per un «femminile» radicale, per un cinema «altro»

lasciare parlare un altro linguaggio, interessante per noi era di non abbandonare lo spettatore allo sguardo, ma di arrivare ad una totalità di sensazioni.

dicembre 1978

sono state alcune serate di cinema indipendente a Parigi a rivelarmi il lavoro di Maria Klonaris e Katerina Thomadaki. Un lavoro che unisce ricerca di linguaggio, riflessione sul media utilizzato e presa di coscienza femminile. Ricerca di identità in tutti i sensi, attraverso una produzione cinematografica contrapposta alle leggi del cinema dominante. Sintesi delle loro posizioni si può considerare il Manifesto per un femminile radicale, per un cinema ‘altro’, che accompagna nel 1977 la presentazione del loro film: L’Enfant qui a pissé des paìllettes. Tre sono i film realizzati finora assieme da •queste due giovani greche che vivono a Parigi: Doublé Labyrinthe (1976) “Ricerca d’identità attraverso una serie di travestimenti che non avvengono per l’intermediario di costumi, ma piuttosto di gesti, materie e oggetti», L’Enfant qui a pissé des paìllettes “Azione per film, diapositive e testi… universo femminile attraverso quattro personaggi-donna: due attanti (M.K. e K.T.) e due personaggi-specchio (la bambina – la prostituta)” ed infine, nel 1978, Soma, anch’esso composto di fotografia e film, sorta di viaggio attraverso il corpo femminile. Questi film, tutti in S/8, Maria e Katerina li girano in casa loro, con un minimo di spesa, in condizioni completamente artigianali. Ed infatti andare a casa loro significa ripiombare nello stesso universo dei film: gli stessi oggetti, gli stessi colori, le stesse luminosità. Il film fatto della stessa materia della vita, costruito con la medesima sensibilità con cui si toccano, si sfiorano l’ambiente, i corpi, le cose.
“La cultura femminile non può che essere in rottura con la cultura dominante. Non può che essere negazione del linguaggio dominante.
Non può che rifiutare i procedimenti della creazione dominante. Non può che fare emergere tutto ciò che l’ordine sociale opprime nella persona: corpo, desiderio, sessualità, inconscio, singolarità.
Non può che condurre all’irruzione del rimosso in rivolta, nelle norme d’espressione”.
(dal Manifesto per un ‘femminile’ radicale)
Quello che mi ha più scosso è la presenza contemporanea dei vostri corpi in sala, della vostra voce che legge nel buio e dei vostri corpi sullo schermo. Lo spazio filmico tradizionale è completamente frantumato. Lo sguardo perde il suo potere organizzativo e al suo posto subentra qualcosa che ha a che fare con il ‘tattile’. Come dite nella presentazione di “Doublé Labyrinthe”: la cinepresa che tocca…

Maria. Prima di iniziare Doublé labyrinthe abbiamo molto riflettuto su ciò che volevamo fare in quanto persone che volevano lavorare assieme, che lavoravano già assieme a partire dal ’68 nel teatro di ricerca con altre persone, ma che adesso volevano chiudere l’ambito di ricerca esclusivamente su loro due. Trovandoci a lavorare in Francia nel 1976 e quindi in un ambiente culturale specifico ed in rapporto ad un movimento, ci chiedemmo dunque cosa volevamo fare. La prima questione era allora “Chi siamo?”, per noi e per gli eventuali spettatori. Ci interessava frugare le nostre identità… nulla era dato… solo sapevamo di voler fare qualcosa con i nostri corpi e con degli oggetti e delle materie. Stabiliti prima di iniziare a girare? M. Sì. Katerina aveva scelto le materie poiché aveva una disposizione sensuale ad esse, mentre io con gli oggetti potevo creare un linguaggio, qualcosa a livello significante/significato. In più volevamo vedere le cose in modo egualitario: quindi abbiamo diviso il film in due parti di sei azioni ciascuna e pressapoco lo stesso tempo a disposizione. Dopodiché una è passata dietro la macchina da presa mentre l’altra cominciava le sue azioni e viceversa: il risultato è già quasi il film, il montaggio avviene dentro la cinepresa. Qui arrivo alla tua domanda. Se parliamo di cinema sappiamo bene che la sensorialità dominante è la vista. Abbiamo lasciato cadere il suono perchè non ci interessava e perchè volevamo creare una certa musica, un certo ritmo attraverso il silenzio. Lasciare parlare un altro linguaggio. Interessante per noi era di non abbandonare lo spettatore allo sguardo, ma di arrivare ad una totalità di sensazioni. E questo è — a mio parere — più evidente nella parte di Katerina perchè utilizza tutto il suo corpo e agisce con le materie sul suo corpo. E il mio modo di filmarla è più ‘tattile’ (andavo molto lenta, perchè improvvisando dovevamo essere molto prudenti per seguire i gesti dell’altra). Due gesti si intrecciavano: una (si) donava alla cinepresa, l’altra (ri) prendeva con la cinepresa, c’era un rapporto molto corporale. Qui il fatto di utilizzare il S/8 diventa decisivo: la cinepresa molto piccola e leggera che tieni in mano e incollata all’occhio è quasi un prolungamento del braccio e fra corpo-filmato e corpo-filmante non c’è stacco; Questa è un cosa importante del S/8 nonostante i suoi limiti evidenti. Per quanto concerne la proiezione c’erano altri fattori che ci hanno fatto decidere di metterci nella sala, anche se quello che dico sembra banale, in quanto cineaste lavoriamo a due livelli, quello del ‘senso’ e quello della forma. Soprattutto in quanto donne-creatrici che cercano di produrre un linguaggio diverso, ‘altro’… Questo mi ricorda quanto avete affermato durante una discussione molto accesa: “Oggi per una donna fare cinema è un atto politico”…

M. Sì, credo che oggi, nelle condizioni attuali, una donna che fa cinema non possa permettersi di buttare sullo schermo qualsiasi cosa. Questa è la nostra posizione e rivendichiamo anche una doppia identità in quanto donne e in quanto donne che creano. All’ultimo dibattito c’era una donna che ci ha attaccate dicendo: ‘siete più cineaste che donne’. Io rivendico il mio essere cineasta, non so se sono meno donna, quello che è certo è che sono ‘una’ donna. L’interessante è che accanto alla donna c’è la cineasta, costantemente in faccia al linguaggio che sta utilizzando e in grado di riflettere su questo attraverso questo… M. … anche per l’importanza del cinema come ‘media’. Bisogna conoscerlo, saperlo usare, per capovolgerlo. Io non dico di conoscerlo, ancora, ma piuttosto che lo faccio oggetto di una riflessione che mi permette di approfondirlo un po’ di più. La decisione, dunque, di fare questo tipo di proiezioni nasce dalla considerazione che, normalmente, il film è un prodotto che si mette in scatola, che resterà indipendente dal suo autore e in qualche modo facilmente recuperabile dal linguaggio dominante. Stare nella sala a manipolare gli strumenti, a ricevere le reazioni e, sentire le sedie che si chiudono, è un tentativo di personalizzarlo. K. Una cosa importante è che sin dall’inizio con ‘Doublé Labyrinthe’ (che non richiede, se vuoi, la nostra presenza fisica) abbiamo insistito per essere presenti al dibattito (su 50 proiezioni ne abbiamo mancate due o tre). Abbiamo cercato di colmare questa frattura, questo ‘taglio’ tra il prodotto e il suo produttore. Taglio che, in qualche modo, corrisponde alla legge di mercato… K. …e che è la legge di tutti i media, basata su questa specie di non risposta. Si proietta un’immagine e il pubblico non ha alcuna possibilità di intervenire. Il principio della comunicazione nei due sensi era, al contrario quello che più ci interessava sin dall’inizio.
M. La personalizzazione della proiezione stessa e cioè il fatto di manipolare noi gli strumenti nella sala, è anche la riproduzione del lavoro che è stato il film: abbiamo avuto il film in noi, l’abbiamo proiettato verso l’esterno e nella sala lo riconduciamo ancora una volta a noi. È lo stesso movimento che si ricrea e in più siamo presenti nel nero dello schermo… K. Si danno così due atti di proiezione: uno metaforico (proietto la mia propria immagine nel senso d’esteriorizzare un’immagine mentale) e l’altro letterale (proietto un’immagine sullo schermo). La proiezione nella sala riprende come in uno specchio la proiezione-esteriorizzazione donandogli una dimensione presente, fisica. Per esempio durante la proiezione di ‘Soma’ a tratti non guardavo le immagini (le immagini diapo o film) ma la tua mano che nel buio intravedevo ruotare il prisma davanti l’obbiettivo. Un passaggio continuo che operavo tra il film e la tua mano, tra voi in carne ed ossa e voi-immagine. In questo c’è anche una sorta di rivendicazione di intervento artigianale in un media altamente tecnologico come il cinema? M. Esattamente e questo coté artigianale (già evidente nella scelta del S/8 e negli strumenti non completamente automatici) è quello che più ci interessa in quanto ricerca femminile. Per esempio quello che tu chiami ‘prisma’ è una vecchia spilla di mia madre. E ho voluto proprio questa quando avrei potuto andare in un negozio di articoli cinematografici e acquistare senza sforzo un prisma. A questo proposito c’è un’altra donna qui a Parigi, Raymonde Arcier, che lavora sull’eredità ‘materna’: riprendendo ad esempio tutti i maglioni lavorati a maglia da sua madre durante una vita costruisce degli oggetti enormi, delle enormi maglie ‘impossibili’. Oppure lavora a maglia il fil di ferro riproducendo e dilatando tutti gli oggetti comuni della casa, del lavoro di casa. Prende degli oggetti caricati di un significato repressivo e li stravolge, togliendogli funzionalità, ingigantendoli. K. Esattamente quello che facevamo in Doublé Labyrìnthe con materie come il riso, la farina, tradizionalmente legate alla cucina, al lavoro domestico, per donargli un’altra dimensione, per investirvi una dimensione immaginaria e togliergli la funzione utilitaria che è legata alla repressione della donna… M. e in più creare un linguaggio poetico, perchè se queste materie cominci a trasporle (non amo la parola fantasmare), a…
a ‘pervertirle’
M. … o ‘sovvertirle’, puoi appropriartene e farne uscire un altro linguaggio. Un’altra cosa che indicava Raymonde era l’impossibilità di lavorare in serie. L’implicazione troppo forte, sino al dolore, del suo corpo con ogni oggetto. C’è dunque anche questo rapporto necessario della donna che crea con il proprio corpo. Penso a C. Akerman e M. Duras, certo lontane dal vostro cinema, ma che arrivano tutt’e due alla ‘mise en scene’ del proprio corpo in “Je, tu, il, elle” e “Le Camion”. M. Credo sia un punto d’arrivo necessario, anche se penso che per loro fosse un processo più inconscio che per noi. Bisogna dire che lavorare sulla identità femminile significa, prima o poi, passare attraverso il proprio corpo. Molte donne lavorano in questo senso nelle arti plastiche. Ma ci sono anche molti uomini che si confrontano a questo e fanno un lavoro in questo senso. Sono gli uomini che trasgrediscono al loro “sesso” o come omosessuali o come etero che cercano di “vedere” il loro rapporto al femminile. L’interessante nel vostro lavoro è questo tentativo di ricondurre il cinema (che in fondo ne è proprio la negazione) alla corporalità, di ristabilire una “vicinanza”, un rapporto fisico spettatore/immagine. Questo corrisponde a una qualche esigenza dello stesso pubblico, stanco di una produzione sempre più livellata, rifinita, fortemente condizionata dalla macchina commerciale e a cui si accede attraverso una sorta di rituale sempre eguale: la sala di cinema, il posto fisso, la distanza dallo schermo, il buio…
M. L’anno prossimo faremo, credo, qualcosa di ancora più frantumato… lo stesso spettatore lo chiede, e se le nostre proiezioni sono frequentale non è solo perchè il film dice altre cose, ma anche perchè l’atto di proiezione stesso dice altre cose. A livello di spazio di proiezione ci sono da fare cose straordinarie. Ne L’enfant qui a pissé des paillettes lo schermo rimane ancora, nonostante tutto, il punto fisso di riferimento. Vogliamo circondare di più lo spettatore, metterlo in gioco di più… ma abbiamo enormi problemi economici perchè neghiamo la sala di proiezione tradizionale e allo stesso tempo teniamo alla nostra indipendenza, non vogliamo diventare artiste di galleria. Voi riportate nel vostro “Manifesto per un femminile radicale” una frase della Kristeva: “…Credo sempre di più che bisognerebbe guardarsi dal sessualizzare le produzioni culturali: questo sarebbe il maschile, questo il femminile. Il problema mi sembra un altro: dare alle donne le condizioni economiche e libidinali per analizzare e dialettizzare l’oppressione sociale e il non-detto sessuale, in modo che ciascuna possa realizzare le sue particolarità, le sue differenze, in quello che hanno di singolare…”. In un altro testo la stessa autrice afferma la pericolosità dei termini ‘femminile’ e ‘maschile’ per la loro tendenza a fissare una identità e propone piuttosto il termine ‘processo’. Cosa ne pensate? M. e K. Siamo d’accordo. Bisogna dire che in questo momento la contestazione delle identità sessuali predeterminate, iniziata dalle donne comincia a provocare degli interrogativi analoghi negli uomini. Gli uomini cominciano lentamente a prendere coscienza dell’impatto repressivo dell’ideologia investita nel sesso maschile. Per esempio quelli che vengono a vedere i nostri film sono in maggioranza uomini che cercano di capire qualcosa del loro rapporto con le donne, più che mai difficile, ma anche del loro rapporto con se stessi. Durante un dibattito su Soma (dove dicevamo che il nostro tentativo era di degerarchizzare il corpo femminile e mostrarne la sessualità diffusa) un uomo diceva di sentire d’avere la stessa sessualità non limitata al pene. È stato un intervento molto interessante e le cose che scriviamo a proposito del femminile radicale per noi possono addattarsi alla visione di una mascolinità radicale.
La sensazione di corpo ‘indefinito’, di corpo ‘plurimo’ è richiamata, secondo me in modo molto forte dall’uso che fate sia in “Soma” che ne “L’enfant…” della diapositiva e del film. L’uso contemporaneo intendo. Con in più l’intervento moltiplicatore del prisma. Tutto questo (come i veli, le piume, il liquido, la trasparenza nel “L’enfant”) costituisce una sorta di rumore e movimento sotterraneo, arcaico… quasi il movimento del ventre, della creazione femminile.
M. È una interpretazione possibile, poiché tutti i nostri film funzionano come stimolo. Il film è una proposta, non diamo una storia in cui identificarsi. Bisogna ricostruire l’immagine. Se vogliamo fare un parallelo con la letteratura i nostri film funzionano come dei poemi o dei saggi… In più tu avverti questo ‘arcaico’ molto più dei francesi, perchè sei italiana e come noi greche hai alle spalle una storia differente… K. Neil’Enfant… c’è già un ritorno alla mitologia, per esempio, con l’uso dei nomi Artemis e Cybele. I nomi di due deesse matriarcali…
Comunque, dopo i vostri film, si assiste sovente ad un tentativo di ‘normalizzazione’. In generale le donne tendono a partire da una idea del femminile e della sua sessualità come non-violenti, non-aggressivi, mentre dai vostri film esce una carica molto forte di violenza. La maniera di abbigliarsi, ad esempio, di Katerina… in un cinema che mi parla in quanto donna, c’è anche questa apparizione di un fantasma piuttosto maschile…
K. Credo effettivamente che vi sia una violenza nelle immagini, perchè il nostro percorso è molto estremista e non solo a livello di contenuto. Per esempio la prima parte de L’enfant è molto, molto violenta. Ed è violenta attraverso modi completamente diversi da quelli che definiscono la violenza maschile sugli schermi. La violenza passa, nei nostri film, attravero l’immobilità piuttosto che attravero il movimento. È piuttosto la violenza delle cose immobilizzate e rese assolute. Per quanto riguarda il mio modo di vestirmi, non vedo il rapporto con un fantasma maschile. E poi cos’è un fantasma maschile? Come si definisce, come si differenzia da un fantasma femminile?
“Non sottomissione. Indipendenza. Rottura. Autonomia. Infrangere la dipendenza economica del cinema delle grandi sale, dei grandi budget, di grande consumazione, di grandi mezzi, di grande dipendenza. Infrangere le immagini ‘eccessive’ inutili sterili sempre uguali. Frantumare le barriere della specializzazione. Frantumare le gerarchie e i ruoli. Frantumare lo specchio della donna costruita, l’attrice passiva, colei che obbedisce, che si lascia fare, colei che si fa mediazione per l’orgasmo di un estraneo. Infrangere le favole alienanti.
Rompere vetri e specchi. Ne esco.”.
(dal Manifesto per un ‘femminile’ radicale)
K. La bellezza da rifiutare è quella completamente positivizzata. La bellezza dei giornali dove tutto va bene, si sorride. La bellezza nella felicità e nella salute… La bellezza ‘borghese’, tranquilla… quello che mi colpisce nei vostri film è che si ‘sente’ lo sguardo dell’altra che filma e questo produce una bellezza inquietante, ambigua…
K. Quello che differenzia questa bellezza è la presenza della morte… la violenza deriva dalla presenza della morte da qualche parte, perchè il desiderio è negativo e positivo assieme. È questo che sovverte la bellezza. Nei dibattiti qualche donna ci accusa di aver messo sullo schermo la morte e definisce questo inaccettabile, affermando che la donna è la vita. È uno slogan pericoloso che prima o poi, raggiunge quelli delle affiches pubblicitarie. È una sorta di credenza ad una felicità naturale, alla ‘naturalità’ che non esiste, credo. Questa negatività del desiderio è la coscienza che anche quando si arriva al massimo di intimità, quando si tocca il corpo di un altro, anche nell’amore, è molto spesso la cultura frapposta, il simbolico, che si tocca.
K. Soprattutto la prima volta che fai l’amore con qualcuno… il punto dell’amore più pericoloso e cruciale è la prima volta, perchè è là che sei condizionato. Io ho orrore della prima volta; lo confesso, non è desiderio, tenerezza, ma orrore, qualcosa di molto nero. Questo effetto di ‘cultura’, di condizionamento in “Soma” è restituito quando fate apparire i nomi (scritti): orecchio, bocca, seno etc. sull’immagine del corpo. E la scrittura, il simbolico (la morte) che arriva ed impedisce di abbandonarsi totalmente alla fascinazione. K. La nostra tecnica, all’inizio incosciente, si è sempre basata su questo: dialettizzare, distanziare e allo stesso tempo far scattare un meccanismo fusionale. Il vostro “Manifesto” suscita spesso delle perplessità, viene inteso come qualcosa di generalizzante, di ideologico… M. Può darsi. Abbiamo giocato sull’ambiguità del termine Manifesto, abbiamo voluto riprendere la formula dei surrealisti (siamo lontane dalle loro posizioni, ma ci interessa, ad esempio, l’utilizzazione che hanno fatto del linguaggio psicanalitico, riappropriandosene). In effetti può sembrare la posizione di un gruppo, soprattutto nella parte generale, ma parliamo espressamente di ‘culture femminili’ e di ‘singolarità’. E nel finale introduciamo la prima persona (“Vi guardo, Vi interrogo. Dò alla luce un film ‘altro’») proprio per non creare confusioni e per sottolineare la posizione individuale. In questo momento c’è una dissoluzione del movimento, mentre molte donne continuano a lavorare, a produrre, a creare, ma in piccoli gruppi che si reggono su dei rapporti personali molto forti, al di fuori del ‘grande collettivo’. Ancora una volta è il momento ideologico che è stato fatto saltare, come momento frenante. K. Credo sia interessante come posizione tentare di ritornare il più possibile nel personale, perchè più si va lontano nella ricerca del personale e del soggettivo, più si va lontano nell’universale. I due termini si toccano, ad un certo punto, e bisogna semplicemente avere la forza di guardarsi dall’interno e dall’esterno allo stesso tempo. Perchè quando si fa questa specie di viaggio, di evoluzione (come noi facciamo nel cinema ed altre nella scrittura etc.) importante è il fatto che allo stesso tempo ci si pone all’esterno di se stessa e ci si vede come una donna.