«donne e russia»
un nuovo “dissenso” da scoprire
In occasione della pubblicazione dell’Almanacco Donne e Russia, Effe ha promosso un dibattito al centro culturale romano di Mondoperaio, presenti Letizia Paolozzi, Lidia Menapace, Claudio Fracassi, Franca Fossati. Pubblichiamo l’intervento di Mimma de Feo che ha aperto il dibattito.
Quando ho messo piede per la prima volta in Unione Sovietica come turista era il giugno del 1978 e io avevo nell’agenda il telefono di un’amica italiana che vive da più di dieci anni a Mosca, dove si è sposata con un russo, e ha una buona conoscenza di quel paese perché viaggia spesso per ragioni di lavoro, essendo dirigente di un grosso ente di Stato italiano accreditato in U.R.S.S.; anzi è uno dei tre massimi dirigenti di. questo ente. «Un lavoro che in Italia nel mio stesso ente svolge abitualmente un uomo», mi ha detto subito appena l’ho contattata e ha aggiunto: «Sulle donne in Unione Sovietica ho molte notizie da darti: qui tutto è in fermento e voi neppure ve ne accorgete». Ho pensato senza troppo entusiasmo che qualche donna in più fosse entrata nell’ufficio politico del P.C.U.S. o che si fosse elevata la percentuale delle donne-medico, la più alta del mondo, credo, o quella delle universitarie, insomma che si fosse raggiunto un nuovo traguardo nel vittorioso cammino dell’emancipazione. E poi quel giorno a Mosca diluviava senza scampo e io venivo da Leningrado, con gli occhi ancora pieni di luce e di fiori di lillà, c’era poco da esaltarsi, guardavo tutto con disattenzione.
Anche due scene in cui sono, si può dire, inciampata uscendo dall’albergo per andare a trovare la mia amica e che avrebbero dovuto sollecitarmi qualche riflessione subito, a botta calda, su questa famosa dissidenza ancora tutta al maschile. La prima si svolgeva nei giardinetti dietro la via Gorki, a pochi passi dalla piazza Rossa: molti omosessuali maschi camminavano tra le aiuole tenendosi per mano o provocatoriamente abbracciati mentre un poliziotto li guardava a distanza, mi avvertiva una giovane guida italiana che torna ogni mese in U.R.S.S.: «da poco tempo escono a gruppi: il poliziotto ogni tanto si avvicina, li scioglie ma loro ricominciano daccapo». L’altra scena avveniva quasi sul limitare della Piazza Rossa davanti e intorno all’edificio della più grande galleria moderna di Mosca: sotto la pioggia battente, un gigantesco anello di ombrelli, quattro o cinque file concentriche di persone attendevano pazientemente il’ loro turno di entrata per vedere i quadri che un famoso pittore del dissenso era riuscito ad esporre dopo un anno di scaramucce con il ministro della Cultura.
Quest’ultima scena la ricordo più dell’altra perché non faceva tornare i miei conti. Se il dissenso sovietico stava nei gulag dove pure sta, come poteva ‘Stare contemporaneamente nella più ufficiale’ galleria moderna di Mosca, vistosamente visitata da fiumi di gente? Era un’evidente contraddizione, a quanto ne so ancora reale e insanata, che consente di individuare un dissenso povero, emarginato, circoscritto nei gulag, accanto a un dissenso tollerato, un po’ represso e un pò coccolato dei circoli culturali di Mosca, più vicini ai centri di potere, la radio, la televisione, le accademie.
E le donne in tutto questo? Da quell’incontro con la mia amica italiana ho tratto alcune notizie che qui riassumo brevemente per chiarire meglio la vicenda clamorosa dell’almanacco Donne e Russia, giunto da poco in occidente e di cui Effe ha tradotto i primi materiali. Già ai primi del 1978 le donne sovietiche discutono, si, incontrano tra loro, manifestano un disagio che ha forme e canali mediati per esprimersi. Per esempio le lettere ai giornali. Nella primavera del ’78, la Sovietskaja Kultura apre un dibattito sulla crisi dei rapporti di coppia sollecitato dalle tante lettere che giungono alla redazione, pubblica alcune testimonianze di donne, riceve corrispondenze da Leningrado ma anche da centri di provincia come Lvov in Ucraina. La discussione rimbalza anche sulla Literaturnaja Ga-zeta, la più prestigiosa rivista del-l’U.R.S.S. Le testimonianze pubblicate sono evidentemente filtrate dalle rispettive redazioni e recuperate il più possibile a una visione rasserenante della coppia che si può sì rompere — per questo c’è il divorzio contemplato dalla legislazione — ma in quanto è venuto a mancare qualcosa di “essenziale”, “non c’era pienezza di vita”. Sono parole improntate all’ottimismo e a un po’ di moralismo che pronuncia Vladimir Alexandrovic Barisov, scienziato-demografo, sulla Sovietskaja Kultura del 16 giugno 1978 e così conclude: «Un tempo.,, bisognava tirar fuori la donna dal suo mondo, iniettarle il gusto alle occupazioni “maschili”, al modo di vita “maschile”. Ma adesso che il lavoro femminile è diventato una norma sociale, si sente in maniera più acuta la necessità di un certo bilancio più armonico per elevare il significato dei valori femminili e familiari». Un anno dopo le testimonianze delle donne irrompono dai canali ufficiali, si coagulano nei materiali dell’almanacco Donne e Russia, un samizdat che esce il 10 dicembre 1979, giornata dei diritti dell’uomo in U.R.S.S. L’almanacco — è questa la definizione che le redattrici ne danno perché prodotto così come viene senza garantire alcuna periodicità che è invece delle riviste — raccoglie materiali eterogenei assai più ricchi e numerosi di quelli anticipati da Effe e che sono stati tradotti dalla rivista femminista francese des femmes hebdo, n. dell’I 1-18 dicembre 1979.
materiali integrali sono depositati presso l’editore Thierce a Parigi e in Italia presso le Edizioni delle donne.
gruppo editoriale Des Femmes che ha una lunga storia dentro il movimento femminista francese ha riversato in volume i testi pubblicati già sull’hebdo con l’aggiunta di interviste fatte da proprie redattrici alle donne dell’almanacco a Leningrado. L’editore Thierce sta per pubblicare l’edizione integrale dei materiali. Ma per aprire il dibattito su un terreno più proprio vorrei evidenziare alcuni elementi del samizdat che mi sembrano interessanti e tentarne una prima lettura al femminile. C’è una differenza culturale e politica tra queste donne che si dichiarano femministe e il movimento così come l’abbiamo conosciuto e vissuto noi in Italia: pragmatico, di massa, laico, intrecciato al filone marxista del ’68, che è stato superato dall’interno per così dire. Il femminismo delle donne russe si presenta come riscoperta e affermazione di valori femminili in terreni diversi: la creatività artistico letteraria, più connotata intellettualmente della nostra, la religione, il marxismo istituzionale.
Su quest’ultimo terreno si muove per sempio Tatiana Mamonova, direttrice responsabile dell’almanacco che nella sua lettera al procuratore di Leningrado difende appassionatamente le conquiste della rivoluzione e reclama l’applicazione e il rispetto delle norme costituzionali palesemente violate riguardo alle donne. Ma anche in altre testimonianze traspare l’angoscia per la rivoluzione “tradita” per ciò che è via via accaduto in Unione Sovietica dopo la morte di Lenin e continua ad accadere, troncando le speranze anche emancipatone delle donne, sempre più strette in rapporti di coppia pesanti, in cui l’uomo non è affatto il compagno bravo che capisce — sottile e insidioso come i nostri leaders sessantottini — ma l’alcoolizzato, quello che legge il giornale beatamente mentre l’altra sfaccenda dopo il lavoro “sociale”. Un gruppo di testimonianze è indiscutibilmente legato alla religione ortodossa ed è quello che ci suona più estraneo, di più difficile lettura, perché il nostro movimento con le sue lotte per il divorzio e soprattutto per l’aborto, ha avuto una forte connotazione laica e anticlericale.
Ma forse a rifletterci meglio le differenze non sono così rilevanti. Un movimento di soggetti sociali nuovi, emergenti non può che essere contro il potere, che li nega, pena la sua stessa sopravvivenza: e in Italia da trent’anni il potere è cattolico, non laico. In U.R.S.S. la chiesa ortodossa non coincide con il potere, anche se vi è compromessa: chi contesta il potere, «chi pensa diversamente da noi» come si dice con un eufemismo per indicare i dissidenti, trova nella chiesa ortodossa protezione, comprensione, strutture comunitarie di discussione. Ma c’è di più: attraverso i centri ortodossi giungono in Unione Sovietica le pubblicazioni occidentali specie in provincia, come dichiara una dissidente che vive a Parigi e che vuol restare anonima alle redattrici di Histoire d’elles, nel num. del febbraio ’80.
In provincia infatti il mercato dei samizdat è più controllato, mentre a Mosca le edizioni clandestine si vendono a migliaia di copie davanti alle librerie: qui il dissenso ha più complicità con il potere. Si può anche pensare che la dissidenza di settori sociali deboli, e le donne sono il settore più debole e emarginato in tutte le società, trova
spazi proprio nel dissenso più povero, di provincia, meno compromesso. Nell’ambito della religione le donne dell’almanacco esprimono uno specifico: la valorizzazione della figura di Maria, la vergine madre che loro rileggono in chiave junghiana in rapporto con il mito antico della creazione. Ecco questa conoscenza della psicoanalisi è il dato più occidentale che filtra dall’almanacco: in un’intervista apparsa nel volumetto di Des femmes, Marina Oulianova e Tania Sororeva, redattrici dell’almanacco, dichiarano di avere letto Freud e Jung in tedesco: «sono disponibili nelle nostre biblioteche» dicono ma precisano che il tedesco è lingua poco studiata in U.R.S.S. e che la traduzione delle opere di Freud è formalmente vietata. E Marina Oulianova aggiunge: «Le opere di Freud sono state pubblicate negli anni ’20, dopo non più. Negli anni ’60, quando io stessa ne ho letto degli estratti, vi fu un periodo di liberalizzazione. E io ho potuto leggere le edizioni in russo degli anni ’20, introvabili oggi».
Ma al di là di questo, si può cogliere un altro elemento di rapporto con il femminismo occidentale, italiano in particolare, frutto di curiosa coincidenza più che di scambio. Questo femminismo russo che manifesta anche tante ingenuità è percorso da un sottile filo comune che lega le marxiste alle ortodosse alle creative: il recupero di un’identità totale del proprio essere donna, che per le marxiste significa ricercare una saldatura con i momenti eroici della rivoluzione (i mitici anni Venti) e alcune presenze storiche femminili (la Kollontaj, Sofia Perovskaja), per le ortodosse non perdere il rapporto con parte della propria storia — che ha anche coinciso con l’identità nazionale — una storia femminilizzata da Maria; per chi fa poesia è la ripresa della parola, la creazione spesso negata dalla procreazione. Ora che in Italia il movimento femminile come tale si è frantumato ma per diventare più ricco e problematico, il recupero dell’identità è centrale nella riflessione e nella pratica delle donne; ed è questa somiglianza di ricerca in 2 situazioni per così diverse che affascina.