femminismo

politica dell’emancipazione o emancipazione politica?

che differenza c’è fra l’emancipazione delle nostre nonne e la nostra?

ottobre 1979

per molte di noi la presa di coscienza politica è stato il primo gradino verso la società, il primo passo verso l’esterno, la forma unica di legittimazione degli interessi extrafamiliari ed extradomestici.

Va con sé che la crisi della politica che caratterizza da almeno tre anni il nostro Paese non poteva non riflettersi anche sul movimento femminista. E così è stato infatti. Crisi della politica = crisi del movimento nelle sue forme organizzative. I collettivi si sciolgono, le sedi si vuotano. Il movimento in molte occasioni “tace”. Questo ci viene rimproverato dai Partiti, dai giornali, dalle femministe più giovani, quelle del ’11, dai “compagni”: da tutti insomma.

Si fa per un po’ l’equazione, comoda quanto assurda, crisi del movimento femminista = crisi del femminismo! Come se crisi del PCI significasse automaticamente crisi del comunismo, tanto per fare un esempio che sta sotto gli occhi di tutti. Tutte le forme di aggregazione con finalità non immediatamente e tradizionalmente politiche vengono così misconosciute ed emarginate.

E’ come dire che il femminismo trasforma la vita delle donne solo se si misura immediatamente con il bisogno di trasformazione della intera società politica e civile. Solo cioè se propone un progetto buono per tutti, totalizzante, come ha fatto la politica sin ora. Altrimenti la parzialità dovrebbe essere la sua tomba, il suo ritorno indietro, la sua sconfitta insomma.

Perché invece la politica sia diventata di nuovo cosa da specialisti, impraticabile, nella sua astrattezza, per molti uomini oltre che per molte donne nessuno lo spiega.

Resta il fatto che la lotta per l’emancipazione, nella sua concretezza, sembra “poco politica”, meno anticapitalistica, meno radicale delle lotte femminili di questi anni. La politicità del nostro movimento resta nella testa di molti e di molte ancorata più alla distruzione dell’esistente che alla esplorazione e costruzione di nuove soluzioni collettive di vita. Anzi si direbbe quasi che lo sforzo collettivo sia possibile solo laddove non c’è nulla da proporre ma molto da criticare. E’ come dire che le donne messe insieme possono lamentarsi, incazzarsi, opporsi ma, per carità, non proporsi, come se la gestione politica dell’emancipazione non fosse un modo di porsi all’interno della società ancora come soggetti politici e non solo, come si vorrebbe, come cittadine. Sull’emancipazione delle nostre madri e delle nostre nonne (quando c’è stata) ne abbiamo dette di tutti i colori in questi anni e in tutti i sensi. Alcune di noi l’hanno guardata, questa emancipazione “tradizionale”, con simpatia e con una certa segreta invidia (chissà se noi raggiungeremo almeno quella, ho pensato tante volte!). Altre l’hanno criticata come la più perfida delle illusioni del mondo dell’uomo: “sarai accettata e riconosciuta solo a patto che tu sia ‘brava’ come me e soprattutto diversa dalle altre che, si sa!, sono un po’ cretine”. Questo messaggio maschile che tanti dei nostri uomini, chi ha per compagno un intellettuale lo sa bene, hanno lanciato in passato e lanciano nel presente in maniera solo più cauta allude ad una precisa realtà dell’emancipazione “vecchio tipo”: per emanciparsi bisogna essere delle donne “eccezionali” che è come dire, in fondo in fondo, meno femminili.

Cioè meno arbitrarie, imprevedibili, emotive e indisciplinate, “Possibile che non finisci mai quello che cominci? Sei una donna capricciosa” = sei una donna! E il bello di tutto questo è che in parte gli uomini hanno ragione. Perlomeno descrivono spesso puntualmente quanto tendenziosamente la realtà emancipatoria femminile. La maggior parte di noi infatti sembra incapace di autodeterminarsi fuori dalle situazioni in cui la disciplina e gli obiettivi vengono imposti con la forza, La marginalità istituzionale delle donne non sembra aver dato loro molta libertà né psicologica né operativa mentre sembra aver accentuato la sensazione di contare poco nel mondo del lavoro e di essere facilmente sostituibili. Accanto a questa situazione vi è poi l’altra, di scoperta più recente, che riguarda quelle che hanno una posizione stabile nelle istituzioni pubbliche. In questo caso alla sensazione di essere marginali si sostituisce spesso quella del sentirsi estranee e di conseguenza anche la disciplina e il cosiddetto rendimento vengono vissute ormai da molte più come una coazione che come una verifica delle proprie capacità. Si potrebbe dire, e gli uomini lo dicono da sempre, che non ci accontentiamo mai di niente. Ed è vero, ma perché* dovremmo? In nome di quale principio di realtà (la nostra realtà è un’altra!) dovremmo scegliere tra la marginalità e la negazione del nostro modo di essere?

Prendiamo infatti il tipo di lavoro che sembra agli occhi di tutti il più privilegiato: il lavoro dell’intellettuale. Il modo ancora vincente di concepirlo è quello per cui in tanto un prodotto dell’intelletto è difendibile in quanto ha seguito durante la sua fabbricazione un iter “rigoroso” (leggi rigido) fatto di continue, piccole, inesorabili negazioni: 1) se voglio sostenere un’opinione non posso prendere in considerazione quella opposta se non per distruggerla. 2) (l’unilateralità) Se voglio scrivere per esempio un articolo su un dato argomento devo mettere da parte qualsiasi sollecitazione che mi ; distrae anche se potrebbe servirmi. Nel dubbio meglio evitare. 3) (l’ansia del tempo) Se credo “veramente” in ciò che faccio non devo lasciarmi portar fuori strada dalle critiche degli altri. Meglio parlare con chi non “mette i bastoni tra le ruote. 4) (l’intolleranza) Si potrebbe fare una lunga lista dei vizi capitali dell’intellettuale e ad ognuno ; si potrebbe opporre una giustificazione più che valida. Quello che mi interessa però non è la critica, ormai peraltro tanto vecchia, del narcisismo degli intellettuali quanto piuttosto vorrei porre all’attenzione su quanto questo modo di procedere pesi alle donne. Non perché siamo tanto sensibili e generose naturalmente ma per il buon motivo che l’unilateralità per esèmpio presuppone l’appartenenza ad Un’area precisa di potere e non vedo quale sarebbe la nostra, e cosa avremmo da guadagnare a scegliere una di quelle esistenti. Si restringerebbe solo il campo d’azione, di esplorazione. ‘< Per quanto riguarda l’intolleranza pòi essa diviene facilmente sospetta verso legatore con il risultato che nella inimicizia che scoppia tra Me donne chi ne è avvantaggiato è proprio il modo di concepire la produttività che per molti altri versi ci taglia fuori. La corsa con il tempo infatti, chiave del modo di produrre del mondo moderno, è la grande nemica delle donne, del loro corpo, della loro ciclicità, della loro sessualità, che sembrano ‘ancora così e-stranei a quella “sublimazione” senza la quale si dice che la civiltà attuale non ci sarebbe.

Molti detti popolari affermano che una donna è capace di sacrificarsi solo per amore. Credo che nel vecchio buon senso sia nascosta una verità che non è necessariamente tutta contro di noi. Se infatti alla parola amore smettiamo di dare il significato persecutorio ed umiliante che la lega indissolubilmente a quella di dolore (chi non soffre, si sa, non sa neanche amare!) e la associamo invece alla consorella che per ora compare solo nei momenti di grazia, la parola piacere, ricaviamo, credo, un’utile indicazione sul modo come le donne stanno impostando il problema dell’emancipazione. Estendendo infatti il significato della parola amore al sentimento che si prova nell’atto di esprimere il proprio pensiero oltre che al rapporto che ci lega ad alcuni individui possiamo scoprire il nostro modo, di donne, di concepire il lavoro e la produzione sia essa manuale o intellettuale. Amore in questo senso più “largo” infatti vuol dire non solo concentrazione sull’obiettivo ma anche valore dato al tempo dell’esperienza che conduce all’obiettivo. Personalmente conosco molte donne che si alzano tutte le mattine per andare in qualche luogo di lavoro e non tutte disprezzano ciò che fanno. Non ne conosco però neanche una che non si lamenti di come il proprio tempo, la propria vita cioè, venga rosicchiato malamente dal modo in cui sono costrette a lavorare. E parlo anche di intellettuali con lavori apparentemente e realmente gratificanti. Cosa manca dunque a queste attività e quali sono le condizioni perché il tempo dato all’emancipazione non sembri “rubato” alla vita?

Se saremo in grado di rispondere a queste domande capiremo forse meglio cosa ci divide dall’emancipazione che fu delle nostre madri. Allo stesso tempo saremo in grado non solo di proporre teoricamente ma anche di costruire praticamente le strutture che ci permettano di costruire modi nuovi, meno amputanti, di esistere socialmente. In fondo il salto che stiamo tentando non è altro che questo: mettere un piede (meglio sarebbe tutti e due) sul terreno dell’agire sociale, al di là del rapporto interpersonale, senza rimettere la vita a favore di una triste sopravvivenza.

Certo ci servono alcune “virtù” che abbiamo dimostrato di avere scarsamente in questi anni. La prima di esse è la tolleranza verso gli esperimenti che le donne vanno facendo assieme, Molti di questi esperimenti sembrano a volte in contraddizione con quanto abbiamo detto e proclamato negli anni passati. Sembrano poco “rigorosi” appunto mentre semplicemente hanno il pregio di essere scaturiti da una concezione poco rigida dei mezzi adeguati per arrivare ai fini. La seconda virtù è l’intransigenza verso tutti i tentativi che farà il mondo dell’uomo (che non è affatto una tigre di carta ma di ciccia dura) per ricondurre ai propri schemi valutativi ciò che produrremo secondo i nostri tempi e modi. Tanto più se i nostri prodotti avranno l’aspetto di merci che il mercato potrebbe sfruttare ai propri fini. La nostra insicurezza e la loro protervia ci aspettano al varco. La tentazione di misurare il valore della nostra produzione secondo i parametri con cui gli uomini misurano tra di loro la propria produzione può essere forte se non altro perché il loro modo di procedere, scartando, giudicando, e negando è sicuramente più efficace del nostro modo che tende ad includere, dubitare e accettare. Per sfuggire al pericolo dell’arbitrarietà e dell’approssimazione non ci resta che fondare, mentre “facciamo”, dei nostri criteri di credibilità, oggettività e difendibilità. Ma questo vuol dire diventare autorevoli ai nostri propri occhi cosa questa non semplice e per la quale ci vuole perlomeno molto “amore” per ciò che. si fa, insieme alla {possibilità materiale ed ideale per fare.

Certo più isolate saremo e meno avremo la forza di opporci alle “idee dominanti”. Vista anche la scarsità di “beni materiali” di cui disponiamo, poiché come si sa le idee dominanti sono quelle di chi possiede la potenza materiale. “Chi dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale” (Marx; “L’ideologia tedesca”). Ma per possedere quella “potenza materiale” che affranca da chi detiene il potere bisogna lavorare sull’obiettivo scivoloso e ambiguo della acquisizione di maggior potere. La vecchia emancipazione garantiva sicuramente una fettina di potere anche alle donne ma ad un patto: che rinunciassero per sempre al desiderio di far parte della comunità femminile, e con esso alla possibilità che oppone al potere dell’uomo un potere a misura di donna. Noi, più ambiziose e speriamo più fortunate, cerchiamo di raggiungere esattamente l’obiettivo contrario: acquisire più potere sociale, nel senso di maggior possibilità di guidare la nostra vita, proprio perché insieme alle altre. Speriamo bene!