mafia

le lacrime sono pietre

“noi donne di Sicilia non possiamo piangere, ma per me e per i familiari di tutte le altre vittime è una terribile, insopportabile ferita che non riesce a rimarginare…”

novembre 1982

L’avere firmato per prima, già nel dicembre del 1980, la petizione delle donne siciliane al Presidente della Repubblica per la difesa e la liberazione della Sicilia dal potere mafioso, è stato un primo momento di impegno civile per me e per tante donne siciliane che, dopo tante, troppe silenziose lacrime abbiamo ripreso a combattere, ricollegandoci all’antica e forte tradizione di impegno per la libertà e la democrazia.
La Sicilia, vive oggi gli anni più difficili, sicuramente i più drammatici della sua storia, in cui si è messo in discussione lo stesso sistema democratico, tentando come si tenta, di abbassare i livelli di legalità, a colpi di mitra, e insanguinando le eleganti vie di Palermo, come prima negli anni ’60, si insanguinavano le trazzere di campagna col sangue dei sindacalisti, che guidavano, nel latifondo, le lotte dei contadini per i patti agrari e per l’assegnazione delle terre.
A conferma della gravità del momento — ricordando che dal 1978 al 1982, sono caduti sotto il fuoco di quasi sempre ignoti killer, poliziotti, magistrati, politici, carabinieri e professionisti -due cifre tragiche ed eloquenti: dal I gennaio ad oggi 120 morti assassinati e 121 lupare bianche (cittadini scomparsi sulla cui sorte non si nutrono più speranze).
Tra questi – non ultimo ma certamente tra i più efferati per il modo e per il fatto di avervi coinvolto anche una donna, l’eccidio di via Carini, dove ha perso la vita il generale Dalla Chiesa, la sua giovane moglie e l’altrettanto giovane e coraggioso agente Domenico Russo – che ha risvegliato l’attenzione nazionale sulla pericolosità dell’organizzazione mafiosa.
Come donna, come madre, come siciliana soprattutto, profondamente mortificata da quanto è stato compiuto quel tragico 3 settembre in via Carini contro la bella Emanuela, venuta, in un gesto d’amore, a perdere i suoi begli anni in Sicilia, consentitemi di esprimere dalle pagine di questo giornale tutta la mia comprensione e la mia solidarietà – anche a nome delle donne libere e democratiche siciliane -con un lungo abbraccio ideale alla signora Setti Carraro, che ho conosciuto soltanto attraverso lo schermo televisivo.
Noi donne di Sicilia non possiamo piangere, perché le nostre lacrime devono, sono diventate pietre: pietre di duro granito sulle quali dobbiamo ad ogni costo costruire il movimento della nostra liberazione e della liberazione della Sicilia da questo attacco, feroce, spietato e sistematico della mafia, alla quale, malgrado la «qualità» di alcune sue vittime lo Stato non ha ancora dato adeguate e immediate risposte.
In ognuna delle tristi occasioni, infatti, in cui è stato celebrato un funerale di stato, abbiamo visto, secondo un ripetuto copione le facce di circostanza dei politici e delle autorità: abbiamo ascoltato le loro parole di esecrazione, le loro promesse di un rapido e decisivo intervento, abbiamo sentito farfugliare più o meno ignobili e sciocche tesi sulla nuova e vecchia mafia. In concreto passata l’emozione del momento abbiamo dovuto constatare che nulla se non in peggio cambiava.
Lo stato e la sua classe dirigente al potere, nei fatti, continuano a dimostrare di non voler fare nella lotta contro la mafia quel salto di qualità che permetterebbe sicuramente di colpirne i gangli vitali e gli inviolati santuari.
A dimostrare il contrario non mi pare sia stata sufficiente la nomina a prefetto del gen. Dalla Chiesa al quale non si diedero i necessari poteri per muoversi e premunirsi, lasciandolo «solo» in una città dove la solitudine determina quell’isolamento che, come ha detto lo stesso generale, porta ad essere «cancellati come corpi estranei».
Il vicequestore Boris Giuliano, il consigliere di Cassazione Cesare Terranova con il maresciallo Lenin Mancuso, sua scorta, il Presidente della Regione Siciliana, Pier Santi Mattarella, il capitano Emanuele Basile, il Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, mio marito; Fon. Pio La Torre e il suo autista Rosario Di Salvo, il professor Giaccone titolare di medicina legale, il generale Dalla Chiesa, e l’agente Domenico Russo è la lunga lista di coloro che sono morti nell’esercizio delle loro funzioni, compiendo il loro dovere al servizio dello Stato e della società democratica in questi ultimi due anni.
Per la Sicilia, per l’Italia intera sono fatti di cronaca: la consueta monotona cronaca di tanti, quotidiani delitti di mafia.
Ma per me, per i familiari di tutte le altre vittime è una terribile insopportabile ferita che non riesce a rimarginare, perché sono fatti che sconvolgono le regole stesse della civile convivenza in uno Stato democratico.
È stato quindi necessario uscire dal privato e trovare la forza necessaria per ricordare a tutti che in questa guerra di sopraffazione che la mafia ha dichiarato allo Stato, il popolo siciliano soprattutto che ne è la vittima sacrificale, tutti siamo coinvolti e tutti dobbiamo quindi insorgere contro la violenza per il riscatto della nostra isola.
La mafia, nata come baluardo sanguinario alla nascente coscienza dei lavoratori, è oggi un potere aggressivo e sanguinario che tutto controlla producendo anche eroina e morte.
La criminalità mafiosa ha tanto sconvolto il nostro tessuto sociale che si rende essenziale e improrogabile un eccezionale intervento da parte dello Stato e la collaborazione unitaria di tutte le forze sane e democratiche: perché solo cosi si potrà arrestare la caduta in senso criminale della Sicilia, come ha mostrato la manifestazione a Palermo del 16 ottobre.
E da noi donne, mi pare essenziale, che deve venire in avanti un grande slancio ideale contro la violenza mafiosa portatrice di morte: e noi, che per un fatto biologico siamo portatrici di vita, non possiamo accettare la morte come arbitrio e viverla come violenza sulla nostra pelle, e come sopraffazione sulla nostra coscienza di cittadini di un paese libero.
Noi ben sappiamo che la mafia affonda le proprie radici nella storia della Sicilia. In Sicilia si è sviluppata, ha prosperato e continua a prevaricare, avendo purtroppo determinato nel tempo una sua, anche deleteria, cultura. Contro la quale, oggi, bisogna, quotidianamente e con tenacia, costruire una cultura di lotta alla mafia.
E in questo momento noi donne siamo in prima linea, avendo ripreso con rinnovato slancio ad operare nel Comitato di cui parlavo all’inizio, che oggi è molto più esteso, per la partecipazione di tutte le rappresentanze femminili.
È questo un grande momento di tensione ideale, che ci deve portare la solidarietà e l’aiuto di tutte le donne d’Italia, scosse nel profondo della loro coscienza da tutta questa lunga e dolorosa catena di delitti.
Il 16 ottobre Rita Dalla Chiesa disse di fare in modo che il sacrificio del padre, di Emanuela e di Domenico Russo, non fosse stato vano.
Io dico alle donne di tutte le regioni d’Italia: non siamo «diverse», la Sicilia non è mafiosa, la mafia è una piaga sulla quale da sempre e ancora non si è voluto operare. Ma oggi si è arrivati ad un punto di massima incompatibilità tra la nostra volontà di rinnovamento e la condizione di violenza e sopraffazione nella quale siamo stati costretti.
Chiediamo, quindi, solidarietà a tutte le donne, chiediamo di scendere in campo con noi perché, finalmente, possa affermarsi la Sicilia degli onesti, la vera, autentica Sicilia.