libertà per Alaide Foppa
La pubblicazione in questa pagina di un articolo di Alaide Foppa “Quello che scrivono le donne” apparso su Fem n. 10 vuole essere un atto di solidarietà contro la violenza di cui la scrittrice guatemalteca è stata vittima.
Molti testimoni hanno assistito il 19 dicembre scorso al suo rapimento in Guatemala; hanno visto la sua macchina circondata, hanno visto Alaide trascinata via. Il governo guatemalteco si è limitato a “deplorare”, senza rispondere agli appelli lanciati dai parenti, dal Presidente del Messico, da “Amnesty International”, dai comitati sorti in Messico, in Francia e altrove per salvare Alaide. In Italia molti giornali democratici e il GR1 hanno denunciato questo rapimento; il Comitato italiano di solidarietà con le famiglie dei prigionieri politici e degli scomparsi in America Latina sta raccogliendo adesioni per un appello alla Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Ma ancora, a più di un mese di distanza, si ignora la sorte di Alaide.
Il Guatemala offre un quadro di violenza sistematica contro tutti i movimenti democratici e rivoluzionari, che appare tragicamente simile a quello, più conosciuto e documentato, del Salvador e di altri Paesi latino-americani. Negli ultimi anni il numero degli “scomparsi” è andato sempre crescendo e ormai spariscono dalle 20 alle 30 persone al giorno. Alaide è stata l’ennesima vittima di un regime che dà carta bianca alle più spietate formazioni di estrema destra.
Eppure Alaide non è iscrìtta a nessun partito, aon svolge -attività rivoluzionaria. E’ stata per lunghi anni innanzi tutto una poetessa, come testimoniano le sue traduzioni, le sue raccolte di liriche: “Poesias” del 1945, “Aunque es de noche” che ottenne un premio di poesia nel 1954, “La sin ventura” nel 1955 e infine “Los dedos de mi mano” del 1958, dedicato ai suoi cinque figli. Si tratta di poesie assai belle, in cui si può forse trovare l’eco della poesia italiana moderna (di Ungaretti specialmente) e dei mistici spagnoli; ma è certamente una poesia originale, frutto di un’esperienza unica, assai ricca e varia: la vita l’ha portata da un Paese all’altro. Alaide è nata a Barcellona da padre argentino, giornalista e scrittore di teatro e da madre guatemalteca. Dopo qualche anno in Argentina, Alaide trascorse in Italia l’adolescenza e la giovinezza: a Roma terminò gli studi universitari dedicati soprattutto alle letterature straniere e alla storia dell’arte italiana, che sono rimasti elementi basilari della sua raffinatissima cultura.
Lasciò l’Italia nel 1942 e dopo un periodo trascorso in Spagna, a Cadice, raggiunse il Guatemala, il paese della madre, dove Alaide ritrovava le sue radici più profonde. Era il tempo in cui il Guatemala usciva dalla lunga dittatura di Ubico e sembrava avviarsi, sia pure faticosamente e con gravi contraddizioni, verso un’evoluzione democratica. Il contatto con i problemi reali e scottanti di un Paese povero e sfruttato determinò una svolta negli interessi di Alaide, così umana e ricca di pietà: si dedicò all’alfabetizzazione, ai problemi dell’infanzia e delle donne. Nel 1945 sposò Alfonso Solorzano, fondatore dell’Istituto Gautemalteco della Sicurezza Sociale, e con lui, dopo qualche anno all’Avana e a Parigi, ritornò in Guatemala e vi rimase fino al 1954, anno in cui si trasferì in Messico con i figli per seguire il marito, che aveva dovuto abbandonare il Paese per la caduta del governo di Arbenz Gusmàn, di cui era stato collaboratore.
In Messico Alaide ha continuato la sua attività come insegnante all’Università autonoma del Messico (UNAM), come responsabile di un programma per la donna a Radio Universitaria e come condirettrice della rivista Fem. Nel 1975, in occasione dell’anno internazionale della donna a Città del Messico, è stato pubblicato un suo saggio intitolato “Feminismo y liberación”; recentemente infine ha pubblicato un libro sul pittore José Ruiz Cuevas. Qualche mese fa Alaide ha perduto, in un incidente stradale rimasto senza spiegazioni, il marito; precedentemente aveva perduto il più giovane dei suoi figli, forse assassinato in Guatemala. Priva di notizie di altri due dei suoi figli, il 18 dicembre scorso, si è recata in Guatemala consapevole dei rischi a cui andava incontro, per portar via — a quanto si dice — da quel paese così pericoloso, una nipotina di pochi mesi.
E’ atroce pensare quali saranno state le sue sofferenze, è difficile credere nella sua salvezza; solo si può sperare che questa donna straordinaria, che tante vicende ha superato con coraggio e con fede, riesca ad uscirne e sia restituita a tutti quelli che l’apprezzano e le vogliono bene.
Nel corso degli ultimi quindici anni, le donne hanno scritto più che in tutta la storia dell’umanità. Hanno pubblicato molti libri, ma hanno anche fondato un gran numero di riviste scritte da donne (alcune di breve durata, ma molte ancora viventi da 4, 5, 6 anni), e sono state più presenti che mai nel giornalismo quotidiano; il personaggio della reporter è diventato frequente e la carriera di Scienze di Comunicazioni è tra quelle maggiormente scelte dalle donne. Non è un fatto casuale, dato che si verifica parallelamente il crescente accesso delle donne agli studi — in particolare agli studi superiori — e la sua maggiore influenza in tutti i campi della vita sociale; però, poiché la parola è il mezzo per eccellenza per “esprimersi”, vale la pena di vedere ciò che le donne esprimono in questo campo. Siamo ancora lontane dalla famosa uguaglianza (non abbiamo bisogno di dire in che cosa e con ohi), ma se in qualcosa si nota il cambiamento è del fatto che la donna che -scrive è vista ogni giorno meno come un’eccezione. Da ciò non è più abitudine dire in suo elogio che una buona giornalista “scrive come un uomo”.
D’altra parte, per la scarsa partecipazione della donna agli affari del mondo, è proprio attraverso la scrittura che alcune cominciarono ad esprimersi da epoche lontane. Quella famosa “stanza tutta per sé” della quale parla Virginia Woolf -— condizione indispensabile per scrivere, negata all’immaginaria sorella di Shakespeare — la ebbero alcune privilegiate da prima del Rinascimento {e penso che anche Saffo l’aveva quando piangeva la sua solitudine); e il privilegio, vincolato ad una educazione eccezionale, offrì la maniera di riempire ozii aristocratici senza uscire dal nucleo domestico.
Le prime cose che scrissero le donne furono poemi d’amore e soprattutto poemi di solitudine e di nostalgia. Quella stanza tutta per sé, senza avere con chi dividerla, neanche la sentirono come un privilegio le poetesse dolenti: Marie de France, Beatrice de Die, piangono assenze, come le piangerà, due secoli più tardi, Cristina Pisano, e un po’ dopo la sfortunata Maria Stuarda, che scrisse in francese secondo i modelli di Ronsard e Du Bellay. Anche le italiane del Rinascimento scrissero poesie amorose e dolenti: Gaspara Stampa sogna con quella “notte più chiara del più chiaro giorno” vissuta con l’amato, e la severa Vittoria Colonna non smette di agognare il marchese che la lasciò vedova, sorda al platonico amore di Michelangelo. E’ un’eccezione tra le poetesse aristocratiche. Margherita, regina di Navarra e sorella di Francesco I di Francia, che non si limitò alla poesia amorosa, ma scrisse anche un libro di racconti ispirati dal modello di Boccaccio, il Decamerone {pubblicato recentemente anche in spagnolo), una commedia e varie opere di carattere religioso che, in quella prima metà del secolo XVI quando c’era la drammatica contrapposizione tra cattolicesimo e riforma, parlano di Uberi sentimenti religiosi. Non farò, ovviamente, “una galleria di scrittrici celebri attraverso i secoli”; solo desidero, nel ricordare qualche nome, segnalare perché scrivono quelle donne, perché quelle e non altre, e che cosa scrivono. La più immediata ed ovvia spiegazione alla prima sarebbe: scrivevano perché sapevano scrivere. Chi era in condizioni di scrivere alla fine del Medio Evo e durante il Rinascimento non era che il venti per cento delle donne (l’analfabetismo c’era anche tra gli uomini ma in misura molto minore). La formazione scientifica, filosofica, umanista, era, naturalmente, ancora più limitata; di modo che le poche che scrivevano e volevano dire qualcosa, erano le sue pene e i suoi abbandoni che potevano esprimere.
In ambienti aristocratici e chiusi incominciarono a scrivere anche le francesi del colto secolo XVII. E non è già poesia; e per lo meno, non solo poesia: molte lettere, pulite, eleganti, ingegnose, piene di succosi pettegolezzi e di tenere effusioni, come-quelle di Madame de Sévigné. (Daltronde, il genere epistolare sembra convenire specialmente alle donne, che salgono essere più immediate ed agili, meno convenzionali degli uomini nel dialogo scritto). E le donne scrivono anche lunghe novelle sentimentali e avventurose: quelle di Mademoiselle de Scudéry, per esempio (Clelia, scritta tra il 1656 e il 1660, comprende dieci tomi) in quel contesto mondano intellettuale che vive intorno alle “preziose”, le pedanti, le sapute, tanto acutamente criticate da Molière, non senza ingiustizia. Ciò che sembrava ridicolo al grande commediografo — e in qualche modo lo era — non era che il risveglio di un gruppo di donne che preferivano le lettere ai lavori domestici e avevano il coraggio di considerare il matrimonio come qualcosa di molto noioso e prosaico a paragone con le avventure letterarie. -La vita di salotto, incentrata sulla conversazione brillante, ingegnosa, intelligente e alimentata dalla presenza di donne che hanno queste qualità, nasce all’Hotel de Rambouillet e il suo eco giunge sino all’opera di Proust. Sottolineo che le donne scrivono, leggono, conversano spiritualmente, con maggior o minor ingegno, solo nei ceti privilegiati, e pertanto nelle società maggiormente sviluppate. Che qualcuna scriva singolarmente bene non cessa d’ essere un mistero, se si tratti di donne o di uomini.
Suor Juana, nel Messico coloniale e barocco, conferma la regola di una stanza tutta per sé, che nel suo caso fu più isolata di altre, ma meno suo: la cella. E nello stesso periodo non c’è in Spagna donna che possa compararsi a lei. Anche se basta alla Spagna avere avuto un secolo prima Teresa d’Avila. Il confronto fra le due suore mette in evidenza più differenze che somiglianze (Suor Jana così colta e… e Santa Teresa così immediata e ispirata); le unisce, invece, un elemento comune: tutt’e due dovettero lottare contro la burocrazia ecclesiastica. D’altronde, esse, come suore, si integrano anche al coro delle solitarie che cantano per amore.
Cosa succede nella nostra America spagnola dopo Suor Juana? Abbiamo, certamente, poetesse romantiche: alcune conosciute e riconosciute; molte anonime. La poesia, nel secolo XIX, è per le donne — come la pittura e l’acquarello e i fiori ricamati e “petit point”
— un amabile intrattenimento e uno sfogo permesso. Anche sono poetesse le prime donne che si mettono in evidenza nel nostro secolo: Delmira Agustini, Alfonsina Storni, Juana de Ibarbourou, Gabriela Mistral… (E’, tra loro, la prima donna che riceve un premio Nobel). Donne, segnate, in maggiore o minore misura per la solitudine; e in un caso
— Alfonsina Storni — per il suicidio; in altre — Delmira Agustini — per essere vittima di un omicidio passionale (il marito si suicidò dopo averla uccisa).
Romanticismo tardivo portato sino alle ultime conseguenze.
Sto facendo riferimento alla storia — e storie — solamente di ieri: Juana de Ibarbouru, è appena morta, e le altre, potevano vivere ancora gli ultimi anni di una lunga vita, se la propria non fosse stata così intensamente breve e mutilata. Quello che risulta evidente e che tra questo ieri così prossimo e l’oggi che è incominciato appena quindici anni fa, il cambiamento è radicale. Troppo presto ancora per fare il bilancio di quello che hanno scritto le donne, ovunque, in questo breve periodo; la critica o la semplice rassegna di novelle, poesie, saggi sociologici e antropologici, critiche letterarie, reportages che hanno scritto le donne riempirebbero parecchi libri. Ma, indipendentemente dalla quantità, forse è più importante segnalare qualcosa di nuovo: per la prima volta, le donne parlano di se stesse non soltanto per piangere solitudini e abbandoni, non soltanto per lamentare le ingiustizie sofferte (nel passato e nel presente), non soltanto per analizzare le leggi, i costumi, i pregiudizi vigenti nel mondo degli uomini, se non per affermarsi, per valorizzarsi in quanto donne. Mai più: “siamo uguali, vogliamo essere uguali” se non: “siamo diverse e ci piace essere diverse”. E non soltanto si rifiuta il supposto elogio di “scrivere come un uomo”, ma si pretende “scrivere come donna”.
Su tutta la gamma di uguaglianze e differenze, molto si è detto e forse manca ancora molto da dire. Precisamente il tema della scrittura femminile come tale è uno dei più discussi attualmente (di questo si parla in questo numero, rispetto a scrittrici francesi e italiane). E anche si è parlato di un’arte femminile, di una pittura femminista, etc. Rivendicazione del femminile che, come quasi tutte le rivendicazioni può portare ad eccessi, ma che ha le sue ragioni. Credo che il pensiero e la creatività artistica siano attitudini essenzialmente umane, che non ammettono la differenziazione del sesso. Ma questo non esclude che la donna, come qualcuno che viene da un altro continente — quello della oscurità e della dimenticanza — possa avere qualcosa da dire.
Molti pensano anche che le donne già stanno dicendo troppo, o scrivendo, o parlando troppo. E’ un vecchio rimprovero, tra l’altro, che si applicava agli innocui “chiacchiere di donne”, ma che in questi ultimi anni potrebbe anche essere giustificato… Deve intendersi, invece, che è spiegabile il desiderio di parlare, e anche l’eccesso delle parole, in chi ha mantenuto — salvo brevi intermittenze — un silenzio millenario.
(Da FEM – Publicación feminista tri-mestral – Voi. Ili – N. 10)
Alaide Foppa traduzione dì Maria Stella Conte