RACCONTO

la regina

settembre 1979

in questa cella vivo, regalmente, perché questa è la mia condizione. Qui i confini della vita coincidono con i confini del mio corpo, che mi sovrasta con la sua grossezza e sfugge al mio controllo. La mia vista è circoscritta dalla linea d’orizzonte del mio ventre e così non conosco per intero me stessa, i contorni della mia figura e soprattutto la demarcazione che mi separa dal resto del mondo. In alcuni momenti mi chiedo se il mio corpo non si estenda al di fuori di qui nei cunicoli e negli anfratti di cui si compone questo edificio, se non abbia, cioè, la proprietà di esistere come una linea segmentata, prolungando la sua identità al di là della barriera di vuoto che separa gli individui tra loro. A questo penso spesso, quando giaccio immobile in questa oscurità, sopraffatta dal mio peso, dal mio ventre enorme, gonfio, dilatato, destinato a generare ininterrottamente per il resto della vita. E’ possibile che io sia solo un ventre che partorisce e che debba a questo la mia regalità? Gli individui che mi circondano sono innumerevoli, contarli è impossibile, ed anche il loro vivere è diverso, ma tutti esistono ad operano in relazione a me. Non c’è nulla che si conosca e si ignori come il proprio corpo e così credo che essi siano il mio corpo e che mi appartengano. Dalla mia cella ne spio e ne assecondo i movimenti: nulla di quanto avviene può sfuggitimi — penso — di me non possono fare a meno. Ma nello stesso tempo ci sono momenti in cui la mia coscienza si allenta e il formicolio di quelle vite cresce e mi sommerge come una marea. Allora temo che possano sopraffarmi e cancellare il confine che mi separa da loro. — Che rimarrebbe della mia condizione regale — penso — se il partorire fosse solo il prodotto di una necessità? Io invece vi ho trovato il piacere che brucia le immagini della coscienza e come un fuoco si alimenta di esse e insieme le distrugge. La mia vita è un susseguirsi di attimi di combustione che si fondono ormai in un calore diffuso e indivisibile. Di che vive il piacere negli altri? Di se stesso, come il fuoco degli dei?

Qui il tempo non ha architetture componibili, o meglio, non ritorna mai su se stesso, ma ininterrottamente si sgomitola e si sfoglia: è un tempo buio che costruisce poco per volte l’eternità. Nessuna morte lo distrugge, Frana, piuttosto, verso un punto inindovinabile, ma questo punto è tanto lontano da apparire solo ipotetico, la frana è insensibile come lo spostamento di una galassia e così noi viviamo in un diffuso presente che assorbe nascite e morti unificandole in un’unica nascita e un’unica morte che attraversa il mondo come un canale di depurazione e di scarico. Io, però, a differenza degli altri, che hanno un solo tempo, come una nota ripetuta dall’inizio alla fine della loro esistenza, sono tra i privilegiati che hanno avuto nella vita un pre-tempo, un tempo preludio, cioè, che anticipa e condiziona ciò che viene dopo, ma poi ne è sommerso e deve così accontentarsi di riaffiorare a tratti come un relitto.

Quel tempo appartiene ormai ad un passato irrevocabile, ma si è rappreso dentro di me in qualcosa che somiglia ad una sfera luminosa che acceca e crea infinite tenebre intorno a sé. Spesso mi chiedo se quel passato abbia un senso, o almeno una qualche necessità, e se non sia crudele che io possa rappresentarmelo ora solo come un contrario rispetto ali presente. Io che ora vivo in questa stanza regale costretta all’immobilità dalla mia grossezza e so che mai più uscirò da questo edificio buio, dove tutti sono ciechi dalla nascita, ho avuto occhi ed ali, ho volato nell’aria senza direzioni né confini, ho visto la luce, gli astri, il sole, i colori, le nuvole. Anche a me quell’avventura appare ora indecifrabile, per quanto minuziosamente prevista fin dalla nascita.

Il tuo destino è diverso dal nostro

mi ripetevano le nutrici — Per noi la vita è questo calore elastico del tuo corpo. Sentiamo che ti muovi ed è come se una chiave girasse nella serratura dell’esistenza.

Io invece voglio andarmene di qui

rispondevo — non avere altra dimora che il mio desiderio. Quello che posso vedere e sapere non ha prezzo, solo che mi sovrasta come una nebulosa e io devo ricavarne mondi e soli. A chi può giovare questa creazione? Le nutrici leocavano il mio corpo, compassionevoli e delicate: — Povera creatura regale — dicevano — tutti gli universi che il tuo desiderio può creare non sono che una infinitesima, irrilevante particella del nostro buio. Quando giunse il giorno delle nozze, le vidi per la prima volta vuote e come perse in una nebbia di euforia: mi tolsero la mia veste di fanciulla e accarezzarono a lungo il mio corpo e non si rassegnarono finché non lo sentirono asciutto e levigato, estraneo a loro come una pietra o un ramo. Solo allora ritrovarono l’indifferenza e la sicurezza dei gesti e mi accorsi anzi di una certa loro impazienza nel tendere ed allargare alle mie spalle con tocchi precisi il mio trasparente mantello alato, come avessero ormai fretta di congedare la loro opera ultimata. A ognuno il proprio destino — mi dissero infine facendosi in disparte — Tu sei in qualche modo il nostro, ma non dimenticare mai che anche noi siamo il tuo.

Sentii che volevano ancora toccarmi, sia pure per lisciarmi la veste, ma che non avevano più il coraggio di farlo.

Così volai verso l’alto, attraverso uno stretto camino buio, attratta da un tombino di luce, alla ricerca del mio sposo regale.

Naturalmente rimasi abbacinata dal sole e credetti, io che vivevo sottoterra e distinguevo nell’oscurità i contorni delle cose, che la cecità fosse quel bruciante candore. Poi tutto sembrò dilatarsi all’infinito e mi apparvero, come affiorate dall’alluvione del nulla, le cose del mondo.

Pensavo che tutto mi appartenesse, che la realtà fosse, come un fiume e che attraversasse il mio corpo confondendone i confini. Desideravo sciogliermi in quel fiume, lasciarmi penetrare da esso.

Le gocce d’acqua sospese nel vapore dell’aria riflettevano la mia immagine moltiplicandola all’infinito: — Il mio volto è uscito fuori di me — pensavo

e dilaga come un’infezione nell’aria. Nella terra i viventi invece di espandersi si condensano, confitti come punte di spillo sul nucleo inesistente di loro stessi, che vorrebbero raggiungere e inchiodare.

Dovrei cercare di vedere e di ricordare — pensavo — oppure basta che io sopravviva ed ho la certezza che nulla andrà perduto. Ma a che serviranno queste immagini? Come potrò raccontarle a chi non ha occhi, e soprattutto, perché raccontarle? Non c’è alcuna convenzione fra me e loro di segno o parola in cui ciò che ora vedo possa docilmente acquietarsi. Muovendosi nell’aria, vedevo le immagini mutare, aggrappolarsi fra loro in combinazioni ogni volta diverse: — Forse è questa la condizione regale — pensavo — credere che ogni cosa derivi dalla propria creazione e sentire nello stesso tempo di non possedere nulla. Ed anche che tutto può moltiplicarsi restando fermo al punto di partenza. Gli sposi possibili erano tanti ed io non pensai di dover scegliere. Mi toccò in sorte uno sposo di cui non ricordo l’origine e i casi che lo spinsero verso di me. D’altronde io bruciavo di tutte le passioni connesse al mio essere regale e quel fuoco si riverberava su di lui, illuminandolo di luce riflessa. Non pensò mai di poter essere re, di far combaciare, cioè, come io facevo, la massima dispersione di sé con la trafittura dell’artiglio che adunghia e possiede un solo punto della terra e da quel punto è poi posseduto per sempre.

—Povera creatura regale — mi diceva, come le nutrici, nelle pause dell’amore

— Si ama ciò che si riesce a delimi
tare senza distruggere. Tu non ami nulla, neanche te stessa.

E tu, allora, che percorri la vita come fosse una tastiera e non ne ricavi ohe suoni che si dissolvono nell’aria?

E’ il mio modo di amare le cose

rispondeva — senza perderle e senza possederle.

A quel tempo l’amore si confondeva con il volo, il volo con una tessitura trasparente di cui circondava gli oggetti della vita: mi erano tutti indifferenti e cari, mai avrei sospettato che potessero attirare un vivente e rinchiudersi su di lui come fiori voraci.

Anche- la creazione deve essere avvenuta così — pensavo — con un dio che esce da un cunicolo di buio e si spande e moltiplica come polline nell’aria, e non sa, né si cura di sapere, se possiede o è posseduto.

Deve essere triste per un dio rimanere imprigionato nella sua creazione

 

diceva il mio sposo — anzi, non potersene neanche più sollevare in volo perché nel frattempo ha perso le ali. Ma questo io non sospettavo che potesse accadere e cosi non mi ponevo alcun limite: i tracciati del mio volo potevano incidere come segni magici nell’aria il profilo d’insieme del mondo e ogni minima parte di esso, Una foglia — potevano dire — ma anche: tutte le foglie, tutto il verde, tutte le nascite e le morti delle foglie. E io essere tutte queste cose in un unico punto, appena trascolorando, come fossi trasparente, nel passaggio da una luce più debole a una più forte. Allora pensavo: —Le cose divengono me, io sono per esse come l’aria e la terra per la luce idei sole: se io non ci fossi, i loro raggi invisibili si allungherebbero come illimitati tentacoli nello spazio.

Eppure — diceva il mio sposo — basterebbe un soffio a disperdere come in una nuvola di coriandoli quella che consideri la tua creazione.

Anche l’aria, anche l’acqua si disperdono con il vento, ma poi riacquistano la loro trasparenza e chiarezza, tornano a riflettere come specchi le cose.

Ma che importanza può avere — replicava lui — se poi la tua vita, la nostra vita, si svolge sottoterra in camere e corridoi nudi e oscuri? Lì gli oggetti non ci sono ed è tutto uguale. Ci sono solo le funzioni del vivere e nessuna finzione vi è ammessa.

Ma io sono la regina — dicevo — ed ho la mia parte nel mondo degli dèi.

— Ma quando un dio precipita dal
cielo e si conficca nella terra, crea l’inferno intorno a sé. A meno che non dimentichi tutto e non divenga come un fiume sotterraneo, che scorre ignaro di portare con sé le acque della terra.

Se ora ripenso a quel tempo, mi accorgo di non aver abitato- in alcun luogo, ma di avere preso di volta in volta dal mondo quello che il mondo poteva darmi. Anche l’amore era un prendere e un dare senza luogo, e così l’amicizia, la paura, l’odio: nessun esca, insomma, da nessuna parte. E del resto, dove sono le dimore degli dei? Chi nel descriverle è andato oltre il profilo di un monte o di una nuvola? Ma poi c’erano momenti in cui mi sembrava che la solitudine soffiasse via come un vento da tutte le parti le immagini della mia creazione: la mia mente diveniva allora come un vetro bianco in un deserto d’aria. — Non è mai esistito niente — pensavo allora — le immagini delle cose si sollevano come i vapori dalla’ terra, stagnano per un po’ a mezz’aria e poi si dissolvono. Non posso divenire regina in questo regno di ombre. Mi accorsi che le ali divenivano sempre più deboli, non mi sorreggevano più: mi lasciavo trasportare dal vento o dalla pioggia per conservare l’illusione del volo, ma sentivo di non poter più seguire alcuna direzione e che mai più avrei tracciato con il mio corpo intorno alle cose il loro distinto profilo, per magia di amore o di possesso. Il mio corpo era pesante e mi trascinava verso il basso: segnali avvertitoli cominciarono’ a serrarlo come una tenaglia, la mia allegria svaporò in contorsioni di disagio, si scisse in un cavillare fastidioso, condensò alla fine in una noia guastatrice e stralunata.

Mi trovai a scavare nella terra la mia camera nuziale. Le ali pendevano immiserite, le trascinavo zoppicando, erano inutili’ ed ingombranti come un vestito di nozze o un mantello regale. Inciampavo su di esse, senza decidermi ad abbandonarle, finché la terra ruvida le gualcì irrimediabilmente: vidi allora che avevano perso la loro lucentezza e avvolgevano penzolanti come Mine il mio corpo goffo e squilibrato.

Alla fine caddero e potei guardarle con distacco: come avevo potuto affidare il mio desiderio di dominio a quelle due membrane trasparenti ormai accartocciate e quasi dissolte al primo contatto con la terra? Costruii la mia stanza regale e ben presto il mio ventre si dilatò a tal punto da non poterne più uscire. Solo allora arrivarono attraverso le lunghe vie sotterranee file silenziose di cortigiane, inservienti, nutrici, operai, guerrieri. Le cortigiane si disposero in cerchio intorno al mio corpo:

— Splendida regina — dissero — grazia degli dei.

Poi ognuna di esse si avvicinò per accarezzare e leccare il mio ventre bianco e trasparente.

— Sono la regina — dissi — avrete musica e canti per me.

— Splendida regina — dissero — la musica e il canto divengono sottoterra suoni attutiti come passi di topo.
Le pareti che vedi interrompono qualsiasi ordine che presuma prolungarsi
verso il senso di un ritmo.

•E’ faticoso vivere sottoterra — sospirai.

Ma tu sei la regina, vieni dal mondo degli dèi, puoi popolare questo buio, solo ohe tu lo desideri.

Io non desidero corpi che si addensano come escrescenze del buio e non possono nella vita conoscersi e neppure ignorarsi.

Le cortigiane sorrisero — Noi ti conosciamo, regina, e ti ignoriamo anche. Il tuo ventre è il ventre delle regine che partoriscono. I suoni e i colori sono venti ohe hanno guidato il tuo volo, ma che ora devi rinchiudere in un otre perché non scatenino tempeste. Parlavano senza fermarsi, urtandosi delicatamente l’un l’altra e subito mutando direzione.

— Non mi vedono — pensavo — eppure sanno tutto di me. Ognuna di loro conosceva i gesti necessari per agevolare il mio parto e ricavarne il massimo profitto.

— Ora dipendo da loro — pensavo —
eppure io ho gli occhi ed esse invece
sono cieche.

Non capivo se la mia nuova condizione fosse il segno di una sconfitta, o l’adempimento della mia regalità. Spiavo le cortigiane: erano sollecite, deferenti, disposte ad una dedizione assoluta, eppure astute, ipocrite, palesemente esperte di tutti i ricatti attuabili nella mia situazione.

— Perché vivere in una città sotterranea? — chiedevo.

— Questa città è perfetta — rispondevano — nessun nemico può entrarvi.

Ma neanche noi uscirne.

Nessuno ti ha costretta, regina. Avresti potuto scegliere l’aria per sempre, sforzare la tua regalità ad attecchire nella pioggia o sui venti. Non sapevo cosa rispondere. Le immagini dell’aria erano rimaste nella mia mente, ma nell’oscurità in cui vivevo si dilatavano fino a fondersi in un’unica distesa ondulata, gonfia e minacciosa come un cielo di nuvole.

Mai più nella mia vita — pensavo

potrò dire un ramo, un’ala, un sasso, una foglia. Potrò parlare del mondo delle cose come di un paradiso di divinità assenti e felici.

— Regina — dicevano le cortigiane

— esiste solo ciò che è utile alla vita.
Puoi anche disporre sulle pareti di questa cella le immagini della tua mente, comporre con esse affreschi dai colori lucenti: il buio assorbirà tutti i colori e le forme sarai solo tu a vederle. E dunque a che giova?

Parlatemi della città — dicevo allora.

Ci sono operai e guerrieri, regina, nutrici e figli.

Come vivono?

Come i ciottoli del fiume, che scivolano nella corrente e si fermano nell’unico posto che esiste per essi sulla terra.

E i reali alati?

Aspettano che tu muoia, regina, per prendere il tuo posto.

Era vero. Sebbene chiusa dalla mia grossezza nella cella reale, sentivo tutto e spiavo i movimenti della città.

La regina — dicevano di me — parla di un mondo che nessuno conosce e che forse non esiste. Dice di averlo visto. Ma che vuol dire?

La regina non tocca le cose, non si inerpica su di esse, non ha bisogno di rivestirle dei suoi passi e delle sue carezze, come noi facciamo; dice che sono le cose ad andare da lei.

La regina possiede come una calamita che attira a sé tutto ciò che te circonda. Anche noi non possiamo sfuggirle. Eppure vive immobile, chiusa o murata nella sua cella, non potrebbe mai percorrere le strade della città.

La regina è immobile, eppure è come se volasse. Ognuno di noi è legato

 

a chi gli è vicino come l’anello di una catena e per quanto cammini nelle strade e nelle gallerie della città, non conosce e non vede altro. Gli occhi della regina sono lingue invisibili che si allungano nello spazio e divorano tutto.

— Forse — cominciai a pensare — il volo, l’amore, le forme, i colori, la caduta, sono accaduti in un sogno: anche i sogni appartengono ad una sola persona e non si possono raccontare, perché nessuno conosce i luoghi in cui si sono svolti. Anche i sogni giungono da un canale misterioso che ci consente di vedere e udire senza occhi ed orecchie. E così ciò che accade su quelle terre accade una sola volta e in un solo luogo ed è vana ogni esperienza, perché non si ripete mai più. Forse sono anch’io come gli altri, senza occhi. Ho solo fatto un sogno diverso.

Le cortigiane non rispondevano alle mie domande. Mi accorsi così all’improvviso che parlando si rivolgevano al mio ventre e si inchinavano di fronte ad esso. Non avevano interesse alcuno per il mio volto e i miei occhi. Forse ne ignoravano l’esistenza. — Splendida regina — dicevano al mio ventre bianco e dilatato e ne ricevevano in risposta odori e sapori e il liquido dolce che mantiene la vita e la giovinezza.

Allora anch’io scesi fino al mio ventre e mi rinchiusi dentro di esso, decisa a divenire odore e sapore, e a dare al tempo la misura delle uova che ne nascevano con il ritmo silenzioso delle sfere che ruotano su un quadrante,

— Solo così — pensai — posso divenire il perno intorno a cui ruotano
con impercettibili movimenti le costellazioni delle nascite. Il peccato d’orgoglio fu certo del creatore, non della creatura ed è per questo che la creazione gli è sfuggita di mano: lui e lui solo è stato cacciato dal paradiso terrestre.

Ormai era come se vivessi immersa nell’acqua.

— Vedere non conta — pensavo — ma conta avere visto. Lo sguardo apre ferite da ogni parte e io ho ferito il mondo fino a farlo morire. Vorrei essere una pianta. Gli dei sono certo le piante che non uccidono e non muoiono. Questo ora desideravo: chiudere i miei due occhi per aprirne infiniti altri, come gemme, in ogni minima parte del mio corpo e attraverso di essi allungarmi nella terra e ramificare, divenire una radice. E così, immersa nello scafo del ventre, guardavo attraverso l’acqua pallida delle nascite: i non-nati scorrevano silenziosi come stelle o pesci, risalivano la corrente, passavano attraverso gli stretti. Indifferenti alla loro nascita o morte, si lasciavano portare dalla marea verso l’alto: poi l’acqua che li teneva uniti si ritraeva ed essi rimanevano sullo scoglio asciutto del mondo, come, granelli di sabbia su un foglio bianco.

Che avverrà di loro? — chiedevo.

Diverranno operai o guerrieri — rispondevano le cortigiane — regine o nutrici, o forse anche cortigiane, come noi siamo.

Dove prenderanno la loro parte di amore?

L’amore è indivisibile, regina. Anche tu hai creduto di avere per te una parte di luce, quando volavi nella luce. In realtà l’avevi tutta, ma non sei -riuscita a portarne neanche un granello in questo buio.

 

— Ma i guerrieri uccidono o sono uccisi. Le operaie sono spesso schiaccia
te dal peso del lavoro, le nutrici spremono tutta la linfa del loro corpo fino
a divenire secche come fuscelli per allevare i figli. Chi li ripagherà? Chi
vivrà per loro?

Le cortigiane ridevano con le bocche senza denti, dondolando il capo sul lungo collo. Lo volgevano da una parte e poi dall’altra, forse per sussiego di casta, senza apparente necessità.

Niente li ripagherà — rispondevano — e nessuno può vivere al posto di un altro.

E se io raccontassi ciò che ho visto? Da molto tempo ho nella mente un disegno di mosaico in cui con pazienza dispongo ogni frammento o pietruzza che riesco a raccogliere percorrendo la distesa sabbiosa che si estende dentro di me illimitata, da ogni parte. Mi sembra che tutto combaci e che ognuno possa comporvisi e trovare la suo giusta densità di forma sul fondo dorato.

— Nessuno ha mai chiesto questo alle regine — rispondevano — anche se le regine hanno sempre voluto farlo. E poi, vedi, tutto finirebbe per distorcersi. I viventi crescono e si muovono: se si prova a rinchiuderli nelle linee di un contorno, la forza del loro vivere deforma le linee e così ci si può accorgere che l’unico senso della vita è un mostro acquattato in fondo ad essa che cresce fino a mostrare per intero il suo volto. Non farlo, regina. Lascia che ognuno viva la sua parte di bellezza e di orrore.

Con il passare del tempo sprofondai sempre più nel mio ventre.. Un’acqua tiepida, formicolante, mi avvolgeva da ogni parte: non avevo più pelle o giunture, occhi o gambe, nulla che sentissi subordinato al dominio della coscienza o della mente. Ero annegata dentro di me. Ora sapevo che il piacere era un’acqua senza fondo e senza direzione, capace di incresparsi e rabbrividire, ma anche di infiltrarsi in ogni stretto o fessura fino ad allagare tutto. E anche che il piacere era indifferenza, consenso o passività dell’esistere.

Vedevo la mia testa rinsecchirsi come una bacca legata al corpo da un gambo sottile.

— Cadrà, prima o poi — pensavo — e allora il mio piacere non avrà più alcun ostacolo.

E invece non sono riuscita a liberarmene. E’ ancora lì, avvizzita e pendula, con gli occhi spalancati sul buio, mentre io credo di avere trovato un nuovo paradiso in questo fiore di carne che germoglia.

Durante la notte ascolto i rumori dei guerrieri nella vicina sala d’armi: le loro corazze dure e lucide, i loro corni, rostri, artigli, lance, mazze, producono scontrandosi suoni ossessivi e ritmati, come di una interminabile danza di guerra. Attendono che un segnale di pericolo reintroduca il meccanismo della loro vita nel movimento armonioso delle cose. La distruzione è per essi una trama vuota di eventi, generica e indifferente come il piacere. Penso allora che la mia vita è sbilanciata e oscilla come un ago fra un sopra e un sotto e così a volte ho nostalgia di una condizione che ritengo mitica, o solo ipotetica, e che potrebbe indicarsi nella linea di confine tra il cielo e la terra, tra il volo e questa confitta immobilità. —Chissà se è possibile un’esistenza di superficie, diciamo come poggiare sulla terra e muoversi nell’aria, avere come punto di contatto un confine e quindi non appartenere a niente? —
chiedo a volte alle cortigiane. — Ma gli opposti — mi rispondono —
nel momento in cui vengono ad incontrarsi si annullano. Vuoi vivere nel nulla, regina?

— E il mondo degli uomini? — chiedo.

— Taci — rispondono — di esso è meglio che non si parli, quaggiù.