seminario sul giornale
tutte per effe effe per tutte
ci siamo incontrate in redazione per discutere sul giornale: cosa vogliamo, cosa deve fare Effe oggi, quali critiche e quali revisioni dobbiamo affrontare. Apriamo il dibattito anche con le lettrici, perché il «crescere insieme» non diventi uno slogan, ma uno spazio di lavoro fra donne per le donne. Quello che leggete è solo una piccola parte delle cose che ci siamo dette. Per esigenze di spazio non possiamo fare di più. Continuate voi.
Daniela C. – Non mi è facile incominciare e cercare di riassumere in poche parole tutto il dibattito che c’è stato a Effe in questi ultimi mesi. Dovrei fare la storia del giornale, ma non mi sembra giusto farlo anche perché sarebbe una storia soggettiva. Diciamo solo che da un giornale fatto essenzialmente da giornaliste per le donne al di fuori del movimento si è andato trasformando in un giornale, non vorrei dire del movimento, dato che sono perfettamente consapevole dei nostri limiti, ma per lo meno che ha sempre cercato di portare all’esterno quanto ci arrivava dal movimento. In questi ultimi mesi tuttavia si è pubblicato abbastanza passivamente tutto quello che ci arrivava in redazione, con alcuni interventi nostri, sempre più limitati.
A settembre alcune di noi, dopo i ripensamenti estivi, hanno incominciato a discutere se si poteva trovare un modo diverso di fare il giornale, senza tuttavia venire meno all’esigenza di farlo uscire regolarmente. Ci siamo chieste perché non utilizzare Effe come motorino d’avviamento, in senso minimale, per stimolare il dibattito anche tra gruppi lontani o tra singole donne sui temi che il movimento ha indicato o indicherà, in modo da approfondire la ricerca teorica e l’operatività pratica. Come fare non sappiamo. Non abbiamo un progetto specifico da presentarvi e su cui iniziare la discussione, però vorremmo poter fare il giornale con voi in modo diverso, con un rapporto diverso. Come?
Elena V. – C’è stato detto: voi che ne pensate di dare un nuovo assetto a Effe? …Avevamo tutte più o meno dei problemi verso Effe. Primo perché non si sapeva niente fuori, della reale situazione di Effe e poi avevamo da fare al giornale delle grosse critiche e le abbiamo fatte. E appunto in questo numero di novembre c’è stato un primo livello di discussione insieme e secondo me, si vede già una differenza.
Daniela C. – C’era anche un’altro fatto, che Effe è sempre stato un giornale fatto a Roma e da compagne di Roma, nonostante gli sforzi che abbiamo fatto. Noi vorremmo cercare di superare questa limitazione. Questo è un punto importante: possiamo fare questo discorso adesso, perché siamo in grado di pagare alle compagne che vengono a Roma, un minimo di rimborso spese che consente alle compagne di venire senza troppi impegni finanziari.
Anna C. – Vorrei accennare a quello che abbiamo discusso a Padova. Ci sembra che il carattere del giornale sia condizionato anche dalla frequenza con cui esce. È un mensile che spesso diventa un bimestrale.
Prima di parlare di una trasformazione del giornale, mi sembra che bisogna dire che un mensile con questi ritardi, può avere solo un certo carattere, può presentare soltanto analisi teoriche che possono avere una validità .senza scadenza; noi volevamo sapere da voi della redazione se c’è la possibilità a lunga scadenza e prospettiva che questo giornale esca con un altra perio-■. dicità, perché così potrebbe avere un altro carattere, potrebbe incidere veramente.
Marina – Quest’anno noi abbiamo fatto uno sforzo enorme e siamo riuscite a mantenere il giornale su tempi abbastanza stretti. Abbiamo fatto il solito bimensile pianificato di luglio-agosto e poi purtroppo l’ultimo numero (settembre-ottobre) doppio, quindi un solo numero doppio extra, che è già un passo avanti. Per adesso è impensabile una periodicità diversa ad esempio quindicinale o settimanale come intendi tu.
Daniela C. – Ci rendiamo benissimo conto di quelli che sono i limiti del giornale e abbiamo cercato di superarli, come diceva Marina; ma c’è un fatto: abbiamo tempi di stampa lunghissimi e lo sforzo della redazione adesso è concentrato nel limitare al massimo questi tempi. Nel progetto di ristrutturazione avevamo concepito il giornale diviso in tre parti: una di controinformazione, che è più o meno quella che è adesso; una parte di riflessione e di elaborazione teorica, che possiamo programmare in anticipo e mandare in stampa molto prima delle altre parti; e una parte, quella su cui dovremmo veramente incidere e quindi stampare all’ultimo momento, di attualità.
Anna C. – Allora prima di pensare ad una ristrutturazione, bisogna risolvere i problemi tecnici. Altrimenti puoi inserire tutta l’attualità che vuoi, ma ti si vanifica, con questi tempi lunghissimi. Allora piuttosto facciamo un giornale di studio, che può uscire anche ogni sei mesi ed ha sempre la sua validità. Ma Effe non vuol essere un giornale di studio; vuol essere un giornale di movimento o perlomeno di specchio del movimento, un giornale diverso, ma secondo noi deve avere per questo dei tempi diversi.
Daniela C. – La distribuzione è quella che è perché è l’unica ditta che distribuisce un giornale con una titratura come la nostra. Noi abbiamo 30.000 copie in edicola. Con questo sono 4 anni che ci lavoriamo e non possiamo fare altro, perché non esiste una distribuzione alternativa per questo tipo di riviste.
Anna C. – Che possibilità c’è di creare una distribuzione alternativa?
Marina – Tu sai che la distribuzione è quello che frega i giornali di un certo ‘tipo, è quella più difficile, più complessa. A livello di vendita in edicola ancora non c’è nessuna organizzazione dei «compagni». Noi ci serviamo della distribuzione alternativa solo per la vendita in libreria, ma per le edicole non c’è questa possibilità.
Elena V. – Questo sembra un problema tecnico, però se si riesce a collegarlo al fatto di costituire dei gruppi Effe nelle varie città, poi saranno questi gruppi, ad operare un controllo sulle edicole. Non si può parlare dei problemi tecnici a prescindere dal tipo di organizzazione e di persone che vorranno lavorare al giornale. Secondo me bisogna cominciare a discutere dei contenuti di Effe, perché approfondendo questi e il tipo di lavoro che ciascun gruppo dovrà svolgere, si può anche iniziare a porre questo problema in modo diverso.
Paola C. – Bisogna discutere che tipo di giornale deve essere. Se deve essere il bollettino dei convegni e delle riunioni, non ce ne facciamo niente; invece se anche la notizia del convegno mi arriva con dièci giorni di ritardo e però il giornale ha dei contenuti validi, mi serve ugualmente. Vorrei che affrontassimo prima questo discorso: Effe vuol essere il quotidiano che diventa mensile o vuol essere un momento di elaborazione dei collettivi e di quello che il movimento sta facendo, dei vari livelli di composizione del movimento oggi in Italia; o vuol essere la rivista di approfondimento e di studio. Io non l’ho ancora capito. Ho avuto l’impressione che vuol essere di tutto un po’.
Grazia – In parte Effe deve essere senz’altro di elaborazione^ cioè di riflessione sulle tematiche che vengono fuori dalle sedi di movimento e che poi rimangono inutilizzate o patrimonio delle partecipanti alla singola riunione. Però ci siamo rese conto che non possiamo tacere completamente su tutta una serie di cose. Faccio un esempio: la Baader-Meinhoff, il gruppo in cui c’erano dieci donne terroriste. Questo è sì un fatto di attualità, però analizzandolo ti accorgi che c’è una grossa riflessione che ne può venir fuori. Quindi possiamo noi lasciar passare sotto silenzio tutta una serie di eventi esterni solo perché noi siamo il giornale di elaborazione teorica? Credo di no. Deve esserci una parte di elaborazione e una parte di attualità. Però certo non siamo un quotidiano, quindi è chiaro che non interveniamo il giorno dopo, non interveniamo a livello di notizia, ma la nostra diversità sarà nella qualità dell’intervento sull’attualità: quando tutti i giornali hanno già detto tutto sulla Baader-Meinhoff e sul terrorismo, riprendiamo il fatto sotto un’ottica diversa, quella delle donne.
Anna C. – Però il fatto è che, quando per l’attualità succede qualcosa che tutte le donne sentono, e si trovano questo argomento ripreso da destra e da sinistra, sopra e sotto, sentirebbero il bisogno di avere abbastanza presto, subito, un punto di vista femminista, e magari ce l’hanno dopo due mesi, quando ormai la cosa è già stata digerita.
Elena V. – Effe è così oggi perché ci sono le contraddizioni nel movimento, non è una cosa che sta al di là. Il movimento vive oggi una certa fase e infatti non è un caso che ci siamo poste oggi il problema di Effe, che invece un anno fa non ci sarebbe venuto in mente; io mi accorgo della mia situazione che tutta una serie di cose si stanno un po ‘sfaldando, quando invece ci sarebbe la forza di non farle sfaldare e sento che Effe può diventare uno strumento importante di memorizzazione costante del movimento. Per esempio, fra le ipotesi varie, avevamo pensato con le compagne di fare anche, su temi specifici, dei quaderni trimestrali, perché c’è una serie di temi più «pesanti» che non possono essere esauriti sulle pagine di Effe e che nei quaderni troverebbero uno spazio.
Daniela C. – Una delle proposte che avevamo discusso all’interno era: fare al più presto possibile un convegno sulla stampa femminista italiana, per vedere come le varie iniziative di giornali e di riviste che ci sono si possono organizzare. Non c’è mai stato un tentativo di collegare le varie iniziative editoriali femministe in Italia.
Elena V. – Io tornerei ai contenuti: che pensiamo di questo giornale, che disponibilità hanno le compagne, qual è la fase politica del movimento.
Daniela G. – Partendo dalla situazione di Torino direi che il primo problema che mi è venuto in mente quando mi si è detta l’ipotesi di allargare la redazione con gruppi fuori di Roma, è stato: se dovessi dire cos’è il movimento a Torino, avrei dei grossi problemi. Il primo è: che cosa intendiamo per movimento; perché l’uso di questo termine indifferenziato è rischioso. A Torino non si può certo parlare di una sola realtà di movimento delle donne, si ‘deve parlare di più realtà, non si può paragonare un collettivo di fabbrica con uno che fa solo autocoscienza… Cosa prendiamo per individuare un collettivo femminista: l’autocoscienza? punto interrogativo per me. Prendiamo il rapporto con le istituzioni? non so, ho dei problemi ad individuare delle coordinate che mi dicano cos’è un collettivo di donne. Se io dovessi leggere su un giornale quello che del movimento appare a Torino — potrei dire: un primo livello è considerare quello che del movimento appare all’esterno; può essere il documento che abbiamo fatto sull’aborto come coordinamento dei collettivi di Torino. Questo si vede, c’è, è facilmente reperibile; però questo non dà assolutamente alle altre donne quello che è il lavoro all’interno dei collettivi, perché questo è un altro livello. A questo punto mi occorrerebbe entrare nel collettivo e riuscire a portare all’esterno il tipo e soprattutto il modo di elaborare dei collettivi. Quello che invece volevo dire è che io ho bisogno: 1° di una definizione del movimento, 2° di quello che si può riuscire a riportare, attraverso un giornale, di quello che si è definito movimento, cioè di quali aree si vogliono o si possono toccare di questo movimento.
Avendo deciso che cosa intendo per movimento e che cosa posso o voglio o riesco a riferire di queste elaborazioni che ci sono ai vari livelli (o in quelli che io ho scelto) come riferirli: come attualità o come elaborazione o come pura informazione? Non so, la pubblicazione di un documento è informazione, pura e semplice; oppure attualità: in una data città i collettivi hanno deciso che; oppure riflessione politica sulle cose che il movimento sta facendo. Anche a Roma so che gli strati del movimento sono molti, molto differenziati, più che a Torino, i campi di intervento sono diversi e molto spesso ho verificato che a seconda del campo su cui agiscono, le donne hanno un modo di aggregarsi e un modo di lottare che è diverso, che crea delle differenze nel movimento e spesso delle contraddizioni. Allora non mi sento di dire: noi a Torino abbiamo bisogno di questo tipo di giornale, senza sapere a che tipo di realtà si riferiscono le altre donne che fanno il giornale.
Anna C. – Il rapporto col movimento a Padova è veramente problematico. Non solo nessuna definizione può esaurire la complessità del movimento, che forse a Padova è ancora più complicata che a Torino, ma è che se anche noi fossimo così brave da descrivere tutte le difficoltà è un’altra, ed è che non mi sento d’interpretare dal di fuori il lavoro che sta facendo un collettivo, perché non mi sento di parlare su delle donne in lotta, che cercano una loro espressione. Io non mi sento di fare l’inviata speciale del femminismo. Con queste realtà certo il giornale si deve mettere in rapporto, ma il punto è: come?
Direi che oltre a questo rapporto il giornale dovrebbe proporsi qualcos’altro: non solo specchio del movimento, ma anche momento di elaborazione teorica.
Donata – Credo che ci possa essere anche un altro momento di lavoro del movimento, che è quello di collegamento. Non si deve portare qui il collettivo che si esprime a Effe. Il nostro compito potrebbe essere quello di facilitare la comunicazione e aiutare a non disperdere le energie. Per esempio, uno dei temi che si decide di trattare qui può essere quello del nostro rapporto col lavoro; allora si possono collegare i gruppi che hanno già riflettuto su questa realtà e metterli in contatto, in modo che lo stimolo sia reciproco, in modo che possiamo dare qualcosa al movimento e non solo chiedere al movimento per il giornale. La realtà attuale è che gruppi di lavoro stanno facendo per conto loro le stesse cose senza un minimo di coordinamento, con una grossa dispersione. Se è vero che le scadenze comuni sono poche, è anche vero che ci sono pochissime riunioni nazionali, e quelle che ci sono avvengono in assemblee molto grandi, che sono molto belle, però anche molto dispersive, perciò fare un piccolo gruppo in cui tutte noi possiamo parlare è anche un modo più concreto di tirar fuori delle proposte; noi speriamo che Effe serva anche a questo. Non vogliamo fare un giornale solo per farlo, Effe deve anche essere uno strumento di lotta, il che vuol dire che deve anche essere propositivo e questo forse è possibile se c’è questo confronto periodico don le altre realtà nazionali.
In un momento di crisi economica e politica come questo credo sia necessario raggruppare le forze e partire all’attacco e per farlo bisogna mettersi d’accordo sulle cose.
Daniela G. – Ma l’importante è capire che realtà rappresentiamo. È chiaro che nessuna di noi può dare una definizione di movimento in tutte le sue sfaccettature, però è importante che qui rappresentiamo realtà di movimento più o meno omogenee. È chiaro che con i gruppi che non sono come me, faccio da mediatrice, ma devo sapere io chi sono, tu cosa sei.
Stefania R. – Cioè, tu dici, dobbiamo essere coscienti di quale parte del movimento facciamo parte. Chi si pone il problema Effe è chiaro che non fa riferimento a altri strati del movimento, non fa parte dell’autonomia o altro.
Prendere coscienza di quello che rappresentiamo in rapporto alla nostra città è il momento primo di dibattito e di discussione, in termini di autocoscienza politica su quello che siamo noi, nel senso di quale realtà — come motore o come momento organizzativo — vogliamo toccare. Se ci si pone con questo discorso, e ce lo chiariamo, poi non ci possiamo nascondere dicendo «noi siamo soltanto le voci e le interpreti del movimento», perché sappiamo da subito che lavoriamo per un certo progetto e siamo soltanto una parte di un movimento molto più grande.
Anna Maria Z. – Partendo dalla realtà in quest’ultimo anno, a Padova, la mia esigenza è anche quella che ha detto la compagna di Torino: penso che per portare avanti il giornale, per rinnovarlo ci debba essere un confronto preliminare rispetto alle cose che il giornale dirà e che sono sempre frutto di scelte. Al di là della nostra mediazione singola nei confronti dei gruppi e delle testimonianze e degli apporti che vorremmo dagli altri gruppi, penso che il gruppo che si formerà intorno ad Effe dovrà per forza, perché ce n’è l’esigenza, chiarire cos’è il movimento, non per etichettarlo, ma perché c’è bisogno di una scelta rispetto a questo e quindi di una chiarificazione. Io penso che se c’è un compito che Effe può avere, è quello di un giornale che innanzitutto, stimola una chiarificazione politica su certi temi, perché è comprato da trentamila donne, perché le donne che lo comprano si riconoscono nel movimento, però ci sono anche donne semplicemente simpatizzanti, addirittura casalinghe (speriamo) che hanno bisogno, in questo momento più che mai, di una chiarificazione su cos’è il movimento, su dove va a parare e quindi è necessario che le compagno che lavorano a Effe facciano delle scelte in merito. I temi comuni che dovremmo elaborare tra noi sono temi di chiarificazione politica.
Paola C. – Io ho l’impressione che si stiano sovrapponendo due discorsi, Uno è quello di definire noi con quale parte del movimento vogliamo metterci in rapporto, l’altro è definirci noi politicamente. Io sono d’accordo con il primo discorso; vediamo con chi vogliamo parlare, dando tutte le informazioni di quello che avviene nel movimento, però tenendo presente qual è il nostro referente; perché se è di nuovo tutto il movimento rischiamo di fare pasticci. Su questo dobbiamo fare chiarezza. Poi c’è l’altro punto: chi siamo noi, perché ci mettiamo insieme a parlare. Definendo il secondo punto forse possiamo arrivare a risolvere il primo — chi è il nostro referente — io ho bisogno di dare una risposta al primo interrogativo.
Manuela F. – Un criterio molto generale per riconoscere il femminismo, può essere il separatismo e l’autonomia. A giudicare da come vanno le cose basterebbe confrontarsi solo sul separatismo. Da questo confronto verrebbe immediatamente fuori a quale area del movimento noi ci rivolgiamo e anche cosa intendiamo per femminismo; perché mentre non credo che sia impossibile definire cos’è il movimento in questo momento credo che ci siano molti modi di intendere che cos’è femminismo e io per prima se lo devo fare in forma astratta non me la sento di dire qual è femminismo e quale no. Però vedi caso che mi trovo ad avere uno scontro con quella parte di donne che definisce femminismo qualcosa che io, nella mia pratica individuavo come subalternità rispetto al mondo maschile. Ecco che mi serve di partire alla rovescia: da un elemento molto concreto e vedere su quello cosa pensiamo. In fondo la discriminante è il tema della subalternità politica che si è ricostituita questo inverno col movimento ’77; perlomeno a Roma questo è stato il problema fondamentale, che non è stato tanto la subalternità che deriva dal dire «io far parte del movimento dei giovani», quanto piuttosto dal fatto che tutte le donne nuove che sono entrate nel movimento, sono state mangiate più dalla questione giovanile che dalla «questione femminile» (tra centomila virgolette). A me questo sembra il tema da cui è possibile partire per cercare forse fra un anno di avere un’immagine più complessiva possibile del movimento e credo che un obiettivo che ci si può porre sia: attraverso quale metodo noi possiamo arrivare a costruire l’immagine composta del movimento? invece non credo che si possa partire da un’idea di movimento e su quella andare a verificare delle realtà. Anche perché è un metodo che forse non ci permetterebbe di cogliere delle realtà che sono soltanto nuove, ma non per questo così diverse da noi. Tutto sommato, c’è un linguaggio nostro che è passato fra le autonome; per esempio alla fine delle assemblee mi rendo conto solo dalle proposte concrete dov’è che si dividono le aree politiche, ossia dove c’è un politico fuori del movimento che pesa sulle proposte fatte dalle compagne; ma direi che in sede di assemblea, dove non c’è la comunicazione tra donne che conosciamo, ma c’è l’«intervento», non è facile comprendere immediatamente la provenienza delle compagne. Però forse è proprio questo poliedro che noi dovremmo in qualche modo ricostruire attraverso le varie esperienze. La cosa che mi viene in mente in termini molto pratici è: che cosa varie aggregazioni intendono per femminismo; credo che non avremmo una risposta univoca, ma un panorama incredibile di risposte, lo stesso panorama con cui mi sono trovata a non saper fare i conti, perché mi sono sentita minacciata in una situazione di pratica femminista, quando dall’altra parte mi sono sentita dare una definizione di pratica femminista diversa dalla mia; e forse sono finita su posizioni di autodifesa che mi hanno impedito di capire cosa invece mi legava alle donne. Ma non è così pacifico, rintracciare le tesi dell’autonomia fra di noi ed è difficile dire che ognuna di queste tesi non ci riguarda, non dire che il movimento ha subito una scossa profondissima a contatto col movimento dei giovani, modificazioni che sono avvenute dentro ognuna di noi, all’interno di collettivi, si sono spappolati anche i collettivi storici, di vecchia data, proprio sulle tematiche poste in parte dal movimento dei giovani. Credo che se partiamo dalle esperienze che abbiamo fatto in questi ultimi mesi, ci rendiamo conto di come oggi ci leghiamo col femminismo. Ho l’impressione che fare riferimento al nostro passato di femministe abbia un senso solo se si guarda molto lontano, mentre sull’operatività del presente non ce l’ha molto, non ci permette di andare avanti.
Paola C. – Mi sembra che ancora il problema della identità di questo gruppo che dovrebbe lavorare intorno ad Effe non viene fuori. Da quello che dici tu viene fuori che una serie di contenuti del femminismo sono passati a livello di vari movimenti e soprattutto in quello dei giovani; cioè mi sembra molto interessante che tu invece di dire questo, dica: una serie di contenuti dei giovani hanno spappolato noi donne; ma io penso che una serie di contenuti che erano miei, dei miei collettivi, che io avevo tirato fuori con la autocoscienza, loro me li hanno espressi con una forma di vita che era anche il mio passato; allora con questa realtà io devo fare i conti, questo collettivo, se vuole fare informazione, ci deve fare i conti.
Manuela F. – Poniamo uno di questi temi, se vuoi, ma secondo me dobbiamo partire dalle esperienze fatte in questi ultimi mesi, il tema può essere questo: qual è la nostra identità attuale, ossia quali sono i bisogni che ognuna di noi ha rispetto al femminismo fatto o quello appena iniziato.
Anna C. – La nostra identità non la decidiamo, in astratto; dovremmo fare un dibattito fra noi per trovare un punto di riferimento politico.
Daniela C. – Effe l’unica cosa che vorrebbe fare è questa: dire alle varie città, dove ci sono dei collettivi che stanno lavorando su temi specifici: il giornale ve lo offriamo come punto di riferimento, avete una tribuna aperta su cui scrivere, siamo uno strumento; prendiamo la creatività, che è argomento su cui stanno lavorando vari gruppi: vogliamo vedere quali sono, dargli uno spazio per farli confrontare sul giornale, dargli un luogo fisico per cui, non so, ogni 4 mesi sì possano incontrare e discutere? All’inizio-quando abbiamo lanciato la proposta era in questo senso, in quello di individuare quali sono i temi dibattuti nel movimento, quali sono i collettivi esistenti, cosa fanno. Le persone che sono state invitate qui, erano già in un certo ambito, non voglio chiamarla area… non ci sono rappresentanti dell’UDI o dell’autonomia.
Stefania R. – La subalternità al maschile, che era già stata individuata per quanto riguarda le compagne che fanno riferimento all’autonomia è lo stesso problema dell’UDI e ne abbiamo già discusso. Il discorso invece di violenza = autonomia non solo è estraneo a noi come femministe, ma anche come compagne.
Il dato essenziale che per noi unifica a Roma questo gruppo di donne sono cose concrete, cioè la subalternità agli altri movimenti o al PCI, e basta. Il nostro progetto deve nascere tenendo presente chi sono le lettrici di Effe. Noi abbiamo fatto una piccola inchiesta nel collettivo Appio-Tuscolano e a grandi linee, abbiamo verificato che Effe è poco letta dalle compagne del movimento; serve da coordinamento, ma per altre cose serve poco; mentre la verità è che tutte le madri e le zie, accanto ad Annabella hanno Effe, o cominciano ad averlo. Da questo era nato il discorso sul movimentò delle donne e dell’immagine che le femministe potevano dare, un’immagine più corretta, meno frammentaria, più ricca attraverso un giornale proprio. Tengo sempre presente il «a chi va questo giornale», per conquistare molte donne, non per dirigere il movimento.
Manuela F. – Infatti secondo me non dovrebbe essere uno strumento «interno», ma dovrebbe rispondere molto schematicamente, alla domanda che si fanno molte donne «ma ‘ste femministe chi so’?» in questo momento c’è la sovrapposizione di varie immagini del femminismo e più che quattro o cinque anni fa le donne ci vedono come streghe pazze; questo è un po ‘il punto, ed ecco perché il problema della subalternità politica è un problema nodale, perché veniamo schiacciate da altre forme di comunicazione pubblica e di massa, che non sono le nostre, ma da cui non abbiamo preso sufficienti distanze per distinguerci in questi mesi, perché in realtà questa distanza non c’è chiara dentro di noi.
Anna C. – Ma anche perché non abbiamo i mezzi per distinguerci e controbattere.
Manuela F. – Mah, fino alla fine dell’anno scorso — penso alla manifestazione contro la violenza a Roma — con un tema di questa portata, difficile come era da gestire, non c’è stata manifestazione più femminista per la sua eterogeneità; pensa se la dovessimo fare in questo momento. Alle spalle avremmo il convegno sulla repressione di Bologna, quello che è stato detto, la repressione effettiva, quella non effettiva, la RAF, tutte cose su cui non abbiamo riflettuto abbastanza per dire «…e noi ci collochiamo in questo modo». Io direi che non sento quésto problema* tanto rispetto alle compagne di movimento, nel senso che queste in qualche modo hanno una loro area a cui riferirsi e in cui dibattere, il problema lo sento nei confronti delle donne a cui non arriviamo direttamente, con cui non riusciamo a parlare in quanto donne, a cui non riusciamo a comunicare il femminismo che cos’è. E sarebbe strano che venisse fuori una immagine unitaria e compatta del femminismo, anche perché a questo punto credo che scremeremmo la maggior parte delle donne italiane in qualche modo; il fatto di essere un movimento molto composito che va dal salario al gruppo chiuso di autocoscienza alla pratica dell’inconscio, è qualcosa da mantenere e da difendere. Cosa lega, qual è il filo rosso che lega tutte queste pratiche che noi abbiamo riconosciuto come femminismo in questi anni, questo va ritirato fuori, va rivisto e forse presentato in una maniera più chiara di come abbiamo fatto finora, perché attraverso un’opera di approfondimento fra noi possiamo presentarlo in modo più chiaro.
Anna C. – Io credo che la donna che comincia a prendere coscienza, prima ancora di sapere quali sono i collettivi, quali sono le posizioni, vada cercando un punto di vista femminista sulle cose; secondo me il passaggio è questo: prima voglio avere un punto di vista nuovo sulle cose, poi in seguito a questo mi organizzo, non il contrario.
Renata P. – Vorrei riportare più urgentemente che mai il discorso sul punto cruciale: il ruolo di Effe e della stampa femminista in genere per le donne, o per il movimento. Io vengo dalle Marche, che è una realtà sui generis; immaginate una regione con una fascia costiera in cui c’è stato un grande boom economico grazie ad una industrializzazione selvaggia e incremento del turismo, che ha completamente soffocato una cultura agricola e un retroterra (mi riferisco a 25 Km dalla costa) che è ancora contadino nel senso più tradizionale della parola, con fortissime influenze della Chiesa e dalla DC come partito che rappresenta certe tradizioni clericali. Noi donne e femministe abbiamo questo problema: ci sono tante energie, qualificate, vivaci che però non riescono a canalizzarsi in obiettivi di lotta, perché vivendo tutti i giorni sulle barricate, siamo lacerate tra mille obiettivi da raggiungere e mille difficoltà da superare.
Effe per noi è la finestra sul movimento fuori delle Marche, è la voce della «capitale» del femminismo, quindi a noi serve come strumento di diffusione di notizie di attualità, di lavori che si fanno fuori delle Marche, ci serve come stimolo. Ma direi però, e qui il discorso si apre, che a noi serve una stampa come strumento di lotta e di confronto con le istituzioni. Pensate a una realtà marchigiana — come quella abruzzese, che è più o meno simile, dove non c’è un consultorio —. Pensate, noi abbiamo una legge regionale che è tra le meno peggio d’Italia, abbiamo elaborato col movimento dei documenti che sono sicuramente tra i più qualificati e c’è questa realtà di base che sembra assolutamente impermeabile ad un’iniziativa del genere. E ritorno sul tema del confronto con le istituzioni perché per noi violenza, autocoscienza, e il privato (tra virgolette), ancora oggi sono temi che rappresentano quasi una fuga; ogni volta che ci dedichiamo al privato o all’autocoscienza, ci rendiamo conto che distraiamo quelle poche energie che abbiamo dal confronto con le istituzioni.
Stefania R. – Che nelle Marche solo il 5% della popolazione sia femminista non mi sembra grave perché non credo che a Roma siamo molte di più. In quello che dici ritrovo tutti i problemi che trovo a Roma, le stesse difficoltà per esempio rispetto ai consultori che ci sono a Roma, perché non devi credere che a Roma ci sono i consultori.
Renata P. Manca proprio un coordinamento. L’idea di organizzare un gruppo Effe nelle Marche è un’impresa entusiasmante da un lato, defaticante dall’altro; esigerebbe un dispendio di energie enorme ricucire tutte queste situazioni disperse. Ogni giorno abbiamo notizie di un nuovo collettivo spontaneo, che fa nella sua piccola area cose bellissime.
Donata – Allora un gruppo Effe può servire proprio da punto di coordinamento e di stimolo all’organizzazione.
Renata P. – Noi abbiamo bisogno di un punto di riferimento che sia anche uno-strumento propulsore di alcune battaglie, di una stampa che sia di attualità, che sia strumento di lotta con le istituzioni, che sia anche punto di rielaborazione teorica. Noi privilegiamo, rispetto alle nostre scelte la battaglia con le istituzioni, ma certo uno spazio in cui rimediare certi argomenti è indispensabile anche per noi. Il collettivo maceratese soprattutto soffre di questa contraddizione tra la voglia di fare all’esterno e l’esigenza di rimeditare, elaborare un progetto con calma e coi nostri tempi.
Anna C. – Bisogna anche riconoscere i limiti che ha un giornale. Un giornale non può organizzare il movimento o imporre scadenze: o il movimento si organizza da solo e si serve lui di Effe, se no Effe non può farlo. Renata P. – Proprio perché è vero che la nostra realtà provinciale è lo specchio di tutte le contraddizioni della realtà a livello nazionale, forse anche Effe dovrebbe scegliere — con tutte le limitazioni che comporta qualsiasi scelta — dove puntare di più, su battaglie politiche ben precise di confronto con le istituzioni, su progetti di elaborazione teorica più profondi, se privilegiare invece ancora tutta una serie di notizie sull’attualità del movimento; esigenze tutte presenti e fortissime, però sulle quali bisogna scegliere, per non disperdere le proprie energie e rimanere paralizzate, dal non poter rispondere a nessuna esigenza in modo esauriente.
Marina – Secondo me si dovrebbe creare al limite una risposta a livelli differenziati, non si può operare una scelta netta. Non puoi privilegiare la scelta del confronto con le istituzioni su altre, per esempio.
Renata P. – Il confronto con le istituzioni oggi è uno dei temi più pressanti, il movimento è oggi arrivato al punto in cui non può lasciar cadere certi momenti e certe occasioni di confronto proprio a livello nazionale. Ad esempio, la legge sull’aborto, la legge sulla parità, l’organizzazione dei consultori, che sono temi politici ma anche teorici e intorno a questi si potrebbero ricucire il movimento.
Elena V. – A me non piace come sta andando avanti il dibattito. Mi sembra che ci siano alcuni interventi per cercare di capire come fare il giornale, alcuni in cui c’è questa oscillazione tra Effe SOS al movimento e il movimento che fa SOS a Effe, cose che mi spaventano abbastanza. Nel senso che prima di tutto per me Effe serve anche per capire me. Voglio dire questo: prima si parlava di identità del movimento. Rispetto a come mi sento io oggi, anche dopo l’esperienza di Firenze, addirittura è in crisi la mia identità di femminista. A Firenze c’è stato un caos di 3 giorni, con un dibattito che si è svolto in una realtà difficilissima, con una difficoltà di capirci, di comunicare, di andare avanti: secondo me c’è un’impasse molto difficile nel movimento; un certo modo di fare autocoscienza che è andato in crisi, abbiamo bisogno di ritrovarla, di riscoprirla. Se noi abbiamo avuto una qualche identità come movimento femminista, oggi non ci basta più, in questo consiste la «crisi»; nel senso che noi abbiamo avuto per anni i collettivi, abbiamo fatto autocoscienza, ci siamo alleate fra noi, scoprendo molto spesso nella storia delle altre la corrispondenza della nostra storia; però adesso tutto questo non basta più forse. Molte compagne sono venute a Firenze non tanto sul tema della follia, quanto sul «che fare» nel movimento. Non seguo neanche i discorsi che dividono il movimento in settori e aree; io stessa mi sento un po ‘così, un po ‘colà, continuamente lacerata, sono femminista o non sono femminista. Però d’altra parte ti rendi conto che probabilmente è necessaria questa fase, nel senso che dobbiamo costruirci un’altra identità, personale e quindi collettiva, ora non sappiamo bene cosa fare di diverso, constatato che alcune cose non vanno più. Io per esempio ho pensato che in questa fase è importante costituirsi in gruppi di lavoro specifici e all’interno ‘di questi recuperare l’autocoscienza. Quello che non mi va qui è che mi sembra che siamo solo un gruppo di donne venute un po ‘da tutta Italia e che parlano sul grande progetto, però non si capisce cosa pensano, cosa dicono loro. Mi interessa capire se in questo momento di impasse uno strumento di riflessione serve anche a me, a costruire me come un nuovo modo di stare insieme con le donne, allora mi serve Effe che memorizza anche la mia difficoltà di memorizzarmi. È talmente difficile, se proprio non si diventa razionali e perciò coi rischi connessi, ricordare costantemente quello che diciamo anche rispetto a noi stesse. Serve anche a me fissare delle cose che diciamo, però in modo diverso. Oggi, prima di parlare di movimento dobbiamo secondo me, capire che, noi siamo già la contraddizione del movimento; allora non serve tanto fare la teoria del movimento, perché già noi stesse in prima persona siamo lacerate; sul quotidiano che viviamo siamo già una contraddizione viva, presente, vegeta. La mia contraddizione attuale rispetto al movimento, è un modo per esprimere la contraddizione del movimento a Napoli, non è che adesso per farvi capire, cos’è il movimento a Napoli ho bisogno di farvi la relazione, perché tutti i pezzi del movimento oggi me li sento dentro e secondo me oggi ognuna di noi sta così, non so come spiegare.
Insomma Effe serve a me come parte di questo movimento che oggi «sta male» a ricomporre e capire per andare avanti; poi non so che temi affrontare, però intanto so che c’è questo. Un’esperienza come quella di Firenze non l’ho mai vissuta. Fino all’altr’anno col femminismo avevo un rapporto preciso, mi dava una serie di certezze, quest’anno… era impossibile parlare.
Maricla – Il tipo di disagio che abbiamo sentito al convegno è in qualche modo simile a questo. La cosa che ho avvertito a Firenze, è stato il bisogno di rincontrarsi su dei temi di lavoro, di ritrovare un momento di ricomposizione sul lavoro, al limite qualunque tema sarebbe andato bene. Ieri sera dicevamo se fosse stato «donne e bocce» sarebbe stato lo stesso così numeroso, per il bisogno di avere un tema, qualcosa intorno al quale riaggregarsi. Questo a Firenze. Cos’era che anche a me ha messo a disagio stasera:
sentivo un po ‘come se si fosse un «veniamo qui facciamo Effe per il movimento», parlando come se noi in realtà nel movimento non ci fossimo.
Renata P. – Io ho avuto l’impressione esattamente contraria. Neppure per un istante ho avvertito che le compagne non ci fossero in quello che raccontavano. La tensione personale che Elena non ha sentito, io l’ho sentita nelle parole di tutte; ho sentito molto che i nostri strumenti di autocoscienza e separatismo sono momenti per ritrovarci, ma non per aggredire la realtà esterna.
Elena V. – Io sono convinta che in questo momento siamo capaci di aggredire la realtà, proprio con il separatismo e l’autocoscienza,-anche se usati in modo diverso.
Renata P. – In questo siamo perfettamente d’accordo, tanto vero che ho auspicato Effe come strumento di lotta. Solo che ho avuto questa impressione dal tuo intervento: a questo punto fossi tu a dimenticare la realtà che è in questo momento Effe, e cioè un giornale, con tutti i suoi limiti e problemi e che non può essere lo strumento in cui si ritrova Renata Paolini per decidere se deve lasciare l’università o se lavorare solo in un certo modo. Effe è anche questo, ma purtroppo nella sua limitatezza può servire per alcune cose piuttosto che per altre.
Manuela F. – Il fatto è che se avessimo verificato in questi anni che riuscire a prendere le distanze da quello che facciamo paga politicamente le nostre iniziative, probabilmente a questo punto non staremmo qui. È che invece non è riuscita ad andare avanti nessuna iniziativa che espropriasse le compagne dei propri bisogni.
La domanda che mi faccio oggi è: il modo con cui il movimento femminista si organizza — o si disorganizza — risponde più ai bisogni delle donne o no? Non riesco a pensare che l’organizzazione sia un problema di volontà. Nel discorso di Elena mi sembrava di capire: se io non parto da me anche nel momento in cui mi rivolgo alle donne che magari non incontrerò mai, non so in che modo rivolgermi a loro, non so cosa dire.
Renata P. – Questo è vero, ma Effe… in che cosa può aiutarci Effe?
Manuela F. – No, io vorrei fare una domanda e poi se rispondiamo è il confronto che volevamo tutte. Quando pensiamo ad uno strumento, che poi ha una vita sua che prescinde in parte da quella che tu gli hai impresso, .(questo è tutto quello che diventa prodotto finito e merce in qualche ‘modo), come ti garantisci una difesa minima di ciò che sei e che vuoi essere, in termini di continuità con quello strumento? Ossia come difendi Effe dall’espropriazione che dà qualsiasi lavoro in qualsiasi giornale? Se non risolviamo questo tra un po ‘di tempo ci troveremo molto attivizzate rispetto alle telefonate di sollecito delle compagne della redazione, e tutte cercheremo di negarci al telefono o di preparare in fretta il pezzo per Effe e ci deresponsabilizziamo tutte. Allora io voglio sapere: nel rapporto donna e istituzioni, è veramente possibile avere un rapporto oggettivo di scontro e modificazione? O funziona il nostro rapporto con le istituzioni (nel senso che le modifica) solo quando è soggettivamente impostato?
Per esempio se non sono motivata soggettivamente — il che non vuol dire che sono motivata solo dal mio privato, ma sono motivata anche dal mio essere sociale — non solo non individuo cosa vogliono dire gli «obiettivi», ma mi de-motivo dopo poche volte, nel senso che la cosa mi annoia e mi stanca. In questo senso trovo ancora insostituibile la pratica dell’autocoscienza; rivisitiamola come ci pare, ma quel modo di comunicare fra noi non lo reputo solo una difesa, quanto piuttosto un attacco incredibile alla società così com’è strutturata, perché non ci espropria, permette di esprimere i propri bisogni.
Però su questo, rispetto al giornale, esprimiamoci. Siccome si tratta di individuarne le finalità, se per esempio la collaborazione ad Effe non corrisponde ad una finalità che è anche personale io non collaboro, perché allora preferisco imboccare la strada dell’emancipazione e basta.
Donata – Be’, questo mi sembra scontato.
Manuela F. – No, non lo è per un motivo: rispetto ad una iniziativa che non ha coirle interlocutore diretto il movimento, ossia una cosa di cui più o meno il volto ce l’hai nella testa, ma è anche un esterno che non controlli tutto, come mantieni la motivazione personale a fare questo e dove scatta invece il volontarismo? Vorrei sapere questo, perché questo significa procedere in continuità con quella che è stata la mia pratica femminista’; dove viene saltato questo passaggio mi trovo a lavorare qui come mi troverei in qualsiasi altro collettivo editoriale, non femminista.
Allora a quel punto mi peserebbe l’assenza maschile, perché in un collettivo
misto mi scontrerei sul piano dell’emancipazione, di cui capisco certi strumenti, mentre invece è ancora insostituibile secondo me una cosa in cui siamo solo donne, come questo. Che vuol dire che siamo solo donne? È indispensabile la verifica di esistenza personale dentro queste cose, e certo non intendo raccontiamoci la nostra infanzia. Qui in questo momento perché siamo motivate a starci? A prescindere da quelle che sono le nostre situazioni, casalinghe o regionali, perché?
Daniela C. – All’interno di Effe il grosso problema è sempre stato tra quelle che lavoravano al giornale, cioè il collettivo di chi lavorava avendo scelto questo lavoro come militanza e faceva tutto e chi invece collaborava saltuariamente. Fare un giornale che esca mensilmente significa acquisire determinate tecniche che puoi insegnare, ma ci sono sempre delle persone che si devono responsabilizzare, perché non è fare Sottosopra, che può uscire saltuariamente, o Differenze, dove è un gruppo che fa il giornale, l’esperienza è quella di fare un giornale, farlo collettivamente; Effe ha il grosso problema che ci sono alcune compagne che fanno materialmente il giornale e lo mettono insieme, lo impaginano, vanno in tipografia, seguono la amministrazione, seguono tutta la vita del giornale e le altre che bene o male si sentono «esterne» a questa cosa. Noi abbiamo un rapporto con questo giornale, io ho cercato di analizzarmi ed è una gran parte della mia vita, della vita lavorativa, della militanza politica, e tutto. Chi deciderà di partecipare al giornale si troverà con questo fatto.
Ad un certo momento sono sicura che molte non si sentiranno coinvolte perché non partecipano alla vita quotidiana di Effe’— dal tipografo allo stagnaro — chi decide di partecipare, si ponga questo problema e si chieda perché e cosa le interessa fare.
Lucia B. – C’è un altro tema da verificare fra noi, quello del nostro rapporto col lavoro e del lavoro fra donne in particolare. La maggior parte di noi di Effe veniva da collettivi in cui bene o male si dava la stura a tutta la parte irrazionale in tutti i sensi; l’autocoscienza e la conoscenza dell’altra e poi le pratiche di gruppo però senza nessuna costrizione di nessun tipo operativa. A Pompeo Magno, non si scopavano manco le cicche per terra, tale era lo sbraco — giustificatissimo intendiamoci — a tutti i livelli, per cui il collettivo si viveva come momento totalmente distaccato da ogni tipo di realtà. Eravamo in due a pagare la bolletta della luce ed eravamo accusate di operativismo. In tutti i collettivi succede, quelle di noi che stanno a Effe da anni, questa cosa non dico che l’hanno superata, ma mediata attraverso il tentativo di conciliare queste due pratiche: lo stare fra noi però anche la realtà contingente di un giornale. Gli attacchi che abbiamo subito spesso erano su questo ritirare ogni volta l’energia, l’attenzione, le potenzialità di un gruppo lavorativo sul fatto «non facciamo autocoscienza, non ci conosciamo fra noi» e quindi la paralisi e la colpevolizzazione.
Daniela C. – Ecco perché Effe, il collettivo redazionale, si era posto come collettivo organizzativo-coordinatore, il che non vieta che se partono dei gruppi di lavoro specifici le compagne della redazione partecipino ai gruppi che le interessano. Nei riguardi dell’allargamento dei gruppi Effe noi ci poniamo solo come elemento che tira le fila. Abbiamo visto che senza un nucleo del genere il giornale non ce la fa ad uscire: il giornale esiste, non vorremmo farlo morire.
Maricla – Se ho capito bene l’intervento di Manuela era proprio in questo senso: Effe le interessa in quanto avvia una nuova prassi di lavoro, con le donne, in un certo modo, che però esca all’esterno, quindi finalizzato ad una produzione di qualcosa. In questo senso si ricollegano un po ‘gli interventi di Elena, quello di Lucia e questo di Daniela nel senso che in fondo il progetto che noi avremmo quando diciamo «ci poniamo come organizzatori», è questo di far partire gruppi non più aggregati in modo generico, ma su interessi specifici e per quanto possibile, finalizzati a questo lavoro del giornale. Allora diventa tutto meno astratto, anche il discorso della descrizione delle singole realtà cittadine, del rapporto col proprio collettivo, del proprio collettivo con gli altri gruppi, del come vai agli altri gruppi, di che funzione ha la coordinatrice di un gruppo cittadino. Trovo difficile spiegarlo. Partendo dalla verifica della disponibilità a porsi in questa nuova ottica di lavorare con le donne, approfittando del fatto che esiste Effe, cioè uno strumento che serve (che poi definiremo ancora meglio per chi e per come serve) è possibile ricucire un sacco di cose, ricucire molte realtà e anche molti disagi, che si vivono perché in fondo stiamo disperse.