per una politica del movimento

«l’esperienza della lotta per l’aborto e la contraccezione è stata per noi innanzitutto materiale per l’elaborazione di contenuti sulla nostra identità di donne».

dicembre 1977

di nuovo la legge sull’aborto è oggi in discussione nelle commissioni parlamentari, dall’esterno vengono al movimento rimproveri per la mancanza di iniziativa e la scarsa disponibilità a mobilitarsi.
Di nuovo all’interno del movimento è fortissimo il disagio provocato dalla discussione in sede legislativa dell’aborto; mentre di nuovo registriamo come il confronto con le istituzioni sia sempre più necessario ma anche sempre più difficile e lacerante. Se le critiche esterne non possono che suonarci come prediche — anche perché ogni nostro critico ha una sua posizione sulla legge che pensa faremmo bene ad assumere come nostra — l’impossibilità di tradurre disagio in azione, la diffusa sensazione che il movimento è imprigionato in una situazione logorante, ci impongono di cercare di andare oltre le nostre analisi sui rapporti con le istituzioni per cogliere quali siano i processi che condizionano così profondamente i modi in cui si sviluppa o si frantuma la nostra soggettività politica. Vogliamo solo fare alcune riflessioni molto iniziali su questo tema. Innanzitutto ci chiediamo quale sia ormai il nostro rapporto con l’argomento specifico, cioè con questa questione dell’aborto. Tutti i giornali sono ormai pieni del fatto che parliamo di maternità: la nemesi è giunta, l’aborto ci ha riportate a casa. Innanzitutto, si deve ricordare che il problema della maternità come elemento di ricerca di un rapporto positivo con la propria potenzialità in termini di identità sessuale e sociale è da sempre in qualche modo un tema discusso nel movimento. Non siamo mai state abortiste e anche nel primo documento del Crac si legge che l’aborto è sempre una violenza, che il problema di fondo è dato dall’ineluttabilità di un destino; che l’obiettivo è (allora come adesso) la scelta, non la negazione. Del resto non capire questo equivale veramente a non cogliere il significato più ricco e specifico del femminismo. Il femminismo non è un dato importante soltanto perché è la nuova forma di socializzazione e organizzazione politica delle donne, e certo non avrebbe neanche potuto diventare questo, se non fosse che è la critica all’emancipazione come mascolinizzazione forzata. Il comma 22 (cioè il paradosso) della nostra situazione è che vogliamo diventare altro nel senso che vogliamo cambiare noi stesse ed il mondo per uscire dalla passività e soprattutto da un’estraneità ormai secolare rispetto al controllo dell’organizzazione sociale (le cui ragioni stesse sono messe in discussione dalle contraddizioni che lo sviluppo del sistema capitalistico produce); vogliamo diventare altro senza diventare l’altro, senza diventare come il maschio. A livello dello schema essenziale, in particolare del modello del ruolo e, quindi, del modo di essere (se è lecito fare una semplificazione così drastica), l’uomo e la donna sono uguali, nel senso che sono speculari perché la logica sulla quale vengono costruiti è identica.
L’emancipazione è (schematizzando consapevolmente) la possibilità di accedere al modo di essere dell’altra parte del binomio. In questo modo però è la negazione di sé come storia e come identità sociale ed è, quindi, impossibile non soltanto perché mancano gli asili nido e l’occupazione femminile, ma perché implica l’annullamento che è contemporaneamente malattia e distruzione.
Il femminismo è invece altra cosa, è il modo in cui le donne si organizzano per attuare la trasgressione. Il rifiuto della maternità è emancipazione nel senso della mascolinizzazione; le lotte per l’aborto, per la contraccezione non sono state emancipatone soltanto nella misura in cui il discorso si è mosso insieme a quello della sessualità, in cui il problema è stato come riappropriarsi del proprio corpo per riappropriarsi di sé, come costruire sulla lacerazione vissuta individualmente fra bisogno di determinarsi (di essere soggetto di sé) e bisogno di essere determinato (di essere oggetto dell’altro), una identità collettiva capace di uscire dall’impasse. L’esperienza della lotta per l’aborto e la contraccezione è stata per noi innanzitutto materiale per l’elaborazione di contenuti di identità. Infatti, la prima questione clamorosa dal punto di vista interno del movimento, è stata che noi, le stesse compagne che facevamo più lavoro politico sull’aborto, restavamo incinte.
Abbiamo analizzato il senso di morte, il conflitto fra l’archetipo materno portatore di vita e il modello della donna autodeterminantesi, latrice di morte; abbiamo analizzato il nostro vissuto di estraneità e potere nei confronti di «le donne» che abortivano e la nostra colpevolizzazione; abbiamo capito il malessere che essere le «emancipate della contraccezione» ci produceva. Sono tutte cose che ti portano sempre più lontana dal discutere i dettagli di una legge, sono politica nel senso migliore del termine, nel senso che sono discussione per la costruzione di un altro ordine generale delle cose, ma non sono abbastanza politica quando bisogna fare i conti con la mediazione istituzionale o quando il problema della politica è l’amministrazione dell’esistente. Dalla stessa esperienza il movimento poteva anche trarre molti altri elementi di riflessione che invece sono entrati molto poco in circolo. La lotta per l’aborto poteva anche farci riflettere sul modo di fare politica del movimento; sono state discusse diverse ipotesi, ma in fondo la discussione è rimasta sostanzialmente «elitaria». Discutiamo se e come diventare «bilingui», discutiamo se il trasformare le coscienze è già trasformazione generale dell’esistente. Qualcuna incomincia anche a ripensare ai rischi della sub-cultura, del fatto che nella sua razionalizzazione, il sistema socioeconomico e politico possa trovare un «modus vivendi» che sancisca la ghettizzazione definitiva del femminismo come degli altri ohe chiedono una diversa qualità della vita. Proprio perché dobbiamo capire che la politica del movimento, la nostra soggettività politica e la qualità delle nostre vite individuali, la costruzione di una nostra identità non sono la stessa cosa, perché capiamo che un modo accettabile di vita per noi non è mai un dato acquisito una volta per sempre (per cui non sputiamo sulla emancipazione ma ci organizziamo per andare oltre); la consapevolezza della nostra elaborazione deve rapportarsi in modo dialettico con i modelli culturali e sociali nostri e dell’altro; così il nostro essere movimento politico deve fare i conti con la politica tutta, imparando ad utilizzare momenti parziali (senza sempre illudersi sulla totalizzazione e sulle egemonie facilmente acquisite).
Nonostante la noia di dover parlare ancora di aborto dobbiamo capire che oggi la situazione è cambiata rispetto al 6 dicembre del ’15 e anche la nostra consapevolezza del significato della lotta per l’aborto è diversa. Basti dire che prima eravamo all’offensiva partendo, da un progetto politico autonomo nel senso più profondo del termine, che non concedeva spazi a possibili strumentalizzazioni e che vedeva in tutte le forze politiche una controparte. Oggi siamo sulla difensiva e ci chiedono di muoverci collateralmente ed in sostegno ad altre logiche ed esigenze della Politica. Vediamo quali sono i processi dai quali siamo investite in questa fase di discussione della legge. Il dato più evidente è la perdita di una identità autonoma di movimento che cede il passo al prevalere dei referenti politici delle diverse componenti. A ciò consegue un arretramento del dibattito, che oggi tende, nelle assemblee, a polarizzarsi nella dicotomia (artificiosa) di: legge o referendum; questa pericolosa radicalizzazione è favorita a Roma anche da dati contingenti, come la sede a Via del Governo Vecchio, dove, se non altro per ragioni di presenza fisica più continua, l’MLD tenta di porsi come forza egemone; inoltre altre cause si possono ricercare nel fatto che è ormai passato un anno di relativa stasi del confronto, della ricerca di nuovi spazi di lotta, sulla questione dell’aborto. Mai prima di oggi il movimento ha corso un così grave rischio di minoritarismo di stampo radicaleggiante. Mai si è vista una tale «separatezza» interna nel movimento, una tale incapacità progettuale su una questione pur così organica alla nostra storia, quale quella dell’aborto.
Si è visto in questi mesi l’MLD con ostinata determinazione, cercare di far pronunciare il movimento a favore del referendum tout court, questa manovra è culminata in un articolo su «la Repubblica» dei primi di novembre, in cui il MLD dichiarava che nel senso dei referendum un’assemblea del movimento si era pronunciata. Di assemblee che ne sono state e ce ne sono ancora, quasi quotidianamente, ed ogni volta viene fuori, spesso con rabbia, il disagio di una ottusa restrizione del dibattito, la volontà di partire da una progettualità di movimento.
Ogni volta che nelle assemblee si ha una presenza congrua di compagne ogni volta che si è riuscite a valicare il ghetto delle proprie «simpatie» personali, delle scelte che ad ognuna sono più affini, ogni volta che si allargava il campo e si pensava in termini più ampi, era chiara la volontà di muoversi, se e come, a partire da contenuti e temi che appartengono ormai alla nostra storia di questa lotta, al nostro modo di condurla. I temi sono gli stessi sui quali, ostinatamente, ci mobilitiamo da anni, dall’autodeterminazione, alla lotta per gli anticoncezionali, dal problema delle minorenni, all’assistenza, al controllo del medico ecc. Come non rendersi conto che il ritardo oggettivo nel dibattito (e chissà nella mobilitazione), che queste posizioni hanno creato, ha giovato e fa il gioco di chi il movimento lo vuole vedere, fermo e soprattutto spaccato su contenuti arretrati. Ma come non capire (per frenetico attivismo, per logica di organizzazione) che è proprio attraverso la capacità di non esprimersi oggi, come ieri, direttamente sul tema legge o referendum, che passa tutta la ricchezza eversiva del movimento, Saper uscire dallo schematismo proprio della logica politica più retriva è non solo nostro patrimonio storico ma nostra forza contrattuale che si manifesta nella capacità di incidere in una realtà «politica» a partire da una propria progettualità. Avere, per calcolo, per ingenuità, riportato il movimento a questo punto è il segno di quanto sia oggi, più che mai necessario costruire una propria storia di movimento, fare chiarezza su alcune questioni di contenuto essenziali, dal problema dell’autonomia, all’analisi dei referenti politici, dall’autodeterminazione al separatismo, e, sul metodo politico, dalla questione della decisionalità collettiva (del collettivo) a quella dei luoghi politici delle donne, ecc.
Data la nostra immobilità, oggi sull’aborto,’ dati per scontati i pesantissimi prezzi politici che pagheremo su questo, questa esperienza ci serve almeno a ripensare, vincere gli assemblearismi che rischiano di diventare deteriori e «deteriorizzanti» per il movimento (il Crac, nonostante i problemi di leaderismo, aveva una certa qual capacità di intervento nel politico).
Fare chiarezza anche sui rapporti con via del Governo Vecchio, che rischia oggi di divenire il ghetto decisionale non pensante del movimento, mentre i luoghi di discussione e di approfondimento si spostano altrove. Che tutto questo sia utile ad evitare in futuro sia spaccature artificiali (per generazione, per diversi referenti politici maschili) che «unitarietà» artificiose anche esse, che ci insegni a saper guardare alla realtà nel modo più articolato e complesso che oggi questo «nuovo» femminismo, che si avvia ormai ad una scadenza di anzianità quasi decennale, richiede. La necessità per noi di isolare, soprattutto all’interno del movimento le componenti che lavorano, costantemente per una radicalizzazione del dibattito, in termini tutti interni alla logica politica tradizionale, perdendo di vista il problema essenziale della costruzione del progetto di identità, portando quindi il movimento, attraverso un collateralismo di fatto alla perdita dell’autonomia, della capacità di analisi e quindi di intervento nella realtà.