al principio era la madre
Ricordando E. Fromm. Egli sosteneva che la nascita del pensiero ha ucciso l’amore, ma che l’umanità ha la capacità di far rinascere l’amore senza uccidere il pensiero.
Tiamat, la Grande Madre del mito babilonese della creazione, reggeva l’Universo. Gli dèi-fìgli maschi le si I ribellarono e, dopo una dura lotta, Tiamat fu uccisa e dal suo corpo si formarono il cielo e la terra. Marduk fu scelto a governare come dio supremo. Il mito, dice Fromm, ci riferisce il conflitto tra il principio patriarcale e quello matriarcale di organizzazione sociale. Perché gli dèi-figli uccidono la Grande Madre? Per invidia della gravidanza, della possibilità di creare. Il contenuto manifesto del mito racconta che gli dèi misero un indumento in mezzo a loro e dissero al primogenito: “Comanda di distruggere e di creare, e così sarà. Con la parola della tua bocca fa che l’indumento sia distrutto / Comanda ancora, e fa che l’indumento ritorni intero / Egli comandò con la sua bocca e l’indumento fu distrutto / Egli comandò ancora e l’indumento ritornò intero / Essi si rallegrarono e gli resero omaggio dicendo ‘Marduk è re'” (Enuma Elish tavola IV – citato da Fromm in “In linguaggio dimenticato” pag. 221 – Ed. Bompiani).
Questo passo vuol significare che si tratta della prova decisiva per stabilire se Marduk sarà in grado di sconfiggere Tiamat: “per riuscire a sconfiggere la madre, il maschio deve dar prova di non esserle inferiore, dì avere il dono di generare. Dato che egli non può partorire, deve riuscire a produrre diversamente: con la bocca, con la parola, con il pensiero. Tale dunque è il significato della prova: Marduk potrà sconfiggere Tiamat soltanto se potrà provare di essere in grado di creare, sebbene in diverso modo”. (Fromm. Op. cit. pag. 222).
Da allora si stabilì la supremazia maschile, la naturale capacità generatrice della donna venne svalutata e “l’uomo iniziò il suo predominio basato sulla capacità di produrre per mezzo della forza del pensiero”. Nel successivo mito biblico la supremazia del dio maschio è già affermata: Dio crea il mondo con la parola, fa un figlio con lo spirito (il “soffio” che anima il fantoccio di fango) e la donna dalla costola del maschio. Ma il ricordo della potenza della donna non è ancora scomparso: Eva disubbidisce all’imperio del padre, mangia il frutto proibito e induce Adamo a mangiarlo. La punizione che accompagna la cacciata dal paradiso terrestre simboleggia un ulteriore passo in avanti nella cancellazione della donna: “il tuo desiderio sarà quello di tuo marito e egli comanderà su di te”, dice Dio a Eva. Commenta Fromm: “Evidentemente l’instaurazione del predominio maschile mette in rilievo una situazione precedente in cui l’uomo non dominava. Soltanto da ciò e dell’assoluta negazione della funzione produttiva della donna possiamo riconoscere le tracce della supremazia della madre, che fa ancora parte in maniera manifesta del mito babilonese” (Ibid, pag. 223). L’interpretazione di Fromm del mito babilonese e di quello biblico della creazione è collegata alla sua rilettura della mitologia — e in particolare del mito di Edipo —’ dopo il suo studio delle opere di Bachofen, di Morgan, di Briffault sull’ipotesi di una antichissima società matriarcale in cui: “tutti gli uomini sono uguali dato che essi sono tutti figli di madri e ognuno è figlio della Madre Terra. Una madre ama allo stesso modo tutti i suoi figli, senza preferenze, dato che il suo amore si basa sul fatto che sono suoi figli e non su un particolare merito o successo; lo scopo della vita è la felicità degli uomini e non vi è nulla di più importante dell’esistenza e della vita umana. D’altra parte, il sistema patriarcale considera l’obbedienza all’autorità come la principale virtù; al posto del principio di uguaglianza troviamo il concetto del figlio preferito e un ordine gerarchico nella società”. (Ibid, pag. 198).
Fromm è consapevole che la teoria del matriarcato non può essere accettata totalmente; e noi oggi sappiamo che probabilmente il matriarcato non è mai esistito; ma è certa l’esistenza di lontanissime società matrilineari poggiate su princìpi di uguaglianza e di comunità dei beni contro le quali a fatica e ferocemente, lungo secoli di cui è perduta la memoria, in luoghi e tempi diversi, si affermarono ii princìpi della proprietà e della gerarchia dei primi stati patriarcali.
I miti di cui ci occupiamo — e altri — parlano in linguaggio simbolico della memoria collettiva della lunga lotta che si concluse con la vittoria dell’imperio del Padre. E’ in questa chiave che Fromm ristudia il mito di Edipo (riportato nella trilogia di Sofocle — Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone) rovesciando l’interpretazione di Freud.
mito di Edipo, sostiene Fromm, non rappresenta il desiderio incestuoso del figlio verso la madre (con ciò non vuole negare che tale desiderio possa esistere; pensa che non esista nel mito di Edipo), ma riflette il conflitto con l’autorità, con la legge del padre. E’ il simbolo della estrema lotta della legge di natura, della Madre, dell’uguaglianza e dell’amore contro la legge della gerarchia e della sopraffazione del Padre che era prevalsa, ma non erano ancora dimenticati i valori della prima. Edipo, Antigone e Emone rappresentano i valori del mondo della Madre contro quelli del Padre simboleggiato da Laio e da Creonte. Freud non lo capì perché il suo pensiero fu condizionato dalla cultura patriarcale e dall’impronta puritana e repressiva della società in cui visse.
Fromm sostanzia la sua interpretazione con alcune osservazioni fondamentali: Sofocle, che nella sua trilogia “raccoglie” il mito di Edipo, “era avverso a quei sofisti del suo tempo che propugnavano il dispotismo esercitato da una elite intellettuale; “nell’originario mito di Edipo la figura di questi è sempre connessa alle dee del culto della terra che rappresentano la religione matriarcale nel mito “non c’è alcun indizio che Edipo sia attratto o si innamori di sua madre Giocasta. L’unica ragione che viene data del loro matrimonio è che esso comporta per Edipo la successione al trono”. Le altre due tragedie della trilogia confermano l’ipotesi che il mito parla della lotta contro la legge patriarcale.
Edipo a Colono trova l’ultima dimora presso le “Invisibili Dee”, le “Dee Infernali”, segno della sua appartenenza al mondo della Madre. Antigone disubbidisce alla legge dello zio Creonte, nuovo tiranno di Tebe (legge dello Stato) e dà sepoltura alla salma del fratello, nemico della città perché lei non obbedisce alle leggi degli dèi olimpici, ma a quelle che “eterne sono e a tutti ignoto il tempo in cui furon sancite”. Sono le leggi naturali per cui tutti i morti devono trovare l’ultimo asilo nel corpo della Madre Terra. Invano la sorella Ismene supplica Antigone di desistere perché “donne, povere donne siamo nate”. Ismene, “che ha accettato la sconfitta sottomettendosi all’ordine patriarcale, è simbolo delle donne soggette alla dominazione” (Ibid, pag. 211).
Creonte decide che Antigone deve morire: «…io non sarò più uomo / e diverrà costei uomo in mia vece / se l’onta non avrà pena adeguata” (Sofocle, Antigone, ed. Rizzoli pag. 218). Emone, figlio di Creonte, supplica il padre di non fare uccidere Antigone in nome della ragione “la più alta di tutte le cose che chiamiamo nostre” e asserisce che egli si opporrà a quell’assassinio non solo per quella donna ma (rivolto al padre) “anche per te, o anche per me, e per i numi infermi”. Creonte fa seppellire viva Antigone in una caverna. Da questa uccisione una nuova tragedia nasce: la distruzione della famiglia di Creonte. Le “invisibili dee infernali”, “i numi inferni” e “mi perdonino quelli di sotterra”, dice Ismene quando prega Antigone di ubbidire a Creonte. Gli inferi, il sottosuolo alludono alla madre al cui corpo si ritorna da morti. E’ a quella che Ismene chiede perdono e a cui Edipo torna; per quel principio Antigone disubbidisce e Emone prima supplica e poi combatte il padre. La potenza della Madre sconfitta s’è inabissata, ma esiste: quelli che ancora combattono, nel mito, contro la tirannia del Padre nutrono forse la speranza di fare rivivere un mondo più equo. Dice Antigone: “Io nacqui a ricambiare amore, non odio”.
Fromm, convinto che siamo ormai giunti al limite della sopravvivenza, della perdita dell'”essere” (in senso immanente) esprime la speranza che prevarrà l’istinto e la gioia di vivere per cui l’umanità saprà far riemergere dall’abisso di sé i valori dell’equità e dell’amore per pervenire alla sintesi di una superiore civiltà.