terapia e/o conoscenza del corpo
«non è tanto vero che I padroni e la loro scienza hanno negato il corpo… se ne sono serviti alla massima potenza»
porre il problema del corpo non può mai essere un procedimento astratto proprio per il fatto stesso, banale ma reale, che il corpo è carne, risposta senza mediazioni, origine spesso di sensazioni o situazioni non controllabili.
Per questo risulta falso e in fondo ancora una volta parolaio ed eventualmente produttivo solo come piacere mentale, semplicemente ribaltare discorsi fatti fino a ieri cambiando alcune parole chiave: a mente, corpo, a coscienza, complesso di sensazione e così via. Il processo è forse un altro, quello di cominciare a constatare che non è tanto vero che i padroni e la loro scienza hanno negato il corpo, quanto invece che se ne sono serviti alla massima potenza, cogliendone proprio i nodi fondamentali, e su aspetti parziali di essi hanno costruito grandi verità, dogmi e comunque comportamenti che non risultano mai completamente neganti, ma sempre sostanzialmente stravolgenti la totalità e complessità del fenomeno, a favore di un aspetto minimale esaltato all’accesso. Può essere una spiegazione per la difficoltà, a volte veramente grande, che incontriamo a liberarci da certi modi di essere e di considerare, che non si può ridurre solo all’abitudine, all’apprendimento e cose simili, pur essendo chiaramente questi elementi determinanti. Le infinite negazioni che costituiscono il dover essere femminile tradizionale, s’innestano tutte, di fatto, su altrettanti specifici luoghi femminili:
UTERINE, — è un’accusa che ci hanno sempre fatto stigmatizzando così un certo modo di reagire alle cose che nasce da emozioni, sensazioni e solo dopo e non sempre si veste di razionalità e «pensiero». Uterine ci siamo sentite cento volte nella nostra vita, quando era la nostra pancia a capire per prima e per prima a reagire, quando agivamo «non so perché, ma sento che è così». L’insofferenza per le parole a favore dei sorrisi tranne poi parlare per ore spiegando, guarda caso, sensazioni. E spesso a queste sensazioni abbiamo associato un senso di disagio, di riprovazione, di cosa da cui liberarsi.
Riannodare, ripercorrere, ritrovare pensieri, sensazioni, emozioni dentro il tuo corpo/donna. Dare spazio, e uterino, è un modo di (auto) conoscenza senza mediazioni, aderente. (Rosaria)
COMPRENSIVE — è l’attributo che il potere e la storia maschile ci hanno sempre dato per coprire e nascondere le loro sopraffazioni su di noi. Su questa «nostra tipica» adesione alla vita è stato costruito il nostro essere donna. Essere per capire, tutto, le persone, le situazioni, i figli, i mariti, gli amanti. Comprendere lo svolgimento e il perché delle cose per accettare le cose e le situazioni. Forse sentirsi addosso un corpo di donna armonioso nella sua rotondità, ricco di cavità, sporgenze mai angolose è slegato da un’intima sensazione che probabilmente ognuna di noi possiede dell’essere comprensiva?
Un corpo, una pancia che contiene organi vitali e pulsanti, un bacino che spiegandosi, allargandosi, espandendosi è in grado di contenere l’espandersi della vita e la comprende, è slegato da una capacità nostra di entrare nelle cose, nelle situazioni per comprenderle e viverle fino in fondo?
Prendere coscienza di questo credo significhi rivendicare la nostra capacità di con/prendere, che è desiderio di conoscenza, è entrato nella vita, nel suo senso più pregnante, nelle emozioni che ti sconvolgono tutta, ti comprendono tutta, in ogni parte di te stessa. (Marisa)
CICLICHE — ha significato sbalzi di umore, di comportamento, di opinioni; vissuti male, accuse, colpe, situazioni non controllabili. Ma ogni giorno di ciascun mese tutto il nostro corpo muta, seguendo un ritmo interno che segna un ciclo simile a molti altri della natura che ci circonda. Mutare può essere armonia, capacità di comprendere e capire, è possibilità di dare la vita, decidere se darla o no, è sentire il proprio sangue portare cose nuove, gonfiare l’utero e i seni e poi di nuovo riacquetarsi per ricominciare. Ogni giorno è diverso, perché negarlo, soffocare e non capire, dare corpo, vivere? (Rosaria)
DOLCI, SENSIBILI, ACCONDISCENDENTI — tre aggettivi che di solito ci vengono attribuiti assieme, le tre caratteristiche «femminili» per eccellenza, i tre cardini attorno ai quali ruota quella che grossolanamente viene definita la nostra diversità. Richieste per questo, volute e desiderate per rendere «bella» la vita, quindi molto più guardata che ascoltata, non più amate se il nostro «stare vicino» significa mettere in discussione un qualcosa o rivendicare un nostro bisogno. Il sorriso che diventa ironia, la sensibilità che si trasforma in una comprensione critica del reale, non più consenziente alla mediocrità, che determina, quindi, invece di essere determinata, può generare un rifiuto o la nostra dignità. (Manca)
Io, Rosaria, sono piccola, castana, sottile, meridionale.
Marisa – sono piccola, ho i capelli rossi e la pelle chiara, sono nata vicino al fiume Po.
Sono Marica, scura di occhi, capelli e pelle, sono alta, nata nella Vicenza bianca.
Di specificità ce ne sono molte altre. Ciascuna di noi ha scelto quella che evidentemente si inscrive, in modo particolare; nel suo corpo, storia, mente, modo di sentire, rapporti con gli altri, riso, pianto, sorriso. La sua unità e unicità. Per noi, ritrovarla, è stato un processo collettivo, passato attraverso il corpo, muovendolo, toccandolo, toccando e massaggiando quello di un’altra, ascoltandolo mentre si rilassa, si scioglie muscolo dopo muscolo, sentendo il cuore battere, il sangue circolare irrorando, i rumori della pancia, i muscoli ricoprire le ossa e a loro volta essere ricoperti dalla pelle, dare spazio al silenzio e sentirlo riempire. Ecco, vedi, sembrano parole melodrammatiche, un po’ stonate, che si possono anche non dire, carne, sangue, pancia, cuore, c’è un grosso imbarazzo a leggerle e a scriverle che si manifesta spesso nel non usarle, nell’usare al loro posto giri di parole o concetti astratti. Lo stesso imbarazzo che si prova vivendole. A volte oltre che imbarazzo dà paura, angoscia, irrequietezza, desiderio di scappare o di fare comunque altre cose. Di smettere quando si incomincia a sentire «cose strane». Un po’ la stessa cosa succede per la sessualità. Se ne sono riempile pagine e pagine di libri, giornali, convegni, ore di vita, ma si continua a ritenere spiacevole, imbarazzante, da libro erotico, da provocazione, da momento privato, riconoscere che la sessualità è una cosa che ti percorre il corpo, ti dà calore, ti fa produrre liquidi, ansimare, sudare, odorare intensamente, e centomila altre cose.
Queste cose che non si dicono, che si ha imbarazzo, paura, fastidio a vivere o ad ascoltare, sono però le cose che ti accompagnano giorno per giorno perché sono te, parte di te, ti costituiscono. Lo stesso capita anche agli altri. La rimozione, che può avvenire anche con un estremo interessamento verbale intellettuale di tutto questo o l’impossibilità di tirarlo fuori, di viverlo, di accettarlo come propria realtà effettiva sempre presente, non può non portare a dei livelli di alienazione incredibili e che tutti noi esprimiamo continuamente proprio con l’enorme bisogno di analizzare, sviscerare, ipotizzare qualcosa, noi stesse, con cui viviamo ogni giorno, che è la nostra assenza, io (io sono io, come è possibile che non sappia chi sono io, cosa provo, cosa mi vivo?). Vuol dire che hai coscienza di te stessa solo come processo di ragionamento.
Il resto e altro da te, lo sconosciuto, il pauroso che può diventare il malessere, il disagio.
È su questa ipotesi che abbiamo incentrato il nostro lavoro, dopo esserci laureate, rivolto particolarmente alle donne, perché noi siamo donne e abbiamo pensato ad un corpo femminile. E se è vero che ogni corpo ha un suo linguaggio e una sua specificità, non può non riflettere la specificità sessuale. Partendo da queste ipotesi, è un anno che lavoriamo con dei gruppi di donne, a vari livelli di approfondimento, tenendo sempre come base o strumento questa ricerca di conoscenza della realtà corporea propria e collettiva, utilizzando tutta una serie di situazioni che permettano a ciascuna di ritrovare e conoscere la propria dimensione.
Cioè abbiamo portato nel nostro lavoro Quotidiano quello che è il nostro essere quotidiano, o meglio la ricerca, un tentativo. È un’esperienza che sta andando abbastanza bene perché ha soddisfatto noi; non dividere il privato dal lavoro e avere la possibilità di lavorare secondo quello che pensavamo e su cui continuiamo a lottare con altre donne, e perché ci sembra che tutta una serie di cose si siano rivelate utili alle donne con cui le abbiamo fatte.
Queste donne avevano una provenienza sociale, culturale e politica molto diversa, anche perché abbiamo lavorato in luoghi molto diversi fra loro: casa nostra, case del popolo, consultori autogestiti, uno spazio di una cooperativa di donne del movimento femminista. Vorremmo dire alcune osservazioni che abbiamo fatto perché ci sembra importante confrontarle con esperienze simili di altre donne.
Questa proposta di conoscenza corporea ha richiamato moltissime donne appunto di età e provenienza estremamente eterogenee e questo ci sembra metta in rilievo il bisogno esistente, e non solo dentro il movimento che questo discorso lo fa da anni. Anzi ci è sembrato di notare che proprio per le femministe, e questo a partire da noi, sia particolarmente difficile entrare in reale contatto col proprio corpo carnale, quasi che a questo si sia sostituita un’immagine/corpo. Queste situazioni di fuga si verificavano nei momenti in cui si prendevano in considerazione parti del corpo e situazioni significative per la nostra storia di donne. Parti del corpo che abbiamo notato essere nella maggioranza delle donne, quasi atrofizzate a livello di sensibilità, non vitali, negate, cancellate. Su cui del resto si innestano le classiche somatizzazioni femminili. Nella nostra esperienza, soprattutto la pancia, lo stomaco, il seno, la faccia, i piedi, il mostrare parti nude, il contatto con queste parti. Il dare spazio a determinate sensazioni corporee mette in atto meccanismi di richiesta di protezione materna, per lo meno in una certa fase del rapporto, unita ad un’estrema sensibilità per lo stato d’animo dell’altra. Il che ripropone chiaramente tutto il problema del ruolo e la relativa gestione. Ci sembra evidente, inoltre, lo sconvolgimento che provoca il non poter trasformare in parole quelle che sono e rimangono sensazioni. L’impossibilità di dare una veste razionale ed esplicativa. Un’altra cosa che ci è sembrata rilevante è l’affiorare, mentre si rilassano determinate parti del corpo, di immagini che risultano costanti in molte donne. Il riportare e il discutere di queste immagini richiede però uno spazio tutto suo e uno studio accurato, perché pone il problema di riesaminare i contenuti simbolici e la validità del simbolo.
Emerge poi, spesso, una paura specifica del corpo femminile, come entità a sé stante, quasi non legata al proprio essere, che rimanda di nuovo al rapporto col corpo materno, ma anche al fantasma dell’omosessualità.
Il fatto di elencare queste osservazioni, che del resto poniamo tutte in discussione, non nasce da un’ennesima esigenza di teorizzare, ma dalla necessità che secondo noi esiste, di incominciare a sedimentare e riunire una serie di dati su ciò che dentro al movimento femminista si è tirato fuori in questi anni e che è moltissimo a nostro parere. Lasciare queste cose scritte nei nostri giornali o nella nostra personale esperienza, senza curarci di rifletterci sopra e tirare un minimo le fila, può significare delegare ancora una volta al maschile e alla sua scienza la gestione di situazioni di cui noi donne siamo notoriamente le maggiori usufruitrici. Il mercato della psicologia è ormai invaso da terapie essenzialmente comporta-mentiste frammiste a tecniche di liberazione corporea, che però se vengono gestite secondo schemi maschili o non specifici, per noi non significano liberazione ma nuovo adattamento. Lo stesso si può dire per il «recupero» del femminile, di fatto in atto nel movimento e nella vita delle donne, se questo viene vissuto da noi come sconfitta o inevitabilità, e dalla scienza ufficiale, a cui finiamo spesso col ricorrere in caso di malessere, come momento di avallo di vecchie e note teorie. ; Del resto ci sembra importante fornirci di strumenti nostri, venuti dalla nostra conoscenza.
Soprattutto ora che molte di noi, di fatto, si ritrovano a lavorare in varie vesti all’interno di strutture pubbliche in cui è possibile per lo meno tentare di fare discorsi diversi di cui le donne possono usufruire gratuitamente.