l’esperienza del Griff
Nel numero di novembre abbiamo pubblicato il programma del Gruppo di Ricerca sulla Famiglia e la Condizione Femminile che opera presso l’Università di Milano. Ci è venuta voglia di saperne di più e abbiamo intervistato Giuliana Chiaretti, Franca Pizzini e Marina Piazza.
Come e quando è iniziata l’esperienza del GRIFF?
Franca: L’inizio era stato un lavoro fatto con gli studenti, e in particolare con le studentesse, nel corso dì metodologia della ricerca, tenuto da Laura Balbo. L’idea era quella di seguire una metodologia di conoscenza diversa, cioè di partire dall’esperienza di vita di queste persone, quindi donne e studentesse. Questa era stata la grossa novità che aveva aggregato delle persone attorno a Laura Balbo. Questo accadeva nel 72 ed occupò molto tempo. Poi nel 75 si fecero molti corsi di 150 ore per le donne, adottando la stessa metodologia di autoricerca e di analisi dei vissuti.
Come si è modificato nel tempo il vostro lavoro?
Franca: Pian piano l’attività si è allargata e il piccolo gruppo iniziale si è un po’ modificato e riaggregato, soprattutto dopo aver lavorato sui temi della famiglia e del lavoro. Abbiamo puntato molto l’attenzione sul lavoro della donna, considerando come un tutt’uno il lavoro casalingo e il lavoro esterno, quella che poi si è chiamata “doppia presenza”, per cui la presenza non è solo l’erogazione del lavoro per avere il salario, ma anche una presenza affettiva, emotiva, in cui la donna si mette nello stesso modo, sia nel lavoro domestico che in quello fuori.
Giuliana: Il tentativo è stato quello di cogliere la qualità del rapporto, determinato storicamente, tra il welfare state, il capitalismo assistenziale, e il lavoro della donna. E proprio perché fin dall’inizio c’era questo taglio di ricerca, si è poi arrivate ad analizzare il lavoro complessivo della donna. La ricerca di un rapporto con il capitalismo assistenziale portava inevitabilmente a sottolineare tutti gli aspetti del lavoro di riproduzione che la donna fa, sia con il lavoro professionale che con quello familiare. E c’è un nesso tra i temi del nostro lavoro e il fatto che il GRIFF nasce da un’esperienza didattica fondata sull’autoricerca in un’epoca di femminismo, di movimento dei lavoratori in ascesa e di movimento studentesco ancora esistente. In questo decennio si è sedimentato il femminismo, si è sedimentato il movimento dei lavoratori e il movimento studentesco. Quindi il discorso sul nostro lavoro di oggi si ridefinisce anche in rapporto a queste tre grosse variabili, che nella nostra formazione di ricercatrici ci sono e pesano molto. Direi però che ancora, nell’ambito della formazione permanente, si trovano possibilità di lavoro abbastanza simili a quelle passate, anche se le 150 ore sono ormai rientrate e rifluite.
Con che ruolo avete partecipato all’esperienza della formazione permanente?
Giuliana: Di ricercatrici universitarie chiamate nei corsi di 150 ore. Questo ruolo specializzato e professionale ha sempre caratterizzato il GRIFF. Non ci siamo mai poste come gruppo politico, c’era sempre l’ambito del lavoro di ricerca, del lavoro universitario, che andava anche all’esterno, ma partendo da una collocazione specifica.
Marina: La cosa interessante è che però il GRIFF veniva riattraversato di rimbalzo dalle tematiche che incontrava fuori. Perché se è vero che siamo delle ricercatrici, siamo anche molto attraversate da questa cosa che è il femminismo, per cui rappresentiamo un’immagine che è sempre in bilico tra la ricerca e la partecipazione “politica”.
Chi sono le donne che vengono al GRIFF?
Franca: Ci sono studentesse, lavoratrici delle 150 ore, ma anche assistenti sociali, lavoratrici dei servizi, richiamate da tematiche che le interessano, e poi naturalmente singole donne, interessate ad un argomento particolare.
Fino al ’75-76 hanno avuto molto peso le 150 ore donne. Poi cosa è successo?
Franca: In quegli anni io mi stavo occupando della famiglia dal punto di vista delle relazioni interne. Ho fatto due seminari, il primo nel 77-78-e il secondo l’anno dopo. I temi erano la famiglia e il rapporto tra le donne e il disturbo psichico. Questo lavoro lo facevo sia in facoltà che con le donne di un consultorio pubblico. Con loro, poi, è venuta fuori la tematica del parto, che è stata al centro del lavoro degli ultimi due anni.
Marina: Il mio rapporto con il GRIFF è iniziato con la redazione del libro “Interferenze”, mi sembra che fosse il 78. Il lavoro del GRIFF quell’anno fu fatto con conferenze e dibattiti su alcuni Paesi. L’ipotesi era di indagare su varie realtà, molto diverse tra loro: Germania Orientale, Germania Federale, Unione Sovietica, Cina e Gran Bretagna, con l’idea che nelle varie situazioni il lavoro della donna è sempre un lavoro di supporto del sistema. Abbiamo analizzato le interferenze tra vita familiare e vita privata di ogni donna nei vari sistemi. E’ venuto fuori il grosso discorso- della-trasformazione. deL lavoro familiare, che non chiamiamo più domestico, perché comporta nuove qualità come per esempio l’intellettualizzazione. Oggi una donna, magari ha la lavatrice ed altri strumenti, però deve fare le code all’INAM, all’BMPAS, deve iscrivere, deve seguire i figli a scuola: tutta una rete di relazioni e di rapporti sociali che deve essere in grado di gestire. Quindi da una parte c’è l’intellettualizzazione, il lavoro di rapporto, dall’altra il lavoro domestico vero e proprio e la gestione dei consumi della casa. Rispetto a queste cose abbiamo analizzato le differenze che ci sono nei diversi sistemi, ma anche le sostanziali identità.
Giuliana: Poi nel 78-79 si sono aperti degli spazi a persone, e quindi tematiche, che venivano dal di fuori. Nel senso che non bisognava necessariamente far parte del gruppo GRIFF per poter utilizzare questo spazio. C’è stato un seminario, tenuto da Giulia Alberti sull’immagine della donna nel cinema, che è andato avanti per due anni, e un altro gruppo, tenuto da Annamaria Astrup, una socioanalista, sul tema delle “singles”, sulle esperienze di vita di persone sole. Il taglio era psicologico, non genericamente ma a partire dalle dinamiche di gruppo tra le partecipanti e dalle loro esperienze di solitudine. E’ andato avanti per due anni. Importante anche il seminario di Laura Grasso sul rapporto madre-figlia, che è durato due anni.
Marina: L’ultima tematica su cui abbiamo lavorato è stata quella dell’intellettualità femminile, sempre molto intrecciata con il problema del lavoro e della doppia presenza. Abbiamo sentito l’esigenza di interrogarci, non solo qui a Milano nel gruppo del GRIFF ma anche con donne che lavorano in altre città, sulla figura della donna intellettuale, che ha fatto un percorso di emancipazione, negando o contrapponendosi al modello della madre, al modello “femminile” e che poi ha dovuto in un certo senso fare i conti con il modello di emancipazione, e che adesso rischia quasi di proporsi come nuovo genere di donna femminista-intellettuale. E’ stato un lavoro grosso e coinvolgente, un’analisi autobiografica del peso che comporta il lavoro intellettuale, delle fatiche che si intrecciano per tenere in piedi queste molteplici presenze; ma anche di come il femminismo ha interagito con la nostra conoscenza, come si è contrapposto ai vecchi paradigmi, se ne ha creati di nuovi, come si è integrato e come ha modificato.
Questo lavoro ha portato ad un prodotto?
Giuliana: Sì, ci abbiamo lavorato l’anno scorso e adesso è uscito un testo che si chiama: «Doppia presenza, lavoro intellettuale e lavoro per sé». E’ il primo di una serie di quaderni che abbiamo deciso di pubblicare in quanto GRIFF; le autrici però sono anche donne esterne al gruppo, poiché si tratta di un lavoro fatto a livello nazionale. Il GRIFF ha funzionato come momento di coordinamento, scambio e informazione per una serie di donne che lavorano soprattutto nell’università. In questi ultimi cinque anni abbiamo fatto diverse riunioni nazionali, all’inizio su temi non definiti, a ruota libera. E’ una specie di coordinamento che è nato da amicizie che si intrecciavano con i ruoli professionali, c’è sempre stato questo doppio piano: un po’ la voglia di rivedersi e un po’ quella di dirsi cosa si stava facendo, di comunicarsi i temi di ricerca. Poi l’interesse si è coagulato intorno al tema dell’intellettualità. Una volta ci siamo viste e abbiamo affrontato questo problema, la cosa ha trovato molta risonanza, tanto che abbiamo continuato a lavorarci per tre anni.
E gli altri quaderni GRIFF di cosa tratteranno?
Giuliana: Il secondo sarà sulla condizione della nascita; il terzo è una ricerca sul lavoro femminile, poi ce n’è uno sul lavoro di servizio e forse un quinto sui cosiddetti women studies, che si riferisce ad un ciclostilato già esistente.
II rapporto con l’istituzione facilita o rallenta il vostro lavoro? Avete una situazione paritaria all’interno dell’università?
Franca: C’è un problema che va detto subito rispetto all’università: varie persone che erano nel GRIFF, con ruoli diversi ma istituzionali, con la legge dell’anno scorso sono state tagliate fuori. Questo ha determinato un certo sbandamento all’interno, perché la nostra aggregazione può avvenire più sull’interesse che sull’oggettività dei ruoli.
Giuliana: Delle verifiche concrete di ghettizzazione non ci sono state, anzi l’istituzione ci ha accettate, perché la stanza e le altre cose che abbiamo, anche se possono sembrare cose minimali, testimoniano comunque un riconoscimento.
Si può dire che la vostra base ideologica sia il femminismo?
Giuliana: Direi che il GRIFF vive
più dentro al movimento delle donne, che è un fenomeno più ampio e che non ha le stesse caratteristiche del femminismo, ha altri tipi di comportamento, difficilmente catalogabili. Le donne che vengono qui sono sempre donne alla ricerca di una risposta a problemi nuovi rispetto alla loro condizione attuale o anche a quella più tradizionale delle donne e di questi problemi nuovi si discute. ET in questo senso che riusciamo a tenere un collegamento tra ricerca e didattica, perché le nostre utenti ci pongono gli stessi problemi su cui stiamo ricercando, c’è un’identità di ricerca. E poi c’è l’ipotesi di lavorare su un certo tipo di esperienza del movimento delle donne, sul silenzio…
E cioè?
Marina: Cioè di non testimoniare soltanto la punta dell’iceberg, la voce che parla, il femminismo, ma di testimoniare anche da sotto, del silenzio delle donne che al volantino non ci arrivano e che pure si confrontano con la doppia presenza, con la difficoltà di affrontare il quotidiano.
Franca: Le donne si confrontano con tutta una serie di esperienze obbligate, che vanno dal lavoro sia con significato emancipatorio che non, al rapporto madre-figlia, fino a quello con la medicina, con il parto, con la ginecologia. Sono dei “luoghi obbligati” da cui, femminista, non femminista, sotto l’iceberg, di fianco o fuori, devi comunque passare. Le reazioni delle donne a questi luoghi obbligati sono diverse, non tutte le esperienze sono uguali e allora sono da vedere le differenze, però con la certezza che non è la coscienza che cambia l’obbligo, l’obbligo c’è dopo di che si può vedere di giostrarsi più o meno bene. La spinta è ad analizzare ciò che non è mai stato detto, quello che non è mai stato osservato.
Esiste secondo voi una cultura al femminile?
Franca: Sulla cultura al femminile ci stiamo chiedendo molte cose e molte non ce le siamo neanche chieste, non le abbiamo approfondite. Io ho l’impressione che il luogo delle donne, a partire dalla realtà del luogo obbligato, vada tutto costruito. Cioè che il “parlare donna”, quindi una possibilità di cultura che non sia dentro al discorso tutto maschile, ha delle possibilità di cominciare ad intravvedersi.
Giuliana: Se al termine cultura si dà un’accezione non soltanto di presenza politica ma anche di presenza nel simbolico, che senso ha parlare di cultura al femminile se io non rappresento la storia? Allora devo fare una storia di tutto l’universo, del silenzio, capire che tipo di cultura è quella del silenzio. E già il discorso si complica molto. iPenso che la dizione “cultura al femminile” sia molto segnata. Per esempio DWF adesso esce come “Donne e conoscenza” e mi sembra molto diverso…
Marina: Credo che in questo momento storico si cerchi di cogliere l’intreccio tra il pensarsi e il pensare e non a caso nascono riviste, centri di documentazione, ecc., e tutte le nuove presentazioni programmatiche ti dicono: «non vogliamo essere totalizzanti vogliarmo solo essere parziali, rispondiamo solo a dei nostri bisogni». C’è un grosso tentativo di capire che rapporto esiste tra le donne e la conoscenza.
Il vostro lavoro presuppone non solo la lezione preparata e raccontata, ma una serie di cose in più, una partecipazione un po’ più complessiva. Come funziona, in relazione a questo, la gestione della vostra vita quotidiana?
Franca: Se penso a come potrebbe stare una come me e a come è stata in altre università, ringrazio il cielo che ci sia il GRIFF. Abbiamo libertà di movimento e in altre situazioni questo non è possibile.
Giuliana: Non va male. Non siamo del tutto schizofreniche perché certi nodi che qui emergono a livello dì ricerca, come tentativi di razionalizzazione, ci sono anche all’esterno, li rintraccio tutti nella mia vita quotidiana; in questo senso direi che non c’è una frattura.
Franca: Per me la riflessione intellettuale entra molto nella vita ‘quotidiana, non è che chiudo qui, anche fuori, con un’altra situazione e in un modo diverso, mi ritrovo a pensare le stesse cose. Non è detto però che questo sia del tutto positivo, perché è come dilatare il lavoro senza fine o dilatare la vita privata senza fine, perché non hai mai le due cose bene divise.
Giuliana: Penso che paradossalmente una maggiore frizione, anche se non continua, ci sia tra il lavoro intellettuale e il lavoro per sé, tra la necessità di confrontarsi con questo che è un luogo di lavoro, che risponde ad esigenze di rapporti umani e di ricerca intellettuale, ma che pone contemporaneamente la necessità di gestire un ruolo professionale.
Marina: Credo che il nodo sia proprio il lavoro intellettuale e la sua qualità di dilatarsi all’infinito, per cui non riesci mai a chiudere la porta, e a un certo punto della vita ti rendi conto che hai sempre pensato senza mai pensarti. Lavorando nel seminario mi sono resa conto come mi lascio mangiare da questo lavoro intellettuale, che poi non è neanche più intellettuale, perché diventa divorante e non lascia spazio per le riflessioni su di te, su come stai gestendo certe cose, su come trascorre la tua esistenza. Dietro al lavoro intellettuale c’è la conflittualità tra il momento della prestazione e quello dell’auto-riflessione, dell’autoricerca e della conoscenza.
Franca: Sono caratteristiche proprie del lavoro intellettuale e riguardano anche gli uomini. In alcune situazioni gli uomini sono più capaci di chiudere e di professionalizzare, ma in altre anche loro sono meno capaci di separare.
Marina: Secondo me questa specie di furiosa mania di voler mettere insieme progetto intellettuale e progetto di vita è abbastanza tipica della donna rispetto all’uomo…
Giuliana: Ma in realtà questa specie di furiosa mania, come la chiami tu, noi l’abbiamo dovuta recuperare, perché ci siamo rese conto che per alcune o in alcuni momenti, c’era una separazione fin troppo netta…
Marina: Non lo dico in negativo, però è una furiosa mania che ti mangia. Io non potrei mai, e se l’ho fatto ci sono stata male, chiudere, dirmi: adesso scrivo queste cose *. poi me ne vado da un’altra parte. C’è sempre il bisogno di essere intera, c’è un archetipo di totalità dentro di noi, anche se poi lo rompiamo e vogliamo la parzialità.
Quali sono i vostri progetti per quest’anno?
Marina: In questo momento abbiamo più voglia e più bisogno di fare una ricerca per conto nostro. Stiamo mettendo in piedi un corso di auto-formazione, con la volontà di andare più in profondità su alcune tematiche che stiamo elaborando.
Giuliana: Il corso interno di auto-formazione intendiamo farlo sulla tematica del lavoro, che è sempre stata centrale nel GRIFF. Pensiamo di organizzare, nella seconda metà dell’anno accademico, quattro o cinque interventi su questo tema, sul genere della conferenza più che del seminario.