parliamo tanto di cinema
Il cinema è un fenomeno complesso che comprende al sue interno la sperimentazione più avanzata e il filmetto di quart’ordirie. E’ anche la forma di spettacolo più diffusa e più amata, di fronte
alla quale siamo spesso indifesi. Nell’articolo che segue alcune riflessioni sul come fare critica cinematografica in modo diverso.
Ogni volta che su Effe abbiamo affrontato il problema critica cinematografica ci siamo trovate coinvolte in migliaia di dubbi: non solo come farla, ma anche che film scegliere per le nostre critiche. Occuparci dei film di donne? sono così pochi e così poco diffusi. Occuparci dei film offensivi? denunciarli, sì, ma fare anche la pubblicità indiretta! Occuparci dei film “belli” a prescindere dell’immagine femminile? perché mai, a chi servirebbe? Ci pensano già gli altri giornali. Ma è proprio questo il nodo. Se passiamo in rassegna i modi della critica cinematografica ufficiale troviamo una prima grossa suddivisione: le riviste specializzate e la critica corrente dei settimanali e dei quotidiani. Nelle riviste di cinema la critica è un fatto complesso, colto, che fa riferimento ad una sofisticala cultura, cinematografica e non, che si occupa in generale del fenomeno cinema nel suo insieme: dalla produzione al riferimento culturale all’evento tecnico, usando spesso un linguaggio diretto — per scelta — agli addetti ai lavori. L’altra critica è soprattutto una critica di contenuti, semplice, diciamo, una guida a cosa si deve andare a vedere: all’interno di questa ciascuno si sceglie il critico dai gusti più affini ai propri e trae consigli per una serata rilassante o impegnata, si evita, comunque di rischiare nell’andare al cinema. Questa situazione mantiene in piedi una doppia separazione: quella tra cinema sperimentale e cinema industriale (difficilmente un quotidiano a larga diffusione recensisce Chantal Ackertnann) e quella tra cinema e spettatore. Il critico si pone come filtro tra lo spettacolo e la fruizione, costruendo su questo il suo impero. Il critico cinematografico è il nostro “esperto”. Possiamo rifiutarlo e rivolgerci ad altri canali, possiamo fare noi la critica ai film, ma quale critica? quali modelli di critica cinematografica abbiamo a portata di mano?
La caratteristica più immediata del cinema è soprattutto quella di confezionare storie, di costruire personaggi, di regalare ambienti e situazioni, stimolare l’identificazione e il desiderio. L’aspetto più afferrabile e familiare del cinema è costituito da questa facilità di narrazione, dalle storie che possiamo far nostre o rifiutare. La critica corrente alimenta questo aspetto ponendosi soprattutto come critica di contenuto, esame minuzioso — più o meno coscienzioso — della vicenda proposta da un film. Anche la critica al femminile segue nella maggior parte dei casi questo filone. La critica militante è quasi esclusivamente critica che ruota intorno ai personaggi femminili, alle storie più o meno misogine, alla positività dei modelli femminili e maschili offerti. iE davvero questo è un momento molto importante della critica femminista. Proprio per l’intreccio tra proposta e riproduzione di modelli di comportamento che caratterizza più di ogni altro campo il cinema, questo della critica dei personaggi e delle storie è un momento irrinunciabile della critica militante. Ma attualmente sta diventando molto restrittivo. Ormai i mostri sacri della critica cinematografica introducono nelle loro recensioni un’attenzione senza precedenti per i personaggi femminili e sempre più spesso si legge la parola “misogino” nelle loro righe. Un noto critico di un notissimo quotidiano arriva a mentire a proposito del film di una donna e a dire che è “bello” anche se non lo pensa per paura delle reazioni femminili. Ed è logico: siamo o no consumatrici di cinema? visto che da qualche anno abbiamo anche la voce, dobbiamo essere — come dire? — rispettate. E così: diamo un contentino, dicendo che il tal film è “terribilmente antifemminista”. Rimane un fatto, però. La critica cinematografica sui contenuti, compresa quella al femminile, ha due limiti fondamentali: restringe il fatto cinematografico alla sola storia narrata, trascurando gli altri elementi che fanno di un film un buono o cattivo film; lascia il fruitore di cinema completamente indifeso di fronte all’evento filmico.
Quante volte siamo uscite dal cinema dicendo «Non sono d’accordo con il contenuto, però, che bel film!». Questa frase è una piccola spia del potere del cinema e del fatto che questo potere di suggestione si attua attraverso altri canali, squisitamente tecnici — se così vogliamo chiamarli — per definire banalmente la capacità professionale di usare l’immagine e di renderla significativa.
Scene d’amore o di violenza diventano credibili, affascinanti e commoventi grazie ad una bella fotografia o ad un sapiente uso del carrello. Una recitazione piatta può essere resa .accettabile da una adeguata inquadratura o da un montaggio agile. Quando un regista gioca con la bellezza di un’immagine per esprimere un contenuto reazionario, che difese abbiamo? il rifiuto, forse, ma come difendersi dall’ambiguità dell’immagine, come difendersi dalla fascinazione? Indubbiamente non è il caso di rifiutare la fascinazione, perché è una componente fondamentale del piacere dello sguardo; ma è giusto però essere in ogni istante coscienti di ciò che accettiamo di subire.
Come di fronte a qualsiasi altra forma di espressione culturale, la conoscenza delle tecniche di realizzazione aiuta non solo a comprenderle meglio, ma anche ad elaborare analisi più precise; e sappiamo bene quanto la consapevolezza e la capacità di critica aiuti a controllare e dominare un fenomeno altrimenti pericoloso. Queste sono osservazioni semplici, tutto sommato, dati di elementare buon senso, tratti dalla comune esperienza quotidiana. Ma, applicati ad un fenomeno come il cinema (lo stesso vale per la musica o per il teatro) diventano importanti elementi e fanno parte della nuova concezione della riappropriazione della cultura che abbiamo inventato. Come si lega tutto questo al discorso stilla critica cinematografica? Ho spesso constatato personalmente un (autentico orrore per le critiche “specialistiche” ad un film ed ho altrettanto spesso constatato che un film “positivo” sulla donna (pensiamo a Una donna tutta sola, di Mazursky, un film contrabbandato come femminista) non manteneva la sua. positività se dall’analisi della “storia” si passava ad un’analisi della costruzione della storia, della recitazione degli attori, della ricostruzione degli ambienti, dell’uso del montaggio, delle forme di produzione (il grande capitale americano).
Personalmente ho sperimentato quanto sia importante riuscire a tenermi fuori dalla fascinazione onniavvolgente di una scena aggrappandomi (letteralmente) all’attenzione verso i movimenti della cinepresa. Parlare in termini di linguaggio cinematografico e di tecnica cinematografica non è un insopportabile snobismo, ma un fondamentale mezzo per capire il cinema.
Una critica militante deve dare strumenti di conoscenza e non solo utili consigli per trascorrere una serata. Proprio per differenziarsi dalla critica corrente e per creare una nuova cultura il compito di chi si occupa di cinema deve essere quello di diffondere conoscenze, aiutare -a capire più in profondità un fenomeno che bene o male ci coinvolge. Non è peregrino, ad esempio, sottolineare che un film è stato girato in 16mm o in 35mm, perché in generale vuol dire sottolineare che si tratta di una produzione >a basso costo o di un prodotto ferocemente industriale. Analizzare un film a partire dal montaggio può significare molto. Per esempio; molte avranno visto Una moglie, di John Cassavetes, film a basso costo, americano, realizzato quasi in famiglia (recitavano la moglie, la suocera e cugini vari del regista), girato in 16mm {pellicola più piccola e molto meno costosa del 35mm). In un film come quello è importante accorgersi e perdonare una intera sequenza sfocata; ricondurre eccessi di recitazione ed uno stile di regia non repressivo, democratico, che scegliendo lunghe inquadrature all’interno delle quali si svolge l’azione, lascia libero l’attore o l’attrice di esprimersi, senza spezzettarne in inquadrature piccolissime la recitazione.
La bellezza stessa del cinema — o meglio la sua piacevolezza — stimola la pigrizia della fruizione e la superficialità di approccio. Per di più l’alone di mistero di cui è circondato, la magia del mondo del cinema, sono tutti fattori che lo tengono lontano da noi e fanno sembrare incredibile l’ambizione di capirlo nei suoi meccanismi. Il cinema soffre di un paradosso; tutti siamo in grado di parlarne, ma ne rifiutiamo l’approccio tecnico; il momento della realizzazione viene quasi esorcizzato, ignorato, nascosto e tacciato di irrilevante ai fini di una corretta interpretazione. Tutto ciò deriva da condizionamenti fortissimi che anni di cultura cinematografica al maschile ai hanno proposto. Ma la scarsità di risultati “belli” da parte di regie femminili (ricordiamo Io sono mia, Amo non amo) da un lato e il crescente interesse verso il cinema delle donne dall’altro, ci impongono di capire e di imparare ad affrontare il fenomeno cinematografico più da vicino e un po’ più sul serio.
Non avrebbe davvero nessuna importanza leggere su Effe una consolatoria critica distruttiva ad un qualunque film maschile; non avrebbe davvero senso sentirsi ripetere da una critica militante solo le cose che ciascuna di noi può dire su un prodotto. In breve, non avrebbe senso una critica al femminile che non desse anche strumenti più approfonditi di conoscenza. Una critica militante oggi, deve informare e formare un gusto, dare consapevolezza alla fruizione, tirarci fuori dalla passività e dalla faciloneria che 11 cinema ci propone. Bertolucci dice: «Lo spettatore ideale al cinema è uno spettatore molto passivo che riesce a trovare nell’ora e quarantacinque minuti di proiezione lo spazio per dormire almeno dieci minuti e vincere così la propria passività». Vogliamo vincere la nostra passività in altro modo?