertà è scegliere tra polo maschile e polo femminile, prima ancora di aver stabilito la funzione e il contesto della scrittura stessa, che per timore di uscire da ciò che è «specificamente femminile» spesso si autocensura, Diciamocelo. Abbiamo dimenticato che «il personale è politico» è nato in un contesto in cui era necessario far emergere i nostri bisogni, destinati all’in-soddisfacimento proprio per il loro carattere «privato». Ed era da questa considerazione, e non dal fatto di ritenere il privato un valore assoluto e prioritario, e avente in sé tutte le risoluzioni dei suoi problemi, che era partita l’affermazione della politicità del personale, verso una ricomposizione delle antitesi, personale e politico, nel Femminismo, non verso .un’accentuazione del privato elevata a sommo valore. Dovremmo essere ben vaccinate, verso i«sommi valori». Se la dialettico nasce dalla sintesi delle polarità perché femminilizzare ulteriormente il femminile (-maschile; v. Solanas) e lasciare non scalfita la tesi maschile? Sembra quasi di dover riaffermare la laicità del femminismo di fronte alla crescente «mistica della femminilità» al suo interno. Lateralmente, questa predisposizione all’apologia del privato privilegia solo l’aspetto testimoniale dell’informazione. E se non sei passiva, se non sei sposata, se non ti vivi male: come sei maschile! A questo associo direttamente la mia inadeguatezza di comportamento nel periodo delle scuole elementari, in banco con una dolce bambina che disegnava solo stucchevoli ballerine, modello a cui cercava di adeguare tutta la sua personalità. Le bambine accettavano di farsi uccidere. I bambini erano privilegiatamente vivi. Io volevo vivere, nessuna delle due parti lo legittimava. La suora, poi, che mi accusava di essere la rosa con le spine (fingendo di non rifarsi alla nota poesia morale lombarda del Duecento), cui la Madonna preferiva invece timide violette, quali le mie compagne. La loro compiacenza a queste parole. Le ribellioni alle medie e al liceo, dove finalmente avevo trovato un’amica come me, e un gruppo di donne solidali, per quanto i nostri quattordici anni e il ’68 ci permettevano, Conserviamo ancora cinquecento bigliettini, solo una parte di quelli che ci passavamo sottobanco-la nostra stampa alternativa. Continuavamo comunque il disadattamento in compagnie miste, rigidamente ruolizzate, le sospensioni, le note di demerito in cui risultavo affetta da «turbe psicologiche» (leggi: non corrispondente a modello femminile). E le sere che tornavo a casa piangendo perché non ero una «donna». Beati i neri, che per accettare il nome che ‘ gli hanno dato gli è bastato togliere una «g» da «Negro»! La parola «donna» va distrutta o completamente ricodificata.
È questa la giusta dose di testimonianza che va bene, perché quello che dico non sia sentito come presa di posizione intellettualistica, o, peggio, «maschile»? Ho superato’ il mio esame di femminilità, o avrei dovuto lamentarmi un po” di più?

sorella cronaca
È buffo a questo punto accorgersi che non c’è differenza tra l’articolo di cronaca e la testimonianza. Entrambi sono racconti, sistemi monosemiologici, unità discorsive in cui si muovono personaggi che svolgono diverse funzioni. La testimonianza è solo una particolare forma di cronaca, scritta in soggettiva, che informa soprattutto sul soggetto narrante. Ci sono molti modi di essere protagoniste. Quello peggiore è essere raccontate da un altro da te. Quello migliore, siamo d’accordo, è autodescriversi. Eppure, se partiamo veramente dall’idea di fate informazione, diventa necessario orientare quest’esigenza di protagonismo e scegliere di rendere talora il nostro privato un protagonista secondario, senza instaurare con lo scritto solo un rapporto di compensazione della nostra esclusione dalla storia, nell’ingenua credenza che basti scrivere in prima persona per entrarci.
Come forma esplicativa finora abbiamo privilegiato la testimonianza, grazie al suo basso grado di astrazione dei dati narrati, all’omogeneità e alla centralità del soggetto, alla linearità della struttura. Non a caso l’autobiografismo appare dominante nella letteratura delle donne ed ha un enorme valore storico. Ma l’uso normativo della testimonianza arriva ad inibire la capacità di informare sull’altro da sé, e quindi di rapportatasi (La lotta è un rapporto) e ad inibire anche analisi più approfondite: non è detto che l’elementarizzazione del narrato con me protagonista sia più autenticamente mia di un’elaborazione informativa su altro da me. Anzi, quest’ultima è la sintesi di un’interazione che ho avuto con una situazione, che non si sarebbe stata possibile senza una mia sicurezza di soggetto narrante, acquisita precedentemente e contemporaneamente anche attraverso la pratica autocoscien-ziale. Insomma, bisgna decidere se si intende avviare un. processo di femminilizzazione o di femministizzazione dell’informazione.

tempi e doveri
Nove “mesi fa: riunioni delle collaboratrici di Effe? Lasciar scadere l’attualità e la necessità di informare o decidere .di.manipolare? Nell’indecisione perdere mesi a rincorrere gente, perché scriva, ipsa manti, l’informazione su di sé. Cercare di sintetizzare i risultati dei lavori collettivi, nei quali il tuo io scompare, nel rispetto dei dogmi della collettivizzazione del processo produttivo e dell’obiettività, assunti anch’essi come sommi valori, Tre mesi di vita per un articolo che si fa in un’ora, E poi la colpevolizzazione verso chi scrive, che va far tacere il senso di colpa di chi non ha scritto, e recrimina, magari in nome di uno spontaneismo giustificatorio, con accuse di efficientismo intellettualistico. Pensando alle realtà locali, avevo la sensazione di dover rispettare leggi non scritte, e per questo ben più terribili. C’erano doveri, dogmi da rispettare. Non sapevo con precisione quali erano. Per riconoscerli ho dovuto interiorizzarli in uno schiacciante super-io femminista. Non a caso Moira mi aveva battezzato «femminista fideista». Ora che me lo trovo di fronte, ammetto che quel super-io credeva nell’obiettività dell’informazione e nella doverosità del processo collettivo di produzione. Il vecchio dogma dell’obiettività della informazione (quello su cui si basano le bugie di regime, per intendersi) resiste ancora tra di noi e secondo me resiste proprio per la mancata produzione di articoli di cronaca, ed attualità la cui collocazione non può essere Effe, unica realtà continuativa, finora, di informazione femminista in Italia, ma a carattere mensile. È nella cronaca quotidiana che ci si accorge di quanto l’informazione può cambiare passando dalla fonte alla trascrizione su giornale. Resiste anche il castrante pregiudizio di sapore stalinista, secondo il quale collettivizzazione diventa dovere-garanzia, cercarsi individualmente una colpa, a meno che non si rientri nella celebrazione collettiva dell’io, detta testimonianza. Eppure si sa che la testimonianza, quando nasce da questa conflittualità, non è una soluzione, ma un procrastinate il riconoscimento della contraddizione tra i tempi lunghi dei collettivi e i tempi strettissimi dell’informazione.

l’arbitrio di chi scrive
Vogliamo domandarci come è possibile, ‘all’interno-y. di una lotta logica femminista, rendersi garanti di un’informazione adeguata.
La risposta a questa domanda è’ indubbiamente impegnativa e coinvolgente. Si tratta infatti di spostarsi su un piano che è tutto da inventare: un linguaggio tipicamente nostro, capace di informare su un avvenimento (politico) Non siamo certo vergini né in materia di linguaggio, né in materia di informazione, ci viene allora da domandarci che cosa ce ne facciamo di tutto quello che ci hanno insegnato fino ad ora.
Il modello di informazione che abbiamo è senza dubbio maschile; dal quotidiano al settimanale, al mensile, ogni articolo che ci capita di leggere è strutturato secondo rigide modalità persuasive: tutto ciò che viene scritto permette ad un soggetto — lo scrivente — di manipolare il ricevente secondo il taglio ideologico che all’articolo viene dato. Non ci sentiamo esenti da questa prassi, in quanto l’unica soluzione veramente radicale potrebbe essere soltanto quella di portare tutte le donne interessate all’argomento di cui le si vuole informare, all’interno della situazione stessa. Esclusa questa possibilità, l’articolo come,informazione risulta l’unico piano di realtà sul quale agire.
Come deve essere allora un articolo perché possa informare in modo tale da essere correttamente interpretativo del vissuto di cui si parla? Sappiamo che non è esaustivo cercare di risolvere tutto tramite il linguaggio, anche se come primo passo ci sembra necessario rompere le norme linguistiche che fanno del linguaggio uno strumento — coatto e ripetitivo __ tipicamente maschile! L’esperienza dell’autocoscienza, come specifico femminile, ha dato tra i vari contributi, tinello di far scoprire un nuovo tipo Ji comunicazione tra donne, tale da permetterci di parlare aderendo il più possibile a noi stesse. È questa diversa struttura di linguaggio che permette alla scrivente di essere , «dentro» l’articolo e quindi comunicare a chi legge, non solo le informazioni, ma anche sé stessa, mentre compila le colonne del giornale.
Ma l’unico modo di comunicare se stesse è veramente e sempre quello di informare, all’interno dell’articolo, su tutte le. perplessità che nascono in noi ogni qualvolta tentiamo di mettere per scritto ciò che le donne hanno fatto, o meglio; ciò che le donne hanno profondamente vissuto? Da ciò nascono perplessità: spazio rubato ‘all’informazione, anche se concesso alla riflessione. Che fare?
Passiamo ad analizzare i termini della questione; ma prima vorremmo precisare che il linguaggio analitico con cui i problemi sono affrontati vuole essere solo una conferma dichiarata della mancanza di sintesi tra livello emotivo e livello razionale di cui dobbiamo rendere conto. Abbiamo un atto linguistico:

“io ho occupato
la casa della donna”
«Io» sono il soggetto dell’enunciazione in quanto sono io ad enunciare, ma sono anche il soggetto dell’enunciato in quanto sono quella che ha occupato la casa della donna.
Il problema è allora quello di essere sempre consapevoli del proprio carattere manipolatorio in quanto soggetto dell’enunciazione (questo dovrebbe spingerci ad una continua revisione degli strumenti che usiamo) e preoccuparci di conseguenza della ricerca del soggetto dell’enunciato che sia coerente alla logica del discorso e non una semplice conferma della propria esistenza. Se vogliamo informare sull’occupazione della casa della donna, il soggetto è giusto si pluralizzi, senza che ciò venga sentito da me come una castrazione. Non si tratta di ridurre il soggetto dell’enunciato alla forma retorica del plurale maiestatis, bensì di essere capaci di compiere un salto simbolico, riuscendo a trasmettere attraverso la lingua scritta il vero piano della lotta, non individuale e puntuativa, ma collettiva e storica.

“abbiamo occupato la x fabbrica “
Anche qui soggetto dell’enunciazione e soggetto dell’enunciato coincidono, e. questo lo abbiamo già analizzato. Sorge qui il problema di come porci di fronte ai linguaggi collaterali con cui veniamo a contatto, quali quello sindacale, ad esempio. Abbiamo tre tipi di scelte: o utilizziamo il linguaggio sindacale così come viene usato dai sindacalisti maschi, oppure cerchiamo di renderlo elementare a tutti i costi, o peggio ancora lo omettiamo riempiendo le pagine coi nostri sgomenti di fronte a un linguaggio «difficile»? Tutte e tre queste possibilità sono nella mano di colei che scrive l’articolo. Non è qui solo problema di manipolazione, ma soprattutto di pertinenza. Non si tratta di rifiutare a priori una modalità di scrittura; ma di utilizzarle tutte nel momento opportuno. Omettere un linguaggio sindacale, rifiutarlo, può denunciare sì il nostro rifiuto di un modo di condurre la lotta, ma utilizzarlo può significare appropriarsi (criticamente) di certi strumenti troppo importanti per capire ciò che viene tramato alle nostre spalle. Inoltre semplificare un linguaggio «difficile» non significa sempre banalizzarlo. Ma tutto ciò, per l’ennesima volta, è arbitrio di chi scrive.

“le compagne hanno occupata la x fabbrica”
Strettamente connesso al dogma della obiettività è il terrore della manipolazione dei dati, terrore che non vuol ammettersi che la manipolazione, intesa come elaborazione di dati sotto la responsabilità di un soggetto, esiste nel momento stesso in cui ci si rapporta come soggetti ad altri soggetti, cercando necessariamente di imporre la propria griglia di convinzioni. Certo l’aspetto della delega implicito nel caso specifico in cui si raccontano realtà di altre può disturbare: ma quel che è peggio è che nella maggior parte dei casi si può scegliere solo tra questa soluzione e il silenzio. E’ per il timore di questa delega, e più spesso delle reazioni di chi ha delegato, che ben poche scrivono (non ci stiamo riferendo alla realtà della casalinga o della sottoproletaria).

proliferiamo
C’è chi scrive l’articolo, ed ha le proprie arti manipolatone, c’è chi lo fruisce ed ha le proprie pratiche eversive, Il problema è di rendere tutte partecipi di una scrittura e non distruggere chi già scrive.
Non creare fenomeni di leaderismo, non creare il culto della personalità, sono pratiche peculiari al solo femminismo. L’assenza dell’ipse dixit, del credo cieco delegato, hanno un valore politico fondamentale in cui dobbiamo continuare a credere. Ma non cadiamo nell’ipercriticismo, non poniamoci di fronte ai prodotti del femminismo con quella tecnica di distruttività che tuttora ci aliena e ci separa. Non si tratta di costruire la falsa famiglia (né la vera) in cui tutte si vogliono bene, si tratta di accettare che tutte possono manipolare. Non permettiamo ciò manipolando noi stesse: cioè scriviamo. Abbiamo biblioteche da costruire per i millenni della nostra assenza nella produzione culturale. Abbiamo giornali da creare, abbiamo situazioni da immortalare. Abbiamo una scrittura che può permetterci di crescere assieme ad esse. Proliferiamo.