Virginia Woolf
“una stanza tutta per sé”
Ma, direte, non le abbiamo chiesto di parlare sulle donne e il romanzo? che c’entra il fatto di avere una stanza tutta per sé? Cercherò di spiegarmi. Quando mi avete pregato di parlavi delle donne e il romanzo, mi sono seduta sulla sponda di un fiume e mi sono domandata cosa significassero queste parole. Potevano semplice- mente significare qualche osservazione su Fanny Burney; qualche nota su Jane Austen; un tributo alle Brontè e una breve descrizione del presbiterio di Haworth sotto la neve. Qualche spiritosaggine, se possibile sulla signorina Mitford; un rispettoso accenno a George Eliot; un altro alla signorina Gaskell, e basta. Ma dopo un attimo di riflessione, capii che il tema non era tanto semplice. Il titolo « Le donne e il romanzo » poteva significare la donna vera e la donna nel romanzo; oppure le donne e i romanzi che esse scrivono; oppure le donne e i romanzi che parlano delle donne; oppure il fatto che, in un certo senso, le tre accezioni sono inseparabili, e perciò voi volevate che io le considerassi sotto questo triplice aspetto. Ma, benché decisa a scegliere quest’ultimo punto di vista, il qualeimi sembrava quello più interessante, presto capii che esso presentava un fatale inconveniente. Non avrei mai potuto giungere a una conclusione La sola cosa che potevo fare era offrirvi un’opinione su una questione piuttosto secondaria: una donna, se vuole scrivere romanzi, deve avere soldi e una stanza per sé, una stanza propria; il che, come vedete lascia insoluto il grosso problema della vera natura della donna e della vera natura del romanzo
La vita, tanto per un sesso quanto per l’altro — e li guardavo passare per strada, faticosamente — è ardua, è difficile, una lotta continua. Richiede un coraggio e una forza giganteschi. Più che altro, forse, poiché siamo creature d’illusione, richiede fiducia in se stessi. Senza fiducia in noi stessi siamo come i bambini nella culla. E come possiamo generare in noi, nel modo più sbrigativo possibile, questa imponderabile eppure inapprezzabile qualità? Pensando che gli altri sono inferiori a noi. Pensando che possediamo qualche superiorità innata… riguardo agli altri. Perciò riesce cosi importante, per un patriarca il quale deve conquistare, il quale deve governare, la possibilità di sentire che moltissime persone, la metà della razza umana infatti, sono per diritto di natura inferiori a lui. Anzi deve essere questa una delle fonti principali del suo potere… Per secoli le donne sono state gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la figura deM’uomo, raddoppiata.
Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla. Tutte le glorie delle nostre guerre non sarebbero mai esistite I superuomini e i figli del destino non sarebbero mai esistiti.
Lo zar e il Kaiser non avrebbero mai portato le loro corone, e neppure le avrebbero perdute. Qualunque sia il loro uso nelle società civilizzate questi specchi sono indispensabili a ogni azione violenta ed eroica. Perciò Napoleone e Mussolini insistono così enfaticamente sull’inferiorità delle donne, perché se queste non fossero inferiori, non servirebbero più a raddoppiare gli uomini. Questo spiega in parte il bisogno delle donne che spesso sentono gli uomini. E anche spiega perché essi non tollerano la critica della donna. Giacché se la donna comincia a dire la verità, la figura nello specchio si rimpicciolisse; l’uomo diventa meno adatto alla vita. Come potrebbe continuare a giudicare, a civilizzare gli indigeni, a legiferare, a scrivere libri, a indossare il tight e pronunciare discorsi nei banchetti, se non fosse più in grado di vedersi riflettuto, a colazione e a pranzo, almeno due volte più grande di quanto veramente sia?…
Deludeva essere tornata a casa senza una sola idea importante, un solo fatto autentico. Le donne sono più povere degli uomini, per… questo o per quello. Forse sarebbe meglio… ridurre il campo dell’inchiesta e chiedere allo storico, il quale non registra opinioni bensì fatti, di descriverci per favore in quali condizioni vivevano le donne in una data epoca, per esempio in Inghilterra, al tempi di Elisabetta. Infatti è un perenne rebus che non ci sia stata una sola donna a scrivere una sola parola di quella straordinaria letteratura In quali condizioni vivevano quelle donne, mi domandavo; perché la letteratura d’immaginazione non è un sasso che casca per terra, come succede a volte con la scienza; è una ragnatela, legata forse da un nulla, ma comunque legata alla vita, per i quattro angoli e che si trova legata a cose grossolanamente materiali, come la salute, il denaro e la casa in cui si abita…
Eccomi a domandare perché le donne non scrivevano poesie nell’epoca elisabettiana, eppure non so come venivano educate, se imparavano a scrivere, se avevano qualche salotto dove stare da sole; quante donne diventavano madri prima dei ventun anni; che cosa insomma facevano dalle otto del mattino alle otto di sera. Evidentemente non avevano denaro; secondo il Professor Trevelyan si sposavano, volenti o nolenti non appena lasciavano la mano della balia, probabilmente a quindici o sedici anni. Sarebbe stato estremamente strano, anche con questi pochi dati, che una di loro, a un tratto, si fosse messa a scrivere le opere di Shakespeare, conclusi, pensando a quel vecchio signore ormai defunto (credo fosse un vescovo) il quale ha dichiarato che era impossibile immaginare una donna, passata presente o futura, il cui genio si potesse paragonare a quello di Shakespeare. Lo scrisse perfino sui giornali. E anche disse una volta, a una donna che gli aveva chiesto delle informazioni, che i gatti in realtà non vanno in paradiso, benché abbiano, aggiunse, una specie di anima. Quanti pensieri ci risparmiavano quei vecchi signori! Quando essi apparivano, come si restringevano i confini dell’ignoranza! I gatti non vanno in paradiso. Le donne non possono scrivere le opere di Shakespeare.
A ogni modo non potevo non pensare, mentre guardavo le opere di Shakespeare nello scaffale, che almeno in questo il vescovo aveva avuto ragione; sarebbe stato impossibile, completamente e interamente impossibile, che una donna scrivesse nell’epoca di Shakespeare le opere di Shakespeare. Immaginiamo, giacché ci riesce così difficile conoscere la realtà, che cosa sarebbe successo a Shakespeare se avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, chiamata Judith, diciamo. Molto probabilmente Shakespeare studiò — poiché sua madre era ricca — nella « grammar school »; gli avranno insegnato il latino e qualche elemento di grammatica e di logica. Era, come si sa, un ragazzo irrequieto, il quale cacciava di frodo i conigli, e forse anche i daini; e anche fu costretto, forse contro- voglia, a sposare una donna dei dintorni, che gli diede un figlio un po’ più presto del solito. Questa avventura lo spinse a cercare fortuna a Londra. Si interessava, a quanto pare, di teatro; dicono abbia cominciato facendo la guardia ai cavalli presso l’ingresso degli attori. Presto imparò a recitare, divenne un attore di successo, e si trovò al centro della società contemporanea; vedeva tutti, conosceva tutti, sfoggiava la sua arte sulla scena, il suo spirito per strada, e perfino riuscì a essere ricevuto nel palazzo della regina. Intanto sua sorella, così dotata, supponiamo, rimaneva a casa. Ella non era meno avventurosa, immaginativa e desiderosa di conoscere il mondo di quanto non lo fosse suo fratello. Ma non aveva studiato. Non aveva potuto imparare la grammatica e la logica, e non diciamo leggere Orazio e Virgilio. A volte prendeva un libro, magari un libro di suo fratello e leggeva qualche pagina. Ma poi arrivavano i suoi genitori e le dicevano di rammendare le calze o di fare attenzione aM’umido in cucina, e di non perdere il tempo tra libri e cartacce. Forse riusciva a riempire di nascosto qualche pagina, su nell’attico; ma poi aveva cura di nasconderle o di bruciarle. Ad ogni modo, non appena arrivata alla pubertà, ella era stata promessa al figlio di un vicino mercante di lane. La ragazza protestò che il matrimonio era per lei una cosa abominevole; sicché suo padre la picchiò con violenza. Poi cambiando tono la pregò di non fargli questo danno, questa vergogna di rifiutare il matrimonio. Le avrebbe regalato una bella collana, oppure una bella gonna, diceva, con le lacrime agli occhi. Poteva forse disubbidirgli? Poteva forse spezzargli il cuore? Eppure la forza del suo talento la spinse al gesto inconsueto. Una sera d’estate Judith fece un fagotto con le sue cose, scese dalla finestra e prese la strada di Londra. Non aveva ancora diciassette anni. Gli uccelli che cantavano sulle siepi non erano più musicali di lei. Ella possedeva, come suo fratello, la più viva fantasia, il più vivo senso della musica, delle parole. Come lui si sentì attratta dal teatro. Bussò alla porta degli attori; voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia. L’amministratore — un uomo grasso dalle labbra spesse — proruppe in una gran risata. Disse qualcosa sui cani ballerini e sulle donne che volevano recitare; nessuna donna, disse, poteva essere attrice. Egli accennò invece… ve lo potete immaginare. Nessuno le avrebbe insegnato a recitare. D’altronde non poteva mangiare nelle taverne, né girare per le strade a mezzanotte.
Eppure il genio di Judith la spingeva verso la letteratura; ella desiderava cibarsi abbondantemente della vita degli uomini e delle donne, studiare i loro costumi. Infine (poiché era molto giovane, e” di viso assomigliava a Shakespeare, con gli stessi occhi grigi e la fronte curva) Nick Greene, l’attore regista, ebbe pietà di lei; Judith si trovò incinta di questo signore e pertanto — chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando questo si trova prigioniero e intrappolato nel corpo di una donna? — si uccise una notte di inverno, e venne sepolta a un incrocio, là dove ora si fermano gli autobus, presso Elephant and Castle.
Così, più o meno, sarebbe andata la storia, immagino, se ai tempi di Shakespeare una donna avesse avuto il genio di Shakespeare… Perché un genio come quello di Shakespeare non appare fra la gente ignorante e servile che fa i lavori grossolani. Non era apparso in Inghilterra ai tempi dei sassoni o dei britanni. Non appare oggi fra le classi lavoratrici. …Scrive Sir Arthur Quiller-Couch: « Il poeta povero non ha in questi giorni, né ha avuto negli ultimi duecento anni, la più piccola opportunità… Un ragazzo povero in Inghilterra non ha più speranze di quante non avesse il figlio di uno schiavo ateniese di riuscire un giorno a godere di quelle libertà intellettuali nel cui senso nascono le grandi opere ». Ecco tutto. La libertà intellettuale dipende da cose materiali. La poesia dipende dalla libertà intellettuale. E le donne sono sempre state povere, non soltanto in questi duecento anni, ma dagli inizi dei tempi. Le donne hanno meno libertà intellettuale di quanto non avessero i figli degli schiavi ateniesi. Le donne pertanto non hanno avuto la più piccola opportunità di scrivere poesia. Perciò ho insistito tanto sul denaro e sulla stanza propria…
La sorella di Shakespeare morì giovane; ahimè non scrisse mai una parola. Giace seppellita là dove si trova la fermata degli autobus, presso Elephant and Castle. Ora io credo che questa poetessa, che non scrisse mai una parola e venne sepolta presso un incrocio, vive ancora. Vive in voi e vive in me, e in molte altre donne che non si trovano qui questa sera, perché stanno a casa, lavando i piatti e facendo dormire i bambini. Tuttavia essa vive; perché i grandi poeti non muoiono; sono presenze perenni; hanno bisogno soltanto di una opportunità per tornare fra noi, in carne ed ossa. Ora questa opportunità mi sembra, siete finalmente in grado di offrirgliela voi. Poiché io credo che se viviamo ancora un altro secolo — parlo della vita comune, che è la vera vita, e non delle piccole vite isolate che ognuno di noi vive come individuo — e riusciamo ad avere cinquecento sterline l’anno ognuna di noi, e una stanza propria; se abbiamo l’abitudine della libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo; se usciamo un attimo dalla stanza comune di soggiorno e vediamo gli esseri umani non sempre in relazione l’uno con l’altro bensì in relazione con la realtà; se guardiamo in faccia il fatto che non c’è un solo braccio al quale appoggiarsi, ma che dobbiamo fare la nostra strada da sole e che dobbiamo essere in relazione con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà finalmente l’opportunità e quella poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, ritornerà al corpo del quale tante volte ormai ha dovuto spogliarsi.
Da «Una stanza tutta per sé» di Virginia Woolf in Per le Strade Di Londra – Casa Editrice il Saggiatore. (traduzione di Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfi Wilcock).