testimonianza di una compagna: “prima di voi femministe”
il periodo più positivo della mia esperienza nel partito comunista, al quale sono stata iscritta dal ’52 al ’69, ha coinciso con il 1959, da quando ho cominciato a lavorare a Noi Donne e nell’Udi, dove sono tuttora. Prima, negli anni fra il ’52 e il ’56 (precedenti al ventesimo congresso e alla destalinizzazione), ero stata come molti altri un’attivista che aderiva un po’ acriticamente all’idea della totale trasformazione della società in senso socialista, con un atteggiamento che definirei oggi «prepolitico». Eppure nella semplicistica visione di una realtà senza sfumature, forse anche ingenua e certo molto ottimistica, una giovane donna di ventiquattro anni come ero allora poteva trovarsi probabilmente a suo agio. Dal ’56 e negli anni seguenti c’è stata una grande discussione nel partito comunista; ma credo che i temi di quel dibattito esulino dall’argomento della tua inchiesta. Certo, quando la vita politica di partito è diventata non più soltanto adesione totale «all’idea», quando ha richiesto maggiore articolazione, quando ha comportato l’accettazione di certe regole del gioco, a mano a mano l’ho sentita come una realtà sempre più difficile in cui inserirmi. Con una battuta potrei cavarmela dicendo: la politica è un mondo che come donna mi risulta estraneo, in cui mi sento incapace di competere, che comporta un certo grado di ambizione e di grinta senza i quali si è travolti, Per un certo periodo ho sofferto nel fare questa constatazione; mi credevo un’inetta, un’incapace. Poi mi sono resa conto che la spiegazione era più semplice; in qualunque partito oggi, compreso il Pei, prevale un metodo di far politica, sussistono rapporti umani e valori tipicamente maschili (competitività, ambizione, gerarchie). Non discuto qui la linea politica del partito comunista, che senza dubbio è quello che più conseguentemente ha elaborato il tema della questione femminile; ma la sua articolazione interna, i suoi metodi di lavoro, gli spazi che consente riflettono ancora troppo la cultura patriarcale. Ricordo molti dibattiti presso la sezione femminile centrale, convegni, le stesse conferenze delle donne comuniste (soprattutto la quarta) come momenti di grande interesse teorico e politico, indispensabili per la mia formazione. Ma rammento anche con molto disagio il senso di timidezza paralizzante che mi assaliva se per caso avessi voluto prendere la parola. «L’intervento» in sede politica doveva essere svolto secondo un certo schema, pareva che i compagni non ti dovessero dar retta se non lo elaboravi con un certo linguaggio, quel gergo che è tipico di ogni riunione politica e nel quale molte donne non ci si ritrovano, perché è «altro» dalla loro esperienza. Nel movimento femminile e nella battaglia autonoma delle donne ho trovato invece una maggiore coincidenza fra il mio modo di essere e la «politica»; preferisco infatti, piuttosto che essere una «donna politica», «fare politica con le donne», anche se rispunta il disagio ogni volta che mi accorgo che nello stesso movimento femminile e femminista qualcuna (ed è inevitabile), imitando i metodi di lavoro tipicamente «maschili» dei partiti strumentalizza le altre, mira a fare «il capo», parla difficile, tende al lavoro di vertice, ecc., ecc.
Ed ora permettetemi una breve polemica anche con voi femministe, proprio per la mia esperienza nel movimento femminile dal ’59 in poi: prima di voi non c’è stato il deserto! Non solo noi discutevamo fin da quegli anni di contraccezione, aborto, crisi della famiglia e della casalinga e più in generale affrontavamo i problemi femminili in tutti i loro aspetti; ma tra noi compagne della redazione di Noi Donne c’era una continua discussione del nostro «privato» e una quotidiana presa di coscienza. Eravamo tutte più o meno coetanee, con figli piccoli, mariti più o meno «tradizionali» anche se compagni e alle prese con faccende domestiche alle quali cercavamo di sottrarci per non farci incastrare nel ruolo di casalinghe. Oggi posso dire, almeno per quanto mi riguarda, che l’emancipazione l’ho vissuta spesso con grandi sensi di colpa; angoscia per i figli piccolissimi trascinati urlanti all’asilo, casa trascurata, crisi coniugale. Ma c’era anche la soddisfazione di non mollare, di essere autonoma, di non dipendere da nessuno e, soprattutto, di lottare con altre donne nella mia stessa condizione. Nel partito, invece, almeno per la mia esperienza, lottare per l’emancipazione mi pareva come un grande fatto culturale o politico, ma troppo «oggettivo», quasi che il problema non mi riguardasse personalmente fino in fondo, ma fosse solo come un logico e naturale sbocco, per una donna, «occuparsi» delle donne.
Certe volte mi domando come mai, pur essendoci nel partito comunista, a tutti i livelli, donne di grande valore, donne intelligenti e capaci, l’elaborazione «più avanzata» sul problema femminile sia spesso compiuta da un uomo. È successo alla recente conferenza delle donne comuniste a Milano, in cui Achille Ochetto ha svolto uno dei più interessanti interventi. Le compagne commentano soddisfatte che è un buon segno; vuol dire che il partito capisce l’importanza del problema e lo fa proprio. Può darsi, ma io temo invece che ci sia in noi ancora oggi l’antica paura tutta femminile di non essere all’altezza, il bisogno di delegare anche l’audacia delle idee a chi sentiamo, inevitabilmente, più forte di noi. D’altra parte è paradossale dirlo, l’uomo che conquista un potere nel partito paga sempre un prezzo in termini umani che una donna, molto spesso, non è disponibile a pagare.