aborto: una testimonianza

ho capito che la combattività che era diventata un fattore esterno mi stava fregando.

dicembre 1976

mi ricordo spesso di una esperienza che ho fatto una mattina di un sabato d’estate sulla piazza del mercato di Testacelo. Insieme ad un gruppo di compagne femministe del Collettivo del quartiere raccoglievamo le firme per la domanda di un Consultorio. Cercavamo di capire e di indagare se quello che noi sentivamo come grandissima necessità per noi stesse, cioè l’avere nel quartiere un Consultorio dove andare per trovare un punto di riferimento, una risposta, una capacità di confronto sulle nostre difficoltà di salute, di salute della nostra vita sessuale, dove andare anche per incontrarci con altre donne e dove sentirci consolidate dal fatto che i problemi erano uguali per tutte e dunque come tutto questo poteva essere accolto all’interno di una battaglia per un consultorio. Accolto attivamente, cioè consapevolmente, e delegandolo a noi, gruppetto di donne, piene di voglie, idee, fantasie, ribellioni, rifiuti e, soprattutto, piene di programmi. Non delegandolo a noi dunque, perché in fondo potevamo anche sembrare di voler essere quelle che si ritenevano essere un’avanguardia solo, l’«avanguardia delle vite delle donne».

A un certo punto una Signora che per il peso delle buste della spesa che la trascinavano in giù non riusciva quasi a parlare, mi diceva, pronunciando in tutto questo l’angoscia che in quel momento la segnava in tutta la sua persona (il peso, il peso del corpo, la stanchezza della mattina, la separazione fra lei e me), se questo significava anche che noi volevamo l’aborto. Io ero immediatamente bloccata. Dire sì mi sembrava impossibile. Dire sì avrebbe significato l’interruzione immediata di un’avvicinamento appena concepito. (Avvicinamento come violenza anche). Dire no invece avrebbe tradito me stessa. Sì e no, no e sì, questo mi bombardava la capoccia. «Ma Signora, no, non veramente l’aborto, si però Signora, veda, oggi una donna che si trova incinta ma il figlio non lo può avere, se c’è il marito che la picchia, se non ci sono i soldi, se addiritura il marito non ce l’ha…» Parliamone. Generalità su generalità. Schematica, insicura, frustrata, frustante. La Signora mi ha guardato con pena e si è avviata verso l’uscita del mercato perché il suo peso era diventato ormai insopportabile.

Oggi mi ricordo di molto altro. Pochi mesi sono passati, ma importantissimi, ricchi, combattivi, felici, disperati. Le discussioni si sono intrecciate. Dal Collettivo, al Centro della donna, alle riunioni nazionali del Coordinamento dei Collettivi che lottano per il Consultorio e per l’aborto. (Quale coordinamento, coordinamento di chi? Perché per fortuna non siamo un partito noi, non abbiamo uno statuto, non siamo «organizzate» e il coordinamento lo posso fare anche con mia cugina e con la mamma, zia e nonna comprese. Di fatto a questo punto vorrei fare questo).

Mai mi sono sentita così travolta da una discussione. Nel Collettivo mio addirittura ognuna fra di noi, in questo momento, lì era diversa. Ma realmente. Perché non è mica vero che siamo tutte uguali. Diversa nel modo in cui abbiamo abortito. O in cui non l’avevamo fatto ( e a questo punto si sentiva quasi la mancanza), o in cui in nessun caso non l’avrei fatto. Mi sono sentita completamente subordinata alla discussione, subordinata alla mia esperienza (mi ero perfino innamorata del ginecologo svizzero che stava in un gabinetto medico bellissimo dove erano appesi dei quadri simili a quelli che dipingeva il mio innamorato), subordinata, piuttosto impaurita dalla subordinazione che veniva fuori nei discorsi. Discorsi che esprimevano la paura delle parole, la paura dell’uomo, la paura della paura. Ma non tanto paura della soppravivenza propria. Dell’«anima» propria. E non tanto parole sulla trasformazione nella vita di una donna incinta. Di una donna in gravidanza. Trasformazione di se stessa, del corpo addolcito, tornato in se stesso, più recettivo che mai, del rapporto con l’esterno, molto ridimensionato, per la prima volta probabilmente in un modo realmente identico, perché relativo solo a quest’esperienza nuova, completamente soggettiva (per una donna è un «miracolo»); identità della donna dunque, e per molte sicuramente vissuto come primo, netto, indistinto, o anche istintivo distacco dall’uomo. (Dal punto di vista sociale sappiamo benissimo quanto questa (la maternità) ci viene concessa come unico fattore di qualcosa che abbiamo «in più» del maschio.

Aborto. Dolore. Disperazione per la impossibilità di vivere quello che si vuol vivere?. Violenza su se stessa perché qualunque cosa che togliamo di noi stesse (anche la separazione di un uomo), e in questo caso una parte fisica, sessuale, inconscia nostra, non può non essere un colpo, una colpa.

E qui entra subito il discorso se questo avviene nel primo mese o nel terzo. (Personalmente, tutto quello che avviene dopo i tre mesi, è fuori dal mio equilibrio, equilibrio come sostanziale e sostegno della sopravvivenza, dell’esistenziale mio). Ma c’entra appunto quello che siamo e sentiamo a partire dal primo giorno in cui siamo incinte. Io so che dopo una magari «esageratamente» lunga adolescenza e dopo essermi sentita ed essere stata incinta, dopo l’aborto (l’aspirazione Karman è dolorosa il tutto è molto di più. L’unica cosa che riuscivo a pensare in quel momento era che non avrei mai più fatto l’amore con un uomo), ero passata dallo stato di essere donna in un modo incerto, ad uno stato che per me era quello di esserlo, invece. Hai voglia a spiegare adesso tutto questo! Aborto come violenza sociale. Quando uno non vive certe esperienze non sa formularle. Giustamente. La storia (almeno quella delle donne) è fatta dal vissuto, dal vivere, dalla dinamica che articola questo processo sociale, e incidendo incide sulla sua trasformazione generale. Niente è mai casuale. E noi ne siamo la tensione.

A questo punto io mi chiedo se quelle donne che hanno pensato pensabile una formulazione possibile al livello legale dell’interruzione della gravidanza a nove mesi, stiano veramente nei loro corpi. Se non siano invece, strumentalizzate non tanto da un partito politico, anche se Lotta Continua come al solito in questo si distingue, ma strumentalizzate da questo «esterno», dal mondo esterno, dall’inconoscibile per una donna, e da tutto questo inconoscibile che una donna ha in se stessa ma che in parte solo gli appartiene. Se non siano invece talmente subordinate, impaurite e terrorizzate (e questo è solo una parte della nostra tragedia), che questo significhi il disperato ricorso ad una esasperata affermazione di se stessa attraverso l’uomo. Non si può pensare che sia «rivoluzionaria» una legge che «permetta» alla donna di abortire se questa legge non riesce nello stesso tempo a contenere, affermare e proteggere il nostro più intimo e vero, le nostre vite stesse. Non è questa l’affermazione della nostra forza (come certe compagne pretendevano), cioè quella di dire adesso decidiamo noi e imponiamoci noi e per questo consideriamo tutto e il massimo possibile. Se fosse così non si dovrebbe pensare che questo sia formulabile al livello di legge. Allora magari ci si dovrebbe

impegnare più profondamente sull’aspetto specificamente difensivo di una tale legge. Anzi, ci si dovrebbe concentrare contro il difensivo della legge. Libertà e assoluta decisione libera della donna di decidere sul suo aborto o no, sì. Libertà e assoluta decisione libera della donna di abortire all’8° e 9° mese sì, se «valuta» che vuole rischiare se stessa, il feto. (Ancora non si è dimostrato che abortire all’ottavo o nono mese sia un fatto di massa. Si sa che succede come un suicidio. Si sa che la vita di una donna può anche essere quello). Ma basta lì. Scriverlo, concepirlo in una legge significa dargli una faccia che non ha. Scriverlo sotto forma di legge non significa affermare la libertà della donna ma dire che le vite delle donne sono comunque una merda e che non importa se si strappano una vita umana (non moralisticamente) o se per quello si ammazzano.

Mi si stringe la gola. Mi si stringe tutto. Mi sento all’interno di una camicia di ferro; perché questo non è lotta femminista dal di dentro del movimento delle donne, ma subordinazione femminile al massimo. Massimalismo. Questo è violenza che le donne fanno sulle donne. Perché correttamente uno tiene conto che tutta una serie di collettivi a questa legge hanno aderito. Mi si stringe sempre di più la gola. Perché l’unica cosa che mi viene da pensare è se mai una di queste donne di uno di questi Collettivi così combattivi abbia mai abortito a otto mesi e tre quarti.

Nel Collettivo di Testacelo abbiamo discusso a coltellate. Io non riuscivo più a confrontarmi. Mi sembrava che tutto mi passasse sopra e sulla testa. Era diventato in fondo un problema che mi apparteneva solo in parte. E la parte militante nell’affare mi ha fatta fuori. Capivo che la combattività che mettevo in tutto questo, mi veniva in gran parte dalla mia militanza politica e dalla sua eredità. Era come un compromettersi con qualcosa che non era più realmente identico. Quando ho capito questo mi sono ritirata. Ho capito che la combattività, che era diventato un fattore esterno dei miei stimoli, mi stava fregando, trascurando l’inquietudine e il capire del-mio essere femminista realmente. Della militanza del ‘mio personale. In- questo c’entra tutto; Ma con il tempo che mi viene, che mi fa respirare.