piccolo gruppo d.c. in un interno

giugno 1976

per quanto possa sembrare strano, l’idea fu di Amintore. Sfogliando i giornali, all’indomani di quel 3 aprile che aveva visto scendere in piazza, a Roma, cinquantamila femministe a manifestare per il voto fascio-dicì contro l’aborto, il suo sguardo penetrante era caduto e si era soffermato sullo slogan «il nostro privato è politico» e un improvviso sorriso che più che sardonico sarebbe giusto definire aretino, aveva rischiarato il suo volto. La frase gli era piaciuta e subito aveva pensato: «Se il ” loro ” privato è politico, il nostro — visto che siamo già dei politici e per di più maschi — lo sarà molto di più. E, di questi tempi in cui la politica del nostro partito non offre più nessuna credibilità, chissà che non si riesca — partendo dall’analisi del nostro “vissuto “, come dicono quelle streghe — a rimpolparne i contenuti».

Detto fatto, con un rapido giro di telefonate avvisò alcuni compari di partito e spiegò brevemente che il tema dell’incontro sarebbe stato: «Piccolo gruppo di coscienza secondo la prassi femminista». Avevano deciso di ritrovarsi a casa di Giovanni, detto familiarmente Giuà, che abitava in un grande palazzone del ‘500 dove non era difficile reperire una stanza in più, con arazzi, tappeti e affreschi di Veneri e putti capriolanti, come anche i terremotati del Belice, in visita turistica, avevano avuto modo di constatare.

Arrivarono alla spicciolata. Oltre allo inevitabile, inamovibile ed immarcescibile Amintore e al succitato Giuà, c’erano Mariano, Emilio, Aldo e Giulio. Dopo molti ripensamenti si era deciso, di comune accordo, di non dir niente a Benigno e a Donat. Era convinzione generale che avrebbero soltanto aumentato la confusione. Giulio fu l’ultimo ad arrivare e, vedendo gli altri appollaiati in pose libere sul divano — o come Emilio e Mariano — accovacciati in posizioni yoga sul tappeto, disse con la voce ferma e autoritaria che gli era abituale: «Io voglio la mia solita poltrona.». Ci fu un breve conciliabolo e, come sempre, fu accontentato. Era venuto pieno di dubbi e controvoglia. Voleva che lo si sapesse. — «Allora — disse Amintore con il consueto fare professionale — se lorsignori sono d’accordo, si va ad incominciare, Per prima cosa, vi ricordo che abbiamo l’obbligo di essere sinceri». Un’espressione sbigottita si dipinse sul volto dei presenti e un lampo interrogativo balenò nei loro occhi. — «Possibile?». —

«In omaggio alla prassi femminista — continuò il nostro — incominciamo col parlare di donne. Io le ho sempre amate. Alla mia mamma ero molto affezionato, come dico sempre nelle interviste ai giornali di destra e sinistra. E poi, ne ho sposate addirittura due. Quanti di voi possono dire la stessa cosa?». Emilio sbadigliò mentre borbottava: «Questo potrebbe anche voler dire che le odii…», mentre Mariano arrossiva vistosamente, tossicchiando ad occhi bassi. Giuà disse soddisfatto: «Io la penso uguale. Le amo assai. La donna ha da essere bella e graz-iii-osa. L’uomo non importa. Tanto sempre maschio è… (s’interruppe timoroso di aver fatto una gaffe) … L’uomo può anche non essere un Adone — si corresse. Pure io, mode-stam-eee-nte, non sono bellissimo… Ma la femmina, la femmina sì, eh sì! E per la verità, mi pare che queste femministe si stantio a fa piuttosto carucce. Eh, eh, io quando vedo a una bella guagliona, penso proprio che c’è un Dio…», E fece passare in giro una scatola di biscotti Lazzaroni inviatagli dagli Agnelli.

Aldo tentennava il capo, cogitabondo. Non era soddisfatto della piega che stava prendendo l’incontro e si mise a fabbricare un areoplanino di carta a lunga autonomia che poi lanciò in direzione di Giuà. Con la sua vocetta cadenzata, di sacrestia, disse: «Lasciamo stare Dio, Cristo e i santi… Mi pare che li abbiamo messi avanti e portati in giro anche troppo… Forse se il nostro partito si fosse chiamato Democrazia Laica, invece che Cristiana, le cose sarebbero andate meglio…». — «E perché, non ti sembra che siano andate bene?» chiese Giulio con arroganza rilanciandogli l’areoplanino che nel frattempo era planato dolcemente sul tappeto.

«Ragazzi, da bravi, siate seri, In definitiva ci troviamo qui riuniti per vedere se riusciamo a rinnovare la politica del nostro partito con l’analisi del nostro privato», Fece Mariano conciliante. «E io sono interessato a parlare del rapporto che ho con il mio corpo. Non è buono, devo dire subito. Non è buono… E per di più, guardo con invidia ai comunisti che — non so perché — sono quasi tutti magri, asciutti, con facce credibili e serie. Noi dobbiamo riconoscerlo, compari — siamo bruttini, flaccidi, stinti…».

«Bruttino ci sarai tu — lo interruppe con livore Emilio — Io sono bellissimo e per di più piaccio… Piaccio molto. Anzi, quando vado a fare la sauna…» ma qui prudentemente si interruppe, autocensurandosi. A questo punto Amintore si spostò, prendendo posto accanto a Mariano sul tappeto e borbottando che le correnti gli avevano sempre dato fastidio e qui sentiva degli spifferi, ma degli spifferi!

«Todo modo, questo è vero — riconobbe Aldo che ultimamente si era un po’ lasciato andare nel fisico. Adesso la gente è orientata — politicamente, intendo dire — verso il tipo magro e grintoso, sul genere di Longo, Pajetta, che so Berlinguer… anche Pannella piace molto». «Beh, se è per questo, non vi resta che mangiare meno…» concluse falsamente gioviale l’Amintore che ultimamente era rimasto un po’ al di fuori della spartizione della torta.

«Sciò, sciò, ciu-ciò-vè aglio, fravaglia, fattura ca’ nun quaglia, capa ‘e alice-e-cape d’aglio, cuorna e bicuorna!», saltò su come un’antilope Giuà, facendo corna e scongiuri e toccandosi qua e là. «Non ne voglio ‘ neppure sentire parlare. Quelli, i comunisti, al potere non ci devono venire. Storicamente parlando, sarebbe troppo compromettente». — «Ma guarda che alpotere, tu, se vuoi fare autocoscienza femminista, ci devi rinunciare» disse Giulio che fino ad allora se ne era stato in silenzio a rosicchiare le unghie, aspettando il momento giusto per

intervenire. «Queste femministe, il potere non lo vogliono e lo contestano. Capisci?». Sembrava davvero molto informato e per un attimo restarono tutti interdetti. — «Ma non possiamo neppure parlare degli speculum?» propose speranzoso Mariano occhieggiando le polpe del giovane valletto — appunto in polpe — che era entrato portando su di un cuscino di velluto rosso, un telefono che depose ai piedi di Giuà, uscendo poi con discrezione. — «NÓOOOO!» rispose dispettosamente Giulio. «E smettila!». Giuà prese la cornetta, disse: «Pronto» e cadde a terra, sul tappeto, ginocchioni, segnandosi devotamente. La conversazione fu breve — pochi sì e qualche no — quindi Giuà posò il ricevitore e, pallido, disse agli astanti: «Era il Santopadre. È stato informato dalla C.I.A. alla quale lo ha detto la Mafia che lo aveva saputo da Comunione e Liberazione, di questa nostra iniziativa ed è molto addolorato. Dice che non dobbiamo aver niente a che fare con quelle streghe che vogliono l’aborto libero, gratuito e subito. Anzi, non ha detto streghe… ha detto proprio ” quelle puttane “… Si scambiarono vicendevoli occhiate interrogative e meravigliati e compunti, senza dire una parola, si alzarono.

Uscirono curvi, alla spicciolata, come erano venuti. Solo Amintore camminava impettito, per sembrare più alto.

Fuori, aveva smesso di piovere e nel roseo tramonto romano i pampini viola dei glicini stillanti, sulla cancellata in ferro battuto, avevano un’aria vagamente liberty. — «Liberty… Libertas…» mormorò fra sé e sé l’Amintore mentre ne annotava la scala cromatica con l’orecchio esperto del pittore.

Un gruppetto di lottatori continui, manifestanti e avanguardisti operai lo riconobbe e lo squadrò dall’alto in basso. Per un attimo ebbe paura ma riuscì a passare davanti a loro indenne. Nella calma serena della sera primaverile, lo raggiunse turgida, barocca, impietosa nella sua denuncia, una pernacchia.