1975 anno della donna?

lettera da Città del Messico

luglio 1975

 

Care compagne di Effe, il «messaggero» che si è prestato a portare da Città del Messico a Roma il mio articolo (Effe non ha i soldi per i telex e le telefonate, come gli altri giornali), un anglosassone implacabilmente puntuale, pescato dopo affannose ricerche («sapete se c’è qualcuno che torna in Italia entro il 24?» «dove trovo qualcuno che mi porti un articolo a Roma?» e via domandando) ha, ahimè, cambiato programma: invece di partire al pomeriggio, parte alla mattina presto. Il che mi costringe a una angosciosa corsa attraverso questa città immensa ( 11 milioni di abitanti), soffocata dal traffico, per consegnargli il medesimo prima che parta. Questo, insieme al fatto che sono qui soltanto da quattro giorni rende del tutto velleitaria l’ipotesi di un articolo-saggio, di una valutazione definitiva mentre il fluido fiume della conferenza ha appena iniziato a scorrere. Rimando dunque al prossimo numero di Effe l’analisi della conferenza e mi limito qui a raccontarvi i nostri quattro giorni a Città del Messico. Dall’Italia siamo partite in due (io e Anna Gaeta, del gruppo di «medicina della donna» di Roma): al nostro arrivo all’aeroporto, stremate dopo 36 ore di viaggio, travolte da manipoli di femministe americane che arrivavano a ondate, ci siamo rese conto che il primo problema era di numero. Eccoci qui, due gatte, con quattro soldi, (grazie a Dio abbiamo amici messicani che ci ospitano) mentre le fìtte schiere delle «sorelle» americane balzavano su costosi taxi verso costosi alberghi, con cartelli, bottoni, pannelli, tutto l’armamentario tecnologico che noi (qualche copia di Effe, un pennarello rosso, qualche locandina) non possiamo certo permetterci. Ma non importa. Il mattino dopo impariamo a usare gli autobus (che costano solo un peso) e riusciamo quindi a spostarci con modica spesa dai palazzi del Centro Medico, dove è ospitata la tribuna, alla famosa piazza delle Tre culture, dove, tra le rovine delle piramidi azteche, le austere mura del convento spagnolo e le vetrate del modernissimo Ministero degli Esteri, si svolge la Conferenza ufficiale. Districata una serie di arruffatissime pratiche burocratiche (metà del tempo, alle conferenze Onu, viene speso per conquistarsi il diritto d’accesso ai vari posti con moduli, permessi, talloncini, etc.) entriamo alla Tribuna (una specie di «foro» in cui dovrebbero venir discussi tutti i problemi della donna, in realtà fortemente condizionata dal gruppo organizzatore degli Stati Uniti che ha ignorato patate bollenti come l’aborto, la violenza dei ruoli stereotipati, le pratiche di controllo delle nascite sulla pelle delle donne insomma i «crimini» di cui quotidianamente la donna è vittima). C’era una tavola rotonda di femministe-, punta di diamante (si fa per dire) la Betty Friedan: «la donna è dovunque oppressa nella stessa maniera, non importa a quale classe appartenga, di qualunque paese sia, capitalista o socialista». Dall’altra parte della barricata le donne del Terzo Mondo, (in minoranza numerica, ma estremamente lucide nelle loro analisi) hanno ribattuto che il problema della donna non può essere separato da quello dello sviluppo economico e sociale: «chi è più discriminata di una donna che non può neppure mangiare? Come parlarle della riappropriazione del proprio corpo se il suo primo problema è mantenerlo in vita, questo corpo?» ha gridato Esther Canpos una messicana ventenne.

La liberazione della donna non può essere separata, nel terzo mondo, dalla lotta contro il capitalismo, la rapina delle risorse, lo sfruttamento di immense masse di donne e uomini. Mentre alla tribuna si delineava lo scontro tra le due anime del femminismo (quella radicale numericamente assai più forte, quella marxista poche, perché i soldi mancano, ma agguerrite, riproponendo a livello internazionale la dicotomia che ritroviamo a casa nostra), alla conferenza ufficiale, che ha come compito quello di discutere il Piano d’azione mondiale (una serie di raccomandazioni ai governi per il miglioramento della condizione femminile in ogni campo) i discorsi delle varie delegazioni hanno rivelato fin dall’inizio una omogeneità di fondo. La questione femminile viene vista come strettamente legata a quella dello sviluppo socio-economico dell’intera società, per cui la liberazione della donna è al tempo stesso condizione per questo sviluppo e viene da esso condizionata (in altre parole, la conferma dello slogan femminista «non c’è liberazione della donna senza rivoluzione, non c’è rivoluzione senza la liberazione della donna»). Le posizioni dei paesi del Terzo Mondo (ovviamente Stati Uniti e Co ritengono invece che la liberazione della donna sia raggiungibile all’interno del sistema capitalista, con opportuni ritocchi qua e là) si sta delineando vincente sin dai primi giorni.

Ci sono però alcune osservazioni da fare: 1) il tono trionfalistico di quasi tutta la prosa ufficiale targata Nazioni Unite (dall’Uganda alla Danimarca, dall’Iran all’Italia pare, a sentir parlare i delegati, che la prima preoccupazione dei governi sia quella di risolvere i problemi della donna); 2) il fatto che la maggior parte dei discorsi sono stati fatti dalle mogli di (vedi la moglie di Sadat, di Marcos, di Echevarria, etc), sorelle di (sorella dello Scià), figlie di… «Alla faccia dell’emancipazione» — ha giustamente commentato Maria Eletta Martini, una delle undici delegate Italiane. Terza Cosa, la più importante: le donne che parlano a nome delle donne del mondo appartengono a un’élite, non esprimono autonomamente le esigenze e i problemi delle masse femminili, ma semplicemente le posizioni dei vari governi (vedi il documento Italiano in cui si vantano i grandi passi in avanti compiuti per il miglioramento della condizione femminile ma non si fa menzione degli aborti illegali, della mancanza di asili nido, della «realtà» quotidiana della donna Italiana). Queste élites governative, dunque, chi rappresentano? I giovani, ma non certo le donne del mondo.

Ieri Anna ed io siamo state, con amici messicani nello stato di Morelos: siamo state a Cuernavaca, tra i fiori splendidi e il violento verde dei tropici, ma anche tra la miseria, la fame, gli occhi scuri sbarrati delle donne che passavano tra nugoli di bambini, le case rattrappite, allineate lungo strade fangose (sui muri, ironica e straziante lo slogan «tutto va meglio con Coca Cola» e le foto a colori di attrici bionde e levigate) frotte di capre (l’animale della povertà, della disperazione), vecchi immobili sulla porta di casa. Il sottosviluppo di cui tanto si parla e scrive, nell’«opulento» occidente, eccolo qui, senza mediazioni, senza ipocriti eufemismi: 4/5 della popolazione messicana vive così (e siamo in uno dei paesi più avanzati del terzo mondo). Queste donne, alla conferenza mondiale, chi le rappresenta? Chi parla per loro? L’anno della donna passerà senza che sappiano che sia esistito. Nel piccolo pueblo di Villa Ayala, accanto alla casa di Emiliano Zapata trasformata in museo, dove i luoghi della rivoluzione sono diventati meta del turismo di sinistra, nessuna donna sapeva della conferenza: sanno però cos’è la fame, l’oppressione, realtà di milioni di donne che è accuratamente tenuta fuori dai palazzi di vetro e dai nitidi recinti della conferenza. A parte alcuni paesi in cui la rivoluzione sociale ha portato con sé grossi cambiamenti dello status della donna, quante di queste delegazioni rappresentano veramente le donne dei loro paesi? Basti pensare alle fasciste cilene, che si ‘sono permesse il lusso di fare discorsi femministi («anche gli uomini debbono lavare i piatti e curare i bambini — ha detto Alicia Romo Roman, capo della delegazione cilena, sostenendo che in Cile la donna sta facendo grossi progressi verso la liberazione e ha gli stessi diritti dell’uomo). Fuori dalla sala della conferenza, poche ore dopo, Hortensia e Laura Allende, vestite di bianco, dignitose e lucide, raccontavano ai giornalisti delle 120 donne cilene detenute nel campo di Tres Alamos, torturate, violentate, uccise; di quelle scomparse, prese d’improvviso dalla polizia e di cui le autorità dicono che «non si sa nulla» e «sono andate all’estero» mentre sono chiuse in orridi campi di concentramento; dei bambini torturati davanti alle madri. Laura Allende ha chiesto l’aiuto di tutte le donne democratiche per la liberazione delle donne cilene. Si è molto commossa quando le ho dato un numero di Effe su cui era pubblicato l’appello delle donne cilene; mi ha detto che sono arrivate centinaia di lettere e che anche grazie a questo contributo, Gladys Diaz (una giornalista di Santiago arrestata e torturata dalla giunta) e altre donne non sono state uccise. Effe è dunque servita a qualcosa: una notizia di questo genere ripaga di tutte le fatiche, le difficoltà, le amarezze di fare il giornale nelle condizioni che noi tutte sappiamo. «Ringrazia le compagne di Effe, — ha detto Hortensia Allende — ringraziale». E se ne è uscita, con Laura, con Mireille Szatan-Gleymann (un’avvocatessa francese che è stata in Cile con una commissione di controllo e ha raccontato cose atroci sulla condizione delle detenute cilene) e pochi altri: la vera rappresentante delle donne cilene se ne andava dalla porta di servizio, con un sorriso pieno di lacrime, mentre nella grande sala della conferenza, le fasciste cilene (sedute, ironia della sorte, a fianco delle cinesi) rimanevano a rappresentare le donne del Cile. Vogliamo ancora parlare, a questo punto di innocenza storica della donna? Torneremo da questa conferenza con molto materiale per una riflessione: la realtà della condizione femminile, appannata dai discorsi ufficiali e distorta dalla burocrazia Onu, la realtà di Villa Ayala e quella quotidiana che ognuno di noi conosce, rifiutata da conferenze come queste, è invece quella che non ci dobbiamo dimenticare, neppure per un istante, se vogliamo che il femminismo vada nella direzione di una vera rivoluzione sociale e non si presti alle strumentalizzazioni di un sistema che si regge sullo sfruttamento e sull’oppressione della donna (e dell’uomo) e che lascia alla questione femminile uno spazio perché proprio non può farne a meno (la flessibilità, è noto, è uno strumento di sopravvivenza del sistema). Ma è uno spazio di sole parole. La lotta, quella vera, non la farà certo l’Onu