Ronald Reagan: la politica del macho
L’eroe virile, il macho, che promette agli americani il ritorno ai sogni di gloria, che cosa promette alle donne?
Ronald Reagan è famoso per la sua sbadataggine. Durante la campagna elettorale egli teneva sempre in tasca dei foglietti con su scritte le risposte alle domande insidiose dei giornalisti, perciò, subito dopo la sua elezione, circolava questa barzelletta:
Giornalista: “Quale sarà la sua politica sugli accordi SALT?”.
Reagan: “Soltanto quelli già nati sono a favore dell’aborto”.
Ma questo errore di foglietto è davvero un nonsenso? Oppure non esiste un nesso tra la politica estera macho (1) e la politica che riguarda la condizione della donna?
Per una risposta ascoltiamo una donna: Phyllis Schlafly, portavoce del Movimento per la Vita americana. La Schlafly, all’indomani della vittoria di Reagan ha affermato: “E’ la più grande vittoria che una donna potrebbe-mai sperare”. Per quanto riguarda la sua politica nucleare, ha aggiunto, «Dio ha dato a questo Paese — e non alla Russia o ad altri — le armi nucleari”. Per Gloria Steinem, invece, questa vittoria è stata “tragica… Ricaccia indietro i diritti della donna di almeno 25 anni”.
Non so se la Schlafly ha ragione nel riferirci le intenzioni di Dio in merito alle armi nucleari, ma ho l’impressione che della donna americana oggi, la Schlafly capisce di più ohe Gloria Steinem, ahimé! Perché non è Ronald Reagan a mandare indietro i diritti della donna: è la donna stessa. Le donne hanno sostenuto Reagan, lo hanno votato, e ora masticano i patetici jelly beans (quella delizia dei bimbi americani che egli predilige) in sintonia con lui. Ronald Reagan non è — o non lo è ancora — la causa della crisi del femminismo in America. Ma ne è il risultato e il simbolo.
Ronald Reagan non ha mai nascosto alla donna le sue idee su di loro. Durante la sua campagna elettorale Reagan si è espresso contro il proposto emendamento alla Costituzione che creerebbe una parità legale tra i sessi e vieterebbe ogni discriminazione basata sul sesso, tra l’altro per gli stipendi. Per lo stesso lavoro, oggi è pagata una retribuzione diversa per uomo e donna. Questa proposta, che va sotto la sigla ERA (Equal Right Amendment), era invece sostenuta da Carter.
Mentre Carter si era schierato a favore dell’aborto, Reagan si è pronunciato a favore di un emendamento costituzionale che lo vieterebbe. Ha inoltre sostenuto che per la scelta dei giudici, la posizione dei candidati sull’ aborto sarebbe il test qualificante per ottenere la nomina. E la piattaforma ufficiale del Partito Repubblicano specifica che i cittadini che pagano le tasse vanno protetti dal dovere sborsare soldi per pagare gli aborti ai poveri.
Il documento repubblicano è inoltre singolare per il suo capitolo dove tratta, non senza un tono commosso, che sarebbe piaciuto a Dickens, della famiglia. “La famiglia”, dice, “è il fondamento del nostro ordine sociale. E’ la scuola della democrazia… Il Partito democratico ha messo in disparte la famiglia, regalando il suo potere alla burocrazia, alle corti, ai garanti del governo… Un governo può essere forte abbastanza per distruggere le famiglie, ma non le può rimpiazzare… Ogni politica interna va considerata tenendo la famiglia al centro”.
La piattaforma repubblicana ci offre un ritratto della donna americana ideale degli Anni Ottanta. “Le donne sono quelle che sanno meglio di chiunque altro che in America la qualità della vita è in declino oggigiorno. Le donne capiscono più profondamente le questioni domestiche, del consumatore e dell’economia perché sono solite dirigere ed avere la responsabilità della casa”. Una donna seria, preoccupata perché al supermercato si paga troppo. Questa donna americana media, con tutto quel peso della casa e dei marmocchi sulle spalle — certo, ogni tanto il marito dà una mano — è lei, Lei, “la regina della casa”, che conquista la sua uguaglianza all’interno della sua cucina, che sa bene che bisogna fare delle economie. Perciò, quando il Presidente parla di come vuole eliminare gli sprechi, fra cui i programmi di assistenza alle madri nere, disoccupate, e non sposate, Lei, lo capisce!
“Protestiamo”, dicono i ‘Repubblicani, “contro l’intrusione della Corte Suprema all’interno della struttura della famiglia attraverso la negazione degli obblighi e dei diritti dei genitori di guidare i loro bambini minorenni”. Tradotto, ciò vuole dire: “Smettiamola di finanziare programmi speciali per bambini neri, il trasporto di bambini bianchi in scuole dove ci sono i neri”!
Data questa visione trasognata di un’ America idillica, fatta di bravi pater-familias democraticissimi circondati da Stepford Wives e bravi bimbi bianchi, ciò che stupisce è che la “questione donna” non ha mai avuto un ruolo importante durante la campagna elettorale, né lo ha oggi con l’insediamento di «Reagan. Delle posizioni di Reagan, si prendeva atto, e basta. Non si è data battaglia: nemmeno l’aborto è stato sufficientemente importante da sollecitare una mobilitazione che avrebbe potuto creare mi blocco delle donne contro Reagan. Visibilmente, la donna, come protagonista, sta di nuovo scomparendo dalla scena americana, ed il movimento delle donne negli USA è in crisi al di fuori delle grandi città.
Se le donne hanno votato Reagan, è stato per tre motivi primari: primo, perché il movimento femminista non è riuscito a creare un legame duraturo con le donne nei vasti strati del ceto medio e medio-basso; secondo, perché l’inflazione (18%) e la disoccupazione (quasi 8%) crescente hanno avuto il sopravvento su ogni altra questione, cosicché le donne hanno preferito una politica economica conservatrice piuttosto che una politica specificamente femminista; e, terzo, le donne si sono dimostrate suscettibili alle parole di spauracchio di Reagan, che parlava delle inadeguate difese americane di fronte ai sovietici.
In un’inchiesta speciale su questo riflusso della donna americana il New York Times ha scritto il 28 dicembre 1980: “In un periodo nel quale le giovani donne godono di opportunità di lavoro e di possibilità per farsi avanti, molte di loro all’università sembrano mettere in questione i valori del femminismo che hanno segnato l’epoca precedente. Si domandano se avere una carriera è veramente più importante che avere dei bambini e curarli di persona”.
Ed il giornale cita una giovane laureanda che ha dichiarato: “Se non posso dare il 100% del mio tempo ai miei bambini, preferisco non essere madre affatto”. “La differenza” nota il giornale “è che queste giovani sanno di poter scegliere: dieci anni fa non pensavano di avere nessuna scelta, e questo è comunque un progresso”. In un sondaggio di 3.000 studenti in sei colleges americani, il 77% delle donne intervistate ha affermato che le donne dovrebbero o restare a casa o lavorare soltanto pari time se hanno bambini piccoli.
Ai giornalisti del Times una serie di giovani (18-22 anni) universitarie intervistate ha confessato che il motivo principale del loro rifiuto di ima carriera è l’alto numero di donne di successo non sposate. “Sembra chiaro”, scrive il Times, “che molto del fermento femminista all’interno delle università un decennio fa è diminuito”.
Ma inoltre alcune giovani si sono rivelate spaventate dalle “superdonne” che hanno carriera, marito, bambini. Per la nuova generazione, questo sembra un onere troppo pesante. La stessa pressione posta su di loro dal femminismo, ha creato enormi “contraddizioni” perché non sanno come raggiungere una méta così difficile. “L’ultimo simbolo di status”, mi ha detto amaramente una femminista a New York quest’autunno, “sai qual è? Una moglie che guadagna più di 40300 dollari”.
L’ondata di reazione negli USA non si ferma alle questioni della donna. Per la prima volta dagli Anni Cinquanta si riparla di censura. Un gruppo di genitori della Florida, che si chiama ”Salvate i Nostri Bimbi”, ha appena proposto che le biblioteche pubbliche eliminino i lavori di presunte omosessuali quali Emily Dickinson (!), Virginia Woolf e Willa Cather. In California i neo-nazisti mantengono apertamente dei campi di addestramento paramilitare; questo dicembre nell’Alabama, nella parata annuale natalizia è sfilato anche il carro del Ku Klux Klan, organizzazione notoria per l’usanza di bruciare una croce davanti alla casa dei simpatizzanti dei neri.
Ronald Reagan non è un sostenitore del Klan, né della censura. Per far vedere che stima le donne parla di nominarne una come giudice della Corte Suprema; ne ha già nominato una come consulente di politica estera. Di lui dicono che in pratica egli si è dimostrato in passato meno rigoroso delle sue parole. Ciò che è vero però è che Reagan è arrivato alla Casa Bianca grazie all’appoggio, anche economico, di forti gruppi reazionari, ad es. Moral Majority. Che lo voglia o no, egli dovrà tenerne conto. Già la destra del suo partito brontola che le sue nomine non sono di segno abbastanza conservatore. Ed è lì, in questa lotta che inizia ora tra l’ala destra repubblicana, che si vedranno le future tendenze della sua amministrazione.
Judith Harris
(1) In USA macho sta per maschista, maschilista.
Cominciammo 10 anni fa con i primi cartelli con su la scritta “No all’aborto clandestino” un nostro muoverci politico tutto volto a squarciare il buio che da secoli chiudeva le donne e la loro sessualità in uno sfruttamento senza fine. Tutto quello che abbiamo fatto per imporre l’aborto come problema sociale è stato attacco alla clandestinità finora vissuta da tutte: dall’autodenunciarci alla provocatoria formazione di gruppi self-help aborto, alla richiesta di cancellazione del reato. Clandestinità quindi come unico dato che ci univa e nel quale le donne da sempre individualmente, poi organizzate politicamente si sono dovute muovere. Nel giugno del ’78 ci cade addosso una legge di Stato che serve a regolamentare l’aborto. La situazione per le donne muta e muta profondamente e con essa anche alcune nostre riflessioni. Ci accorgemmo dalle prime esperienze che, in una Italia dove vige ancora nei codici e nella cultura il delitto d’onore, nella disperata ricerca di un medico, di un posto letto, di una struttura per abortire, le donne non sottoponevano soltanto il proprio corpo ad un intervento chirurgico, ma mostravano il loro sesso, la loro sessualità non sublimata dalla maternità.
Fu veramente “un alzarsi le gonne” e questo per una società codina e cattolica fu veramente troppo. Fecero obiezione di coscienza non soltanto i medici, ai quali questa legge aveva dato il potere di boicottare, ma in massa anche i cuochi, i portantini, gli infermieri e tutto il personale religioso, personaggi che così esprimevano il loro sdegno verso il “peccato”. Tutti sapevano che da sempre le donne hanno abortito ma era possibile fare concessioni solo nella vergogna, nella solitudine, nel buio, mai alla luce. No, ci accorgemmo che l’aborto non era operazione paragonabile a quella dell’appendicite così come invece avevamo urlato nelle piazze, e come ancora taluni gruppi politici affermano. L’attacco che il diritto all’aborto portava contro una società sessuofobica era molto forte e altrettanto forte fu la reazione. Ritenemmo allora indispensabile non abbandonare la lotta e facemmo scelte di coinvolgimento. Denunciammo reparti di ginecologia, ci costituimmo parte civile nei processi contro i falsi obiettori e nel ’79 formulammo una piattaforma di modifica alla legge mettendo come enunciazione di principio “Lo Stato riconosce il diritto alla maternità come libera scelta della donna senza limiti di età…”. Riconoscemmo nell’ obiezione di coscienza e nella preclusione alle minorenni, il vero impedimento di questa legge con la quale lo Stato inaugurava un sistema anomalo di approvare una legge che contiene la ragione della sua stessa vanificazione. Dunque ci siamo mosse in senso opposte a quello che oggi, il referendum radicale chiede. Intendiamo dire no ai falsi libertarismi che lasciano vivere il più grosso attacco anti-donna di questa legge: l’obiezione di coscienza. No all’apertura delle cliniche private, che vanno viste, in questa situazione, non come possibilità di scelta tra il pubblico ed il privato, ma come l’unico luogo dove le donne tornerebbero a vivere gli aborti con tutto il carico di sempre compreso quello economico. No alla richiesta di abrogazione dell’articolo che riguarda le minorenni perché precluderebbe l’unica strada finora percorribile, quella del giudice tutelare senza dover passare obbligatoriamente attraverso il consenso della famiglia.
Ma non ci basta dire no agli schematismi referendari anche se siamo ben consapevoli che l’attacco dei referendum va vinto e va vinto bene. Ci riproponiamo ricerche di pratica femminista che vedono l’aborto come la punta più antica di massima violenza sulla donna. E’ per questo che siamo andate a costruire, insieme ad altre donne, collettivi, i coordinamenti per l’autodeterminazione; strutture nate dopo la presentazione dei 3 referendum che riuniscono storie di donne diverse, cammini politici differenti personali e collettivi.
Così come l’affermazione “la donna come persona” fu il nucleo centrale del progetto contro la violenza sessuale, così “l’autodeterminazione” rappresenta oggi l’asse portante di un “progetto-donna” che vuole affermare la determinazione di condurre la lotta in un attacco e non in posizione di difesa. Maternità, sessualità e aborto sono tutti contenuti dentro questo progetto che non può certamente esaurirsi nella sola elaborazione di documenti o nella ricerca di una manifestazione ma che vede questi come momenti e tappe intermedie di una pratica di ricerca e analisi che altro non è se non la continua ricerca della nostra identità. Il bisogno di scendere in piazza c’è, e come! Il bisogno di tenere duro contro gli attacchi sferrati al diritto dà aborto c’è, e come! Ma c’è anche il bisogno delle donne di ritrovare un linguaggio comune, di riconoscersi, di capire quanto siamo cambiate in questi ultimi anni.
In questo momento in cui l’attacco al diritto di aborto è un attacco anche al movimento delle donne, i due bisogni, quello della ricerca e quello di trovare momenti organizzativi, devono trovare elementi di sintesi. C’è la necessità di dare un’immagine del movimento, c’è il bisogno di non disperdere energie, di non risparmiare intelligenze.
Il progetto è ambizioso e ha il grande merito di contenere quella spinta di progettualità che è stata la grande forza del protagonismo delle donne. E vale la pena di provare.