seminario sul giornale / elena
testimonianze
questi sono interventi-testimonianze di compagne che hanno partecipato al dibattito. Tre punti di osservazione diversi da cui rileggere il nostro incontro. Tre modi di esserci state.
avere precise idee su come deve essere un giornale femminista, fatto da donne per le donne, penso che sia ancora impossibile.
Adesso riesco solo a pensare in che modo potrebbe servire a chi lo fa, per comunicare sia con le altre che lo fanno, sia, anche se in modo diverso, con chi lo legge o lo leggerà.
Anche qui ritrovarsi di fronte al tentativo, allo sforzo, di costruire un nostro modo di fare un giornale, una nuova concezione, un riattraversamento femminista di un metodo tradizionale di comunicazione. Nel far questo penso che sia importante prima di tutto il partire da noi, che oggi ci troviamo unite nel bisogno di approfondire, fissare contenuti, riflettere e comunicare i nostri temi, imparando anche nel far questo a lavorare tra donne, ad «inventare» espressioni nuove di comunicazione.
Nella visione tradizional-politica, un giornale doveva sempre essere lo strumento, il propagandatore, l’organizzatore per eccellenza, il risolutore; per me Effe non dovrebbe essere il detentore della linea, né il giornale ufficiale del movimento, ma più semplicemente un mezzo nostro di fissaggio e di approfondimento di temi, ed in questo aver bisogno di comunicarlo ad altre, confrontandolo con più donne possibili.
Fare un giornale cioè come scelta di ricerca collettiva su dei temi, anche i più svariati, e come tentativo di nuovi modi di espressione non sempre necessariamente scritta, (potrebbe per esempio uscire un numero solo di fotografie, o di disegni, o di manifesti, o un altro formato da una cassetta .registrata o da un disco), come «provocazione» verso noi stesse e verso altre donne alla ricerca, allo studio, alla costruzione di altri strumenti di espressione femminista, di comunicazione.
Perciò non sentendosi, nel portar avanti questo «lavoro», le cosiddette avanguardie che vogliono fare il giornale del movimento, ma compagne che hanno bisogno di approfondire, riflettere insieme su dei temi per poter proseguire, per poter andare avanti, (forse anche per poter continuare a sentirsi femministe). C’è chi vuole fare teatro, cinema o una libreria di donne, noi vorremmo, o almeno lo credo, imparare a fare insieme una cosa che si chiama giornale o meglio manufatto mensile collettivo. Ed in questo rifiutando la concezione della giornalista-grillo parlante che scrive un po ‘di tutto, su tutto, alla ricerca del sensazionale, della notizia, ma ognuna di noi potrebbe operare, contribuire semplicemente per ciò che sa, che ricerca, che vive. In quest’ottica, con i contributi di ognuna, possiamo imparare ad intervenire su tutto; a rivisitare dal nostro punto di vita tutti gli specifici, quindi imparando insieme e non più individualmente a ricercare, a scrivere.
Un tentativo quindi di lavorare insieme, in un collettivo di discussione e ricerca, senza la «linea» sul femminismo; senza competizioni o delega, ma più semplicemente instaurando rapporti in cui chi sa di più dà di più. Collettivizzando dubbi e contraddizioni nella coscienza delle, profonde differenze tra di noi, ed anche in questo sapendo che non siamo un collettivo unito, allineato, ma anche noi (giustamente), un piccolissimo specchio del movimento che vuole «cercare» insieme.
paola
Sono venuta alla discussione che Effe stava portando avanti sulla propria ristrutturazione con delle grosse curiosità: capire «chi» erano le compagne che facevano il giornale, che tipo di femminismo e di militanza femminista praticavano; se tutto di testa, se en-trista, se e quanta tensione rivoluzionaria era ancora rimasta tra di noi. Ed ero venuta proprio perché mi sento carica di devianza, con la necessità di realizzarla concretamente, non di esploderla, ma di praticarla in maniera continua e costruttiva.
Sono stata quindi molto attenta al gruppo, osservando i suoi movimenti, le sue direzioni, preoccupata di intervenire per chiarire a me soprattutto, le tappe del nostro discorso. Stavo attenta quindi a chiarire ed approfondire tutti t pezzi di esperienze, di progetto politico che venivano emergendo, perché volevo coinvolgermi e costruire la certezza di poter creare con le compagne una realtà fisica, materiale con la quale misurarsi e fare riferimento come cosa propria. Ed ho ritrovato questa possibilità, insieme a tutte le contraddizioni, le confusioni e la,semplicità, che ogni donna che si sente femminista oggi realizza. Vorrei trovare le parole più nuove, le parole più semplici, per esprimere il significato di creatività e di problematicità che hanno avuto queste due mezze giornate trascorse insieme, per poter rendere con chiarezza quello che ho capito; però so che è difficile, perché soprattutto le sensazioni, la comunicazione non verbale ha prevalso tra di noi. È questa comunicazione che la società maschile mi ha abituato a reprimere.
Ero tutta tesa a captare quello che dicevamo, come lo dicevamo, per collocare, posizionare ognuna delle donne presenti rispetto a me. Eravamo in 20 ed abbiamo parlato forse tutte, ma abbiamo vissuto tutte l’esperienza del bisogno di comunicare la nostra verifica con la realtà esterna e la costruzione della realtà nuova che stiamo vivendo. L’esterno è entrato nella stanza attraverso noi e noi lo abbiamo annullato, lo abbiamo fatto nostro, ce ne siamo impossessate, ancora individualmente o per piccoli gruppi, ed ora l’esterno aspetta di essere ricucito, reimpastato da noi, per essere di nuovo posizionato in maniera funzionale a noi.
Mi sono trovata in contraddizione sin dall’inizio con le compagne di Padova, a volte con quella di Macerata o con le compagne della redazione. Ho rifiutato le logiche precise, quelle che cercavano e fornivano certezze organizzative e concettuali, perché mi sembrava che il movimento delle donne in questo momento non ha bisogno di sicurezze, ma di ritrovare la sua identità rivoluzionaria. Ho accettato il gruppo con tutte le sue contraddizioni, contenta di trovarmi a lottare per fare una cosa diversa. E uscito con chiarezza che Effe può diventare diverso da quello che si presenta oggi, come noi nel movimento siamo diventate altro da ieri e dobbiamo imparare a comunicare il nostro nuovo e a manifestare i pezzi morti che sono ancora dentro di noi. Il morto coesiste oggi insieme al vivo, è maschio e femmina; ed è il maschile il morto in mezzo a noi.
L’ho visto nell’attaccamento alla «cultura», nel voler definire gli estremi e gli opposti, nel voler sistematizzare e organigrammare, nel dividere l’approccio e la conoscenza intuitiva, sensoriale, da quella razionale, nel lasciare aperta da una parte l’analisi, la ricerca, il confronto con il movimento e noi stesse e invece nel chiudere dall’altra i tempi e i metodi dell’organizzazione del lavoro.
Sono convinta che non abbiamo fatto un lavoro improduttivo, perché abbiamo riflettuto sulla nostra esperienza, abbiamo dato indicazioni e direzioni al nostro vivere, ma soprattutto perché abbiamo creato informazione; ora però dobbiamo creare struttura a nostra misura, entro la quale le direzioni date possano realmente esprimersi, ed allora si tratta di verificare l’omogeneità, la congruità del nostro essere femministe. Non voglio dettare da Effe, o che Effe detti le nuove regole del femminismo, ma voglio trovarmi e confrontarmi con delle compagne per vivere il nostro femminismo, sperimentare la gratificabilità dei nostri bisogni costruendo strutture e spazi a misura nostra, per negare l’oppressione delle altrui strutture. Il fatto stesso d’aver comunicato e rifiutato in quella piccola stanza con 20 donne, il fatto stesso che 20 donne, inserite tutte in istituzioni, in strutture di potere ‘(lavoriamo tutte) siamo riuscite a negare un giornale fatto solo di cronaca e di vissuto delle altre, per cercare un confronto diretto per collettivi e la «riflessione» di questo confronto diventi giornale, ciò dimostra. che le idee ci sono, ma il passaggio alla realizzazione sarà certamente più faticoso. Come ci siamo riappropriate della parola, dobbiamo riappropriarci del segno, anche se con tempi diversi. In questo senso credo che dovrebbe continuare il nostro lavoro: analisi e costruzione del segno. Su questo vorrei continuare a confrontarmi con le compagne.
stella
Parlare non basta.
Dobbiamo farci capire.
I discorsi si sommano ai discorsi, parole con un senso preciso solo per le addette ai lavori rimbalzano da un collettivo all’altro e si fissano sui fogli letti solo da chi ha gli strumenti per una giusta interpretazione. È nel confronto che si cerca il metodo e la veridicità della propria pratica di donna. L’elaborazione teorica della propria esistenza richiede il dibattito e un linguaggio specifico, fatto di sottintesi ideologici. Alla continua ricerca dell’altra, noi sentiamo tanto più gratificato il nostro bisogno di identificazione quanto più rapidamente entriamo in contatto: ed il modo più rapido è il linguaggio, o meglio un certo linguaggio che dia per scontati il superamento e l’acquisizione di certi schemi socioculturali.
È su questa base che si comincia a discutere, le premesse sono nel linguaggio stesso e noi siamo la testimonianza della realtà alla quale esso rimanda. Il problema sorge nel momento in cui si esce all’esterno: in qualsiasi modo ciò avvenga, bisogna operare delle scelte. Più precisamente, dobbiamo decidere se vogliamo comunicare con quante di noi sono già nel movimento, seppure nelle fasce più periferiche, o se è la donna in quanto tale l’individuo col quale cerchiamo un colloquio e un confronto.
Nel primo caso il problema del linguaggio è relativo e comunque superabile, nel secondo si sommano difficoltà di linguaggio e contenuto.
Di linguaggio, poiché la comprensione lessicale di certi discorsi non è più così immediata per chi è al di fuori del movimento, essendo molti vocaboli al tempo stesso non usuali nella comune prassi verbale ed inegualmente lontani dal linguaggio effettivamente parlato nelle differenti classi sociali.
Bisogna prendere coscienza del fatto che il capitale linguistico e la padronanza simbolica di esso, sono fattori socialmente discriminanti e selettivi.
Competenza linguistica, tendenza alla astrazione e al formalismo, patrimonio invisibile della classe borghese, sono i termini di un potere simbolico la cui forza risiede nell’occultamento stesso della propria arbitrarietà, facendo risalire il mancato rapporto col linguaggio semi-dotto alle carenze individuali di chi cerca di recepirlo.
Il mancato riconoscimento della propria funzione, da parte di chi, in forma mediata, esercita il proprio ruolo di potere attraverso il linguaggio, costituisce la base del proprio perpetuarsi. Se si tiene presente tutto questo, ci si rende conto dei limiti posti da un linguaggio che pur nato nel rispetto di precise esigenze, non può cristallizzarsi in forme tanto specifiche da non essere facilmente riducibili. e decifrabili al momento di un confronto su base allargata. C’è insomma il rischio di riprodurre tra le donne attraverso un uso sbagliato del linguaggio, le stesse dicotomie che la cultura ufficiale ha prodotto nel proprio seno. Ma mentre per la società capitalistico-borghese queste dicotomie e queste lacerazioni furono e sono la condizione della propria stessa sopravvivenza, per le donne tale situazione sarebbe fatale.
Di contenuto, nessuna di noi è in possesso di formule magiche o di verità da dispensare alle «masse». E poi, quali verità? Quelle tanto immutabili da essere state già dimenticate? O quelle tanto indiscutibili da essere nate nella determinazione di un preciso opposto? No, la verità siamo noi, la nostra vita, il nostro bisogno di esistere, la verità sono i giorni che attraversiamo come specchi l’uno dopo l’altro alla ricerca di una immagine che sia solo nostra.
È evidente dunque che nel vivere di volta in volta esperienze sempre più complesse si giunge ad elaborare concetti di base la cui comprensione e veridicità viene data per scontata proprio perché capitale di gruppo e non esperienza individuale. Eppure noi dovremmo avere l’umiltà di rispiegare e rispiegarci: anche i concetti più semplici ed elementari possono risultare incomprensibili per chi ha vissuto in modo diverso dal nostro certe esperienze. Autonomia e separatismo, sessualità ed aborto devono forse essere temi prima che dibattuti, rispiegati. La crisi della coppia non è poi così ovvia. Se la realtà della donna è quella che tante volte ci compiaciamo di descrivere, subalterna ed emarginata, dobbiamo anche non dimenticarla e non perderla di vista: parlare di una realtà non significa necessariamente parlare con i componenti di quella realtà.
Perché parlare non basta!
Dobbiamo farci capire.