la forza che qualcuna comincia a sentire

per molte donne la carne è ancora a nudo ma il mio non è trionfalismo non dico “io ce l’ho fatta nella corsa femminista e tu no” voglio solo comunicarti quello che provo dire “beh, io ora sto così e te lo passo” non è sbatterlo in faccia ci sono sempre stati livelli diversi di esperienze tra le donne un su è giù per le scale dove su e giù non sono meglio e peggio ma differenze.

dicembre 1978

Parlando ultimamente con amiche e compagne femministe a differenza di altre volte ci siamo ritrovate a scambiarci sensazioni piacevoli. Abbastanza contente, ma anche un po’ interdette abbiamo sentito l’esigenza di una specie di bilancio, dì fermarci un attimo a riflettere su come ci sentiamo oggi e su quello che è successo in questi anni. Ho la sensazione che per una parte di donne che hanno partecipato al movimento dal ’70 ad oggi si è conclusa una fase di femminismo. È finito il movimento femminista? o almeno è finito per noi? Non credo, proprio per quello che abbiamo vissuto e teorizzato: la liberazione della donna ha tempi lunghissimi, infatti l’abbiamo chiamata «la rivoluzione più lunga”, ed è evidente che non l’abbiamo ottenuta in dieci anni. Eppure qualcosa è cambiato in me e in altre donne con cui ho lottato insieme e vorrei capire cosa. Vorrei capire come ci siamo modificate, come vivono il femminismo le più giovani per età o per esperienza, se è cambiata almeno in parte la vita della maggioranza delle donne. Di questi due piani di inchiesta il più immediatamente accessibile è quello del movimento femminista, più difficile è invece la valutazione dei cambiamenti che hanno investito la maggioranza delle donne. Alcuni aspetti sono chiaramente percepibili, altri sfuggono perchè magari il cambiamento è più apparente che reale e non è facilmente individuabile ad una prima osservazione. Ci sono poi mutamenti legati all’azione del movimento di liberazione delle donne che non siamo in grado di valutare perchè hanno bisogno di anni per essere identificati con chiarezza. Per quanto riguarda me e altre donne femministe mi sembra che oggi abbiamo una maggiore sicurezza di noi stesse e un minimo di chiarezza su alcune cose che vogliamo. C’è in noi una voglia di nuovo, di conoscenza “ampia” del mondo, un desiderio di realizzazione che non conosce solo il tormento, ma anche qualche gratificazione. Si tratta di un processo di integrazione? di una nuova forma di emancipazione? è una fiducia destinata a cozzare ed infrangersi contro le probabili chiusure di un assetto sociale poco modificato in senso femminista? Molte di noi hanno trascorso mesi e anni con lacerazioni profonde, prese di coscienza dolorose della nostra condizione, rabbia impotente e spesso impossibilità a vivere qualunque cosa: i rapporti con gli uomini prima e con le donne poi, la politica, il lavoro, la maternità, a volte anche soltanto una serata passata con altre persone. Oggi c’è in me una specie di entusiasmo, di voglia di vivere, di fare con un gusto mai provato. Allora siccome non sono così accecata dalle sensazioni da non capire che la liberazione delle donne non c’è stata, che la situazione politica ed economica non è delle migliori, che il mondo maschile non è molto cambiato, che la maggioranza delle donne è ancora lontana da una presa di coscienza femminista, qual è la natura di questa piccola pelle che comincia a formarsi sulla carne viva? Sicuramente se non è il primo strato di una nuova corazza, è il frutto dei mutamenti che la pratica femminista ha provocato in me in questi anni. Provo a fare qualche ipotesi. Riflettendo su chi erano le donne del movimento femminista dicevamo che eravamo donne in possesso di strumenti di interpretazione del mondo culturali e politici, con una relativa autonomia economica data dal lavoro e che entravamo in contraddizione con il ruolo limitato di moglie e di madre che la società ci offriva, scaricandoci inoltre il peso di conciliare maternità e lavoro. Abbiamo poi capito che anche il lavoro, la politica, la cultura non ci andavano bene non solo perchè escludevano le donne, ma anche perchè avevano un’intima struttura maschile che ci limitava profondamente. È cominciata allora per noi la ricerca pratica e teorica di un’identità femminile o femminista in grado di farci esprimere senza dilacerazioni insostenibili discutendo, progettando, agendo, sognando in strutture completamente di donne, finalmente senza la mediazione dell’uomo. Riuscire a capire tutto quello che il separatismo ha provocato in noi richiede più tempo e una maggiore riflessione, ma due fatti sono stati sicuramente importanti: l’approvazione avuta da parte di altre donne e l’aggressività che si è manifestata dentro i collettivi.
L’accettazione presente durante la fase “donna è bello” è stata una iniezione di fiducia, l’inizio di una nuova valutazione di se stesse; finalmente per qualcuno donna era un valore e non un’inferiorità da accettare o con cui fare i conti. L’approvazione femminile, che non c’è mai stata da parte della madre, ha dato ad ognuna la possibilità di sperimentare una dimensione di femminilità che cominciava ad uscire fuori dagli stereotipi. Ma anche nell’aggressività reciproca che è seguita io trovo non solo il bisogno di un rapporto più profondò, il ricordo di un rapporto antico con la propria madre sofferto e dimenticato, ma anche la possibilità di poter avere un rapporto col mondo esterno diverso. Dove è stato possibile vivere ed elaborare questa aggressività sempre soffocata perchè confusa con la violenza o dissimulata per paura di non essere accettate, amate, senza troppo terrore e senza passare sui corpi delle compagne, forse qualcosa di nuovo si è determinato.

Mi piace chiamarlo un embrione di identità di donna, diversa dallo stereotipo femminile che ci fornisce la società (moglie, madre, figlia, amante) e senza i tagli dei nostri bisogni che ci sono imposti quando vogliamo realizzarci diversamente (maternità o lavoro, amore o produzione, ecc.). Questa ricerca che passa anche tra devastazione, arretramenti, sconfitte e riassestamenti, forse comincia a dare i primi frutti. Di qui la forza che qualcuna comincia a sentire. I problemi a questo punto sono diversi: come confrontare queste sensazioni e idee verificando se si tratta di un inizio di nuova identità femminile collettiva, come fare in modo che non si perda nell’incontro con una società maschile poco modificata, come comunicare l’esperienza fatta alle altre donne, sapendo bene che solo il cambiamento collettivo della maggioranza delle donne può garantire il reale cambiamento di ognuna. Dopo aver lavorato nei collettivi, praticato la doppia militanza, il piccolo gruppo di autocoscienza e il self help, non me la sento oggi di ripetere le stesse esperienze né di inserirmi nelle strutture che sono ancora in piedi nel movimento perchè sarebbe una scelta solo di testa, un ritorno alla vecchia militanza politica. Ma attraverso quali strutture possiamo continuare a lottare per la liberazione? Dovremo riflettere molto insieme per trovare nuove forme di lotta e di comunicazione che corrispondano a tutti i mutamenti che ci sono stati nel movimento e fuori. Scrivere quello che abbiamo cominciato a confrontare in piccoli collettivi di lavoro (penso alla redazione di Effe, al gruppo di compagne che cura le pagine delle donne su Lotta Continua, ad alcuni collettivi romani) è un tentativo, ma non è sufficiente. Il cambiamento personale va capito e comunicato trovando sempre più sedi dove è possibile farlo collettivamente.
Se il mutamento è stato soprattutto delle donne e non ha cambiato profondamente la società è però passato attraverso fatti molto concreti per ogni donna: pensare, agire, far politica insieme ad altre donne, rompere rapporti di anni o cominciarne coraggiosamente ad averne uno, distaccarsi dai figli o decidere di concepirli, riprendere a studiare, cominciare a scrivere o smettere per cambiare il modo, viaggiare con altre donne, muoversi da sole senza angoscia, toccarsi il corpo, cominciare una terapia psicanalitica, abortire potendolo urlare, sfiorare la follia. Abbiamo formato collettivi, riviste, consultori e altro ancora uscendo dalla passività. Ricordo l’organizzazione della prima manifestazione per l’aborto libero a Roma, la paura di noi tutte, non per Fin-capacità, ma perchè la responsabilità di tutto era completamente nelle nostre mani, dallo striscione al volantino, alla trattativa del percorso con la polizia. Non sono state “esperienze dell’animo” facilmente cancellabili, ma pratiche di vita e prese di coscienza profonde. La mia paura più forte è quella di doverci scontrare ancora una volta con una realtà ostile, impermeabile al nostro cambiamento perchè per accettarlo dovrebbe cambiare troppo se stessa. Ci siamo comunque tolte la maschera della donna-donna e quella della donna-maschio, cominciamo finalmente ad essere solo donne. Di qui nasce la nostra nuova forza, ancora bambina.