l’abito non fa la donna

rifiutiamoci al ruolo di sagome di cartone da vestire, pettinare, lustrare, chiediamo che cosa vogliamo noi per coprirci e decorarci.

marzo 1978

«lei stessa, la donna, dopo l’esperienza dell’emancipazione femminista, anche se non lo ammette, prova il desiderio di tornare a vestire in modo da piacere all’uomo. Il suo equilibrio sta qui, nel suo interesse iper l’uomo, altrimenti la vediamo andare dallo psicanalista, drogarsi. Il fatto è che non era preparata, né fisicamente né interiormente, alla posizione che ha raggiunto in questi ultimi dieci anni. A parte che, secondo me, gira e rigira, la donna ha sempre dominato il mondo: se ha avuto una posizione da schiava è perché lo ha voluto». È questa l’ideologia esplicitata ed il rapporto con la realtà storica attuale, a dir poco ignoranti, di un creatore di moda italiano che ci ha tradotto in modo esemplare il suo codice estetico in linguaggio parlato. Ha compiuto al nostro posto, di noi donne che ci vestiamo, che compriamo, abitiamo gli abiti, un lavoro di decodifica e di interpretazione di segnali formali (quali i colori, dimensioni, peso dei tessuti, scelta di lunghezze ecc.) che noi dobbiamo imparare a leggere come parole di un linguaggio, quello della moda. È conseguenza di moda ogni nostra forma, apparentemente spontanea e naturale di presentarci; sia nel caso più evidente della donna che sfoglia il settimanale femminile per sapere «quello che si porta», ma anche per chi, tipo cliente del circuito dell’usato o del mercatino di folclore popolare, si veste per essere diversa da o per essere uguale al ideale gruppo di riferimento, sempre riportandosi ad un discorso più ampio, dove il vestirsi è solo una delle componenti culturali in gioco. Infatti le tendenze all’auto-rappresentazione, cioè a dare di noi stesse un’immagine recitata secondo canoni e modelli non spontanei ed autentici, pur essendo una prerogativa di chi voglia conformarsi al modello pubblicizzato, riguarda anche chi adotta modelli di abbigliamento senza rendersene conto ed in assoluto contrasto con i suoi bisogni ed il sub essere sociale.
La donna si rappresenta, si maschera con gli abiti di scena in una recita a soggetto per vendersi meglio come borghese, casalinga, donna di successo, femminista, compagna: allora si veste. L’abito perde a tal punto la sua funzionalità di protezione fisica ed acquista a tal punto valore comunicativo da diventare innanzitutto segno e rimanere oggetto solo in secondo tempo. Quando viviamo un abito riproponiamo convenzioni, codici molto robusti difesi da incentivi e sanzioni, in modo da spingerci a parlare un linguaggio corretto, pena la messa al bando dal gruppo. Contemporaneo però è anche il desiderio individuale di distinguerci e, addirittura, più avanti abbiamo portato l’integrazione al gruppo, più le regole ne vengono assimilate in modo da darci l’illusione della libertà di scelta, di fare la nostra moda. La scelta dell’abito classico o di quello anti-moda, casuale, freak, segnalano a quale tribù apparteniamo, delimitano i confini di sicurezza che non vogliamo invasi dal confinante di un’altra tribù: ognuno allarga le sue penne di colore diverso e ci fronteggiamo difendendo il nostro spazio che viviamo come proprio, ma che in realtà è stato imposto dalla logica sociale e dalla produzione economica. Potremmo dire «mi vesto, quindi esisto» intendendo l’esistenza <li una mia posizione politica, perché il linguaggio dell’abito, come il linguaggio verbale non serve solo a trasmettere certi significati attraverso certe forme significanti, Serve anche ad identificare, secondo i significati trasmessi e le forme significanti che sono scelte per trasmetterli, delle posizioni ideologiche: portando in giro un abito ci scopriamo piuttosto che coprirci. Credo poi che per rendere più innocuo e più rifiutabile il condizionamento che ogni moda — borghese o alternativa — impone alla donna, più che parlare delle chiusure di tipo mafioso, clientelare, opposte a chiunque voglia fare moda con idee non rassicuranti il consenso di tipo tradizionale, sia producente aprire il meccanismo di logica politica della moda. Sembra che rappresenti l’inspiegabile: in realtà l’obbligo che essa rappresenta di rinnovare i segni, la sua continua produzione di un senso apparentemente arbitrario, il mistero logico del suo ciclo, costituiscono il senso profondo del momento sociale. I processi logici della moda debbono essere applicati all’intera dimensione della «cultura», all’intera produzione sociale dei segni, dei valori delle relazioni. Per esempio: né il fuori-taglia né ‘il nudo hanno un, valore in sé; solo il rapporto differenziale tra l’uno e l’altro agisce come criterio di senso. Il nudo non ha nulla a che vedere con la liberazione sessuale, ma ha valore — (di moda) — solo in opposizione al fuori-taglia infagotta. Questo valore di moda è reversibile: il passaggio dal nudo al fuori-taglia ha lo stesso valore selettivo e di moda che il suo contrario; quello che risulterà sarà il medesimo effetto di bellezza. Ma è chiaro che questa bellezza è solo’ la funzione esposta del processo fondamentale di produzione e riproduzione di materiali di distensione. La moda fabbrica così il bello, l’originale, il giovane, il Ubero ecc., sulla base di una radicale negazione della bellezza, originalità ecc… fondando sull’equivalenza logica del bello e del brutto. Può imporre come elementi capaci di distinzione, gli oggetti più eccentrici, mene funzionali, più ridicoli. È proprio così che trionfa: imponendo e legittimando l’irrazionale, secondo una logica più profonda della razionalità, la donna poi subisce oltre al condizionamento ed alla non scelta che le vengono dal vivere un sistema di scambio generalizzato, l’adesione ad un modello estetico imposto da sarti, parrucchieri, visagistes, maschi. Adesso la stampa periodica femminile, fa passare sempre più spesso oltre la foto di moda, il servizio-documento che vuole solo informare (in realtà presentazione promossa dai centri-moda” dell’industria), anche interviste ai creatori di professione tutti superdotati di gusto, artisticità, bisogni maniacali di vedere un «certo tipo di donna». Così la donna quando compra un abito compra anche la loro approvazione. È rassicurata — quell’uomo, l’esperto in femminilità, dice sì, piaci. Il processo creativo tanto mitizzato è invece una esteriorizzazione del desiderio represso di vestire loro stessi in abiti femminili, di travestirsi pubblicamente. Un rapporto di invidia-rifiuto verso la donna: in alternanza le negano, espongono, cancellano il corpo. Io dico che solo una donna può conoscere e sentir vivere il corpo di donna in un abito, volerlo come amico da portare in giro e con cui coabitare. Rifiutiamoci al ruolo di sagome di cartone da vestire, pettinare, lustrare; chiediamo che cosa noi vogliamo per coprirci e decorarci (chiediamolo prima a noi stesse). Anche il mito alternativo dell’usato come serbatoio di inventiva è da ributtare (l’usato ha i suoi tempi e scadenze nell’offrire gradualmente e, concordemente, per sua sopravvivenza, stili in progressione). È da proporre una moda che non faccia sentire le donne più giovani, più belle, più magre, ecc., ma più «intelligenti», spingendole a tirar fuori la loro intelligenza {che poi riproduce la sua bellezza, la sua giovinezza, ecc.), a conoscersi nei loro desideri e nel loro corpo, cercando di non violentarli adeguandoli a dei canoni o rifiutandone nevroticamente l’adesione; credo che solo dopo aver accettato una giusta convivenza con il proprio corpo nudo, possa essere vestita. Propongo quindi di non lasciare la ricerca dei codici vestimentari agli analisti del costume: il problema riguarda tutte le donne che decidano di vivere nella società ascoltandola parlare in tutte le forme: per intervenire e modificare credo bisogni conoscere ogni linguaggio.