processo moro

un’aula sorda per il principe

in una sala del foro italico, si svolge uno dei processi più clamorosi di questi ultimi anni.
una cronaca, un’analisi, ma anche un’ipotesi di lettura politica.

novembre 1982

In una bella mattina di sole il giornalista cammina sull’asfalto della strada alberata che lo conduce al Foro Italico. Svolta a destra e si trova, quasi puntato contro, il mitra di un giovanotto vestito da carabiniere che gli chiede i documenti.
Il giornalista glieli mostra con sorriso professionale.
Il carabiniere gli fa cenno di seguire i bianchi steccati che lo guidano sull’asfalto e tra gli alberi, dove stormi di uccellini si rincorrono tra le foglie. Seguendo le indicazioni il giornalista si dirige verso un blindato azzurro munito di cannone. Cammina velocemente sull’asfalto diviso dallo steccato bianco in quadrati che, tra l’uno e l’altro, permettono il passaggio di una sola persona.
Il giornalista guarda con un certo disagio due giovanotti che, sul tetto di un edificio, vestiti da cecchini, puntano nella sua direzione un mitra. L’edificio è la “Sala delle Armi”, del Foro Italico allestita per il processo Moro.
Il giornalista gira a sinistra lungo lo steccato bianco e incontra due giovanotti con la fiamma sul berretto che tengono una pistola in pugno e gli chiedono i documenti per la seconda volta.
Attraversa l’ultimo piazzale, mentre tre blindati azzurri muniti di cannone, si muovono lentamente tra gli alberi, alla sua destra. E leggermente infastidito dal rumore di un elicottero che sopra la sua testa, traccia cerchi concentrici. L’elicottero è bianco e porta la scritta nera: Carabinieri.
Il giornalista allunga il passo e raggiunge un gabbiotto di vetro e alluminio, con porta a vetri girevole e metal detector per lui e l’eventuale bagaglio. Dentro il gabbiotto ci sono tre giovanotti in divisa verde, uno dei quali, biondo, gli chiede per la terza volta i documenti e l’accredito del Tribunale di Roma per assistere al processo.
Sulla porta a vetri del gabbiotto c’è una targhetta che avverte i “portatori di pace-maker” che non possono passare di lì. Il giornalista tira un sospiro di sollievo.
Nella “Sala delle Armi”, marmi e splendori della vecchia architettura “fascista” sono coperti da nuovi splendori.
Il pavimento è rivestito da moquette verde marcio. Tende color crema scendono dalle grandi vetrate a prova di bomba.
Luci e riflettori ingombrano il balconcino a forma di Elle curva, dove un tempo si assisteva al gioco del fioretto.
La sala risale agli anni trenta, disegnata da un architetto di nome Moretti, che l’aveva fatta per la gioventù italica e non per il suo futuro scomodo omonimo.
In fondo alla sala un bancone plastificato di colore marroncino, con sedie e microfoni è “il luogo della corte”. Sul bancone, verso il pubblico in stampatello “la legge è uguale per tutti”.
A sinistra un ammasso di apparecchi televisivi disposti su un gradino di legno punta sulla corte e verso il lato opposto della sala.
A destra, in fila, le gabbie. Grandi gabbie bianche con sbarre davanti e reti sopra e di fianco e dietro un corridoio per il trasporto degli imputati e dove gli imputati si tolgono le catene.
In mezzo i banchi dove siedono avvocati e addetti vari, separati da uno steccato da quelli del pubblico.
Davanti alla serie di gabbie bianche uno steccato bianco evita che qualcuno si avvicini.
Il “luogo pubblico” è molto lontano da quello della corte, a “prova d’udito”.
La sala è deserta, in attesa dell’inizio del rito.
Hanno ammazzato il principe.
Hanno osato più che pensato.
Hanno voluto salire fino al cuore dello stato e lo stato li ha colpiti al cuore. Ora li mette in mostra con disprezzo e con una certa indifferenza. Qui non è successo niente.
I “non più cosiddetti” brigatisti, entrano senza rumore nelle loro gabbie. Li accompagnano carabinieri vestiti di nero, il cappello con la fiamma e i bottoni d’oro. Hanno spalline dorate, e si fermano dietro di loro. E anche davanti.
I brigatisti sono dei ragazzi. Nell’aula sembrano molto piccoli. Nella gabbia vicina al bancone della corte ci stanno di volta in volta i più pentiti di tutti. Nelle altre gabbie, per differenza e differenziazione, i pericolosi, gli irriducibili, i primi, gli ultimi. Lo stato li mostra così, divisi, per generi e specie zoologiche, classificati in ordini e sottospecie.
Lo stato li mostra al popolo italiano in gabbie come culle. I ragazzi si salutano e parlano, si toccano e a volte ridono con grande sgomento dei presenti. Le belve non ridono. O no? Qualcuno abbraccia la sua ragazza e le sta seduto molto vicino. I ragazzi sono vestiti con blue-jeans e maglioni, le ragazze hanno capelli lunghi, qualcuna con scialle e ricciolini, (piacciono i colori: nei giorni della reclusione, in altre gabbie ne vedono pochi).
In una gabbia, sola, c’è una ragazza con occhi molto grandi e neri.
La mattina, tra le dieci e le undici, i giornalisti si accomodano nella loro fila di apposite seggioline, con banco sollevabile per scrivere. Appoggiano fogli e penne sul banco sollevabile, sulla sedia mettono giornale, borsa, giacca, o impermeabile, a scelta, per occupare il posto. Poi si alzano e gironzolano. Si incontrano ogni mattina, come scolari. Dietro di loro, sullo scalino di legno, l’ammasso degli apparecchi televisivi si popola di addetti che iniziano a schiacciare luci, pulsanti e accomodano obiettivi.
La ragazza con occhi molto grandi e neri, sola, nella gabbia si chiama Natalia Ligas. L’hanno arrestata da poco. È molto fotografata.
La mattina tra le dieci e le undici arrivano gli avvocati con toga nera e alamari d’oro. Sono tutti uomini, si siedono in fila nei primi due banchi di fronte alla corte. Portano con loro carta e penna, qualche libro tra i quali il codice. La maggior parte di loro non parla, sono stati rifiutati dai loro assistiti. (Alla loro sinistra il giornalista ultimo arrivato litiga con quello che gli ha rubato il posto).
La mattina tra le dieci e le undici entra la corte guidata da un bell’uomo, in età, abbronzato. Ha i capelli quasi tutti bianchi, folti e accuratamente pettinati. Porta una bella toga nera. Dietro il presidente, il giudice “a latere”, poi un gruppo di signori di mezza età con fascia tricolore trasversale sul petto. Tra i giurati spicca una signora bionda, accuratamente pettinata, con rossetto che si intona con il rosso della fascia tricolore,
I giurati si siedono accanto al presidente e al giudice a latere, i quali posano molti fascicoli sul banco e si avvicinano il microfono alla bocca. I giurati si dispongono tre a destra e tre a sinistra dei giudici. Gli altri stanno seduti dietro. Dai loro volti non traspare alcuna emozione. La signora bionda si siede per ultima a destra del presidente. Appoggia il mento sulla mano e ogni tanto sul suo viso appare una smorfia (i giornalisti mormorano che tra i giurati è nata una storia d’amore tra qualcuno, non ben identificato, ma presto lo sarà, e la signora bionda).
Ogni mattina tra le dieci e le undici, ma non tutte le mattine, non appena il presidente inizia a dire qualche parola al microfono (parole che fanno agitare i giornalisti soprattutto se non conoscono la parlata romana) si alza nelle gabbie un ragazzo o una ragazza. Tenta di leggere qualcosa scritto su un foglietto.
Una leggera ondata nella sala sposta una decina di persone munite di macchina da presa, o fotografica, oppure taccuino e penna, verso la gabbia dalla quale si alza la voce.

Le penne scricchiolano, scattano numerosi clic. Il ragazzo o la ragazza vengono quasi subito interrotti. Il presidente acquisisce agli atti il foglietto scritto fitto, dicendo che le parole che in esso sono scritte non possono essere pronunciate in quell’aula.

Natalia Ligas, sola, con gli occhi molto grandi e neri, stringe con i pugni le sbarre e grida. Non può parlare. I carabinieri consegnano anche il suo foglietto scritto fitto al presidente che lo acquisisce agli atti.
Un ragazzo, senza catene, entra seguito da due carabinieri. Si siede su una sedia sotto il banco della corte, davanti al presidente e davanti alla scritta “la legge è uguale per tutti”. I carabinieri stanno fermi dietro di lui, in piedi.
Ogni mattina, tra le dieci e le undici, non appena l’interrogato si siede, i ragazzi della terza gabbia si alzano. Uno dice forte “Noi ce ne andiamo”. Le gabbie si vuotano quasi completamente.
Hanno ammazzato il Principe. Ma nessuno lo racconterà mai. Le gabbie sono vuote. Il processo non sarà celebrato. Qui non è successo niente. (Il presidente Santiapichi domanda domande che non conosce. Può conoscere solo i contorni. Strutture legali e semilegali. «Un summit tra organizzazioni. Barche che portavano armi. Contatti. Il Principe chiuso nel retro di un negozio. O forse nella casa della donna di quel Gallinari che hanno preso sparandogli alla testa. Incontri tra qualcuno e gli esponenti del Psi per trattare la vita e la morte. Ma nessuno voleva salvarlo. Il Principe. Tranne la sua famiglia. C’era una chiromante. Il ministro Prodi Romano crede negli spiriti. In una certa notte a Bologna gli spiriti hanno detto che Moro è là. Ma nessuno vuole andare a liberarlo. Non trovano la via.
Hanno strappato le pagine gialle. Gioco di verbali rifatti. La moglie accusa.
In una rivista di nome Metropoli comparve un fumetto. Chi era Blasco? Il direttore dell’Espresso potrebbe dirci qualcosa. E così pure quel redattore Scialoja che redigeva articoli ben in formati. Potremo mandargli una comunicazione per banda armata. Tutti i
partiti erano in contatto con le Br. Alle Br giungevano documenti direttamente dal Viminale. I ministri non depongono in aula. I ministri non si devono mescolare. Meno male che ci sono gli spiriti. E i fumetti. Qui non è successo niente. Nessuno voleva salvare il Principe. Tranne la sua famiglia).
Tra le undici e le dodici, dopo che la corte si è ritirata a discutere una questione procedurale, e dopo che la corte è rientrata dopo aver stabilito la questione procedurale, il ragazzo pentito viene riportato in aula. Due carabinieri sono fermi in piedi dietro di lui seduto davanti a “la legge è uguale per tutti”. Il pentito vuole rispondere. Il pentito è un ragazzo con gli occhiali e bocca piccola. Si chiama Sandalo. Il pentito ha un maglione rosso e spalle robuste. Si chiama Peci. Il pentito ha un caschetto di capelli e sembra un paggetto viscido. Si chiama Viscardi. Un pentito vuole rispondere: è un ragazzo molto volenteroso. Nomina incontri fatti racconti storie nomi e litigi. Nomina idee parole comunicati linee strategie e tutto quello che gli hanno raccontato. E speranze di vita nuova.
Il pentito incrocia le mani sulla sedia e si gira pronto per il flash dei fotografi. Il pentito si guarda le scarpe.
Il presidente Santiapichi si protende verso di lui, quasi esce dal bancone. Il pentito scivola quasi sulla sedia, sotto i giudici e giurati. Ma del sequestro e della morte di Moro non sa nulla.
Le gabbie sono vuote. Natalia Ligas, la ragazza sola, con occhi molto grandi e neri se ne è andata.