la vetta sciovinista

aprile 1975

 

Silvia Buscami Metzelin, luganese, 35 anni, è alpinista di professione. La passione per la montagna ce l’ha da sempre; a 17 anni lavorava come contabile in una fonderia di mezza montagna, perché era l’unico lavoro che le permettesse di «chiudere» alle cinque del venerdì e andarsene in montagna («partiva sola — ricorda una sua compagna di scuola — in motorino; mi chiedevo sempre, con una certa ansia, se sarebbe tornata il lunedì»). Dopo questo tirocinio giovanile tra i monti del Ticino e le Dolomiti, Silvia ha scalato montagne dovunque: negli Alti Tatra, nell’Anatolia Centrale, nelle Ande. È una sestogradista donna, animale raro nello zoo degli alpinisti-divi che vede allineati i Walter Bonatti e i Carlo Mauri, i Lino Lacedelli e i Michel Darbellay. Certo, c’è qualche esempio (quello di Claude Kogan che scalò i 6.300 metri del Salvantay, nelle Ande Peruviane) ma sostanzialmente Silvia, alle prese con cenge e crepacci invece che con padelle e scope è «fuori», fuori dal cerchio assegnato alla donna, è una «deviante» alla quale viene sempre richiesto di giustificare la sua devianza. Ma Silvia non vuole affatto giustificarsi, vive il suo alpinismo come la naturale espressione di sé, non si fa spaventare dalle prevenzioni dell’ambiente dell’alpinismo. Il Club alpino svizzero non ammette le donne, che hanno un loro club separato e il rapporto uomo-donna in montagna non sfugge alla solita dinamica di potere.

«L’uomo tende a instaurare gli stessi rapporti esistenti in pianura — dice Silvia — Cioè: l’uomo deve fare il forte e la donna deve piangere un po’. In questa fase la soluzione migliore, a mio modo di vedere, è di fare cordata con un’altra donna, tanto più che l’uomo generalmente non accetta l’idea di una donna che faccia dell’alpinismo spinta da una propria passione. L’interesse ultimo, secondo lui, è sempre rivolto alla sua persona». Tuttavia questo incallito maschilismo, precisa Silvia, tende a affievolirsi man mano che si procede verso la vetta e la scalata si fa più impegnativa. La donna finisce allora col-l’essere vista come la compagna di scalata, come uguale (perché si è conquistata un certo rispetto). Ferocemente contraria alla retorica delle vette («l’alpinismo che tempra il carattere, l’eroe alle prese con la natura da dominare» etc.) e di tutto il kitsch alpinistico, Silvia è però convinta che per una donna la pratica dell’alpinismo possa aiutarla a prendere coscienza di sé. «È chiaro che oggi ogni donna che pensa col suo cervello ha la sua brava crisi d’identità, a meno che, per sua fortuna o sfortuna, non so, sia casualmente fatta apposta per il ruolo in cui la società la costringe. L’alpinismo ha il vantaggio di essere uno sport uguale per l’uomo e per la donna. Non è possibile, che so, accorciare il sentiero verso il rifugio, come in atletica si fanno correre i 100 metri ostacoli invece dei 110. Come ho detto prima, nella fase iniziale c’è una ruolizzazione classica, che cessa nelle fasi successive».