ma in realtà che cos’è?
La necessità di una organizzazione su basi razionali della collaborazione economica internazionale era apparsa chiara ancor prima della fine della seconda guerra mondiale. Già a quell’epoca, in Inghilterra e in America, si era cominciata a delineare una nuova concezione della politica economica internazionale basata sull’idea che questa dovesse essere regolata secondo criteri razionali di distribuzione dei vantaggi del progresso, in modo da ridurre le ragioni di contrasto tra i diversi paesi.
Non si dimenticava, infatti, che all’origine della presa del potere da parte dei nazisti in Germania — e quindi della guerra — c’era stata proprio una gravissima crisi economica.
Le discussioni sulla organizzazione monetaria mondiale da creare nel dopoguerra si erano concluse a Bretton Woods, un tranquillo paesino degli Stati Uniti, dove nel luglio del 1944 venne convocata una Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite. Da qui nacquero due organismi internazionali: il Fondo Monetario Internazionale (col compito di occuparsi dei problemi immediati che di volta in volta si pongano ai vari paesi, come squilibri da importazioni ed esportazioni) e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, che doveva intraprendere un’azione di sviluppo economico a livello mondiale per distribuire i capitali disponibili per investimenti in tutti i paesi del mondo.
Il punto fondamentale del nuovo sistema monetario internazionale era rappresentato dal fatto che debiti e crediti tra i paesi sarebbero stati regolati in dollari oppure in oro e ogni paese doveva fissare il valore in dollari della propria moneta (es: 1 dollaro = 625 lire), evitando che questo valore cambiasse più dell’1% in più o in meno. Il dollaro veniva così ad essere il perno del sistema, tanto più che era fisso anche il cambio tra dollaro e oro (35 dollari per un’oncia d’oro). A questo tasso gli Stati Uniti si erano impegnati a convertire in oro eventuali crediti in dollari dei paesi aderenti al sistema. Il fatto che dollaro e oro assumessero quindi una posizione di dominio assoluto rispetto a qualsiasi altra moneta, rispecchiava semplicemente una realtà, dato che tutti i paesi del mondo uscivano dalla guerra pesantemente indebitati con gli Stati Uniti che avevano nelle loro casseforti i due terzi dell’oro monetario esistente al mondo. I paesi aderenti al sistema si impegnavano a mantenere in equilibrio la propria bilancia dei pagamenti; solo gli Stati Uniti, con la cui moneta si svolgeva il commercio internazionale potevano — volendo — stampare dollari senza limitazione. Ma l’evenienza che gli Stati Uniti dovessero ricorrere a questa posizione di privilegio per comprare all’estero più merci di quante riuscissero a vendere, sembrava — nel 1944 — assolutamente impossibile dato che tutto il mondo aveva assoluto bisogno dei prodotti americani, mentre gli Stati Uniti erano non solo autosufficienti, ma sempre afflitti da un eccesso di produzione, specie in campo agricolo. Alla fine della guerra il resto del mondo era invece distrutto, affamato di dollari con cui pagare non solo le materie prime necessarie per la ri- costruzione, ma anche i prodotti agricoli e industriali. Questo periodo, nella storia post-bellica del dollaro, viene chiamato «periodo del dollar gap (carenza di dollari)». Gli Stati Uniti varano piani giganteschi per la ricostruzione dei paesi europei (come il famoso piano Marshall) sia vincitori che vinti, fornendo capitali, macchine, attrezzature, viveri e dilazionando il rimborso dei debiti di guerra. è chiaro, naturalmente, che gli Stati Uniti hanno bisogno di mercati in cui sia possibile esportare i prodotti della loro potente macchina industriale. Grazie anche a questi aiuti, in appena dieci anni, Europa e Giappone si risollevano, i loro sistemi economici si rimettono in movimento, le bilance dei pagamenti incominciano ad essere in attivo, tanto che nel 1958 undici paesi dell’Europa occidentale si sentono sufficientemente sicuri da ristabilire — in base agli accordi di Bretton Woods — la piena convertibilità della loro moneta. Il dollaro è sempre il signore del sistema ma non è più il padrone assoluto. è proprio nel momento in cui sembra che il sistema creato dagli accordi internazionali del 1944 si stia realizzando in pieno, che qualcosa comincia a scricchiolare: molti paesi che hanno accumulato dollari vendendo all’estero più merci di quante ne abbiano acquistate, cominciano a chiedere di convertire i loro dollari in oro, alleggerendo considerevolmente le riserve americane.
Al tempo stesso le grandi società americane — approfittando dell’alto valore del dollaro che, rispetto alle monete europee era stato fissato quando l’Europa era semidistrutta — cominciano ad effettuare investimenti un po’ dovunque, ma specialmente in Europa, acquistando aziende locali o costruendo filiali ex novo. Un flusso ancora maggiore di dollari varca l’oceano, esportando inflazione. La bilancia dei pagamenti americana comincia a mostrare segni inquietanti: dal «dollar gap» si sta passando al «dollor glut» (alluvione di dollari), ancora accresciuto, a partire dal 1965, dalle spese americane per la guerra del Vietnam. In Europa nasce il cosiddetto «eurodollaro» un mercato di dollari in mano a privati non-americani che vengono prestati da appositi istituti bancari per investimenti o speculazioni in tutto il mondo. Alcuni paesi, in particolare la Francia, non cedono alle pressioni statunitensi perché gli europei riducano al minimo le conversioni in oro che minacciano di esaurire la riserva aurea degli USA.
Ma lo squilibrio è ormai troppo forte e nell’agosto del 1971 Nixon dichiara al mondo che il dollaro non è più convertibile in oro. Il dollaro viene inoltre svalutato (rispetto alla lira, per esempio, il dollaro scende a valere non più di 580 lire, e si mantiene su questo tasso fino all’estate del 1973), in modo da rendere più care le importazioni di merci straniere negli Stati Uniti e meno care le esportazioni. Gli USA decidono inoltre di porre termine al loro impegno militare nel Vietnam, divenuto troppo oneroso.
Dopo queste decisioni il caos monetario è indescrivibile. Insieme alla convertibilità in oro del dollaro, pilastro principale del sistema, i princìpi di Bretton Woods sembrano crollare. Da ogni parte si chiede che venga varato un nuovo sistema monetario internazionale. La creazione presso il Fondo Monetario Internazionale di speciali diritti di prelievo pone una toppa — provvisoria e parziale — alla crisi del sistema. Il Fondo attraverso le assegnazioni di questi Diritti Speciali di Prelievo obbliga infatti i paesi, la cui bilancia dei pagamenti è in attivo, a prestare parte delle loro riserve a quelli deficitari. Così rattoppata, la situazione regge — tra continue discussioni sulla creazione di un nuovo sistema monetario internazionale — fino al 1973, quando tutto viene rimesso bruscamente in discussione con l’apertura della crisi petrolifera da parte dei paesi produttori di petrolio. L’inflazione nel mondo, da strisciante che era (5-6% all’anno) diviene galoppante (10-15 o addirittura 20%). I prezzi di tutte le materie prime crescono vertiginosamente provocando una brusca redistribuzione di ricchezza tra i vari paesi, a vantaggio dei paesi esportatori di materie greggie che, se in qualche caso sono paesi in via di sviluppo dell’Africa e dell’Asia, più spesso sono gli stessi Stati Uniti, Canada, Sud Africa. A loro voltagli aumenti determinano l’aumento del prezzo dei prodotti lavorati (ad esempio l’aumento del prezzo del petrolio ha provocato non solo l’aumento della benzina o delle tariffe aeree, ma di tutti i prodotti ottenuti dalla lavorazione del petrolio, come le materie plastiche e i fertilizzanti, con conseguenze anche sui prezzi dei prodotti agricoli).
A ciò si aggiunga che alcune annate particolarmente negative per l’agricoltura dell’URSS e dell’India hanno fortemente ridotto la disponibilità mondiale di cibo e siccome la domanda è in aumento e non può essere ridotta si è creato un fenomeno di «inflazione da domanda» nel campo dei prodotti alimentari, cioè una disponibilità, di chi ha bisogno a comprare a prezzi più alti, ed una reticenza in gran parte speculativa dei produttori a vendere.
A questa situazione in campo internazionale in Italia si è aggiunta una situazione economica interna che si è andata deteriorando sempre più col passare degli anni. Si è prima di tutto rivelato che il tanto decantato miracolo economico italiano era in realtà fondato su salari così bassi da permettere non solo agli industriali larghi margini di guadagno per nuovi investimenti, ma anche ai commercianti, ai professionisti, ai burocrati e a tutte le altre classi burocratico-parassitarie di godere di un tenore di vita senza rapporto con la loro reale utilità sociale.
Che ciò non potesse durare lo si era visto nel 1969, quando la classe operaia aveva chiarito – con l’autunno caldo – di non essere più disposta a subire, e di volere una parte del benessere ad essa spettante.
Mentre i primi emigrati al nord (per non parlare di quelli emigrati nelle officine tedesche e nei cantieri edili svizzeri) avevano lavorato instancabilmente, risparmiando lira su lira per poter ritornare al più presto al paese natale, disinteressandosi di qualsiasi cosa (perfino dei sindacati) che potesse distrarli dalla loro opera di formica operosa, ed avevano accettato condizioni di vita umilissime, i loro figli -consci ormai dell’impossibilità di ritornare «al paese» -avevano già da tempo giustamente cominciato a rivendicare i loro diritti e imparato ad usare gli strumenti della lotta sindacale.
Ciò è bastato a mettere in crisi in primo luogo le piccole imprese, il cui sviluppo dipende principalmente dall’autofinanziamento tramite accumulazione dei profitti, ed ha messo in evidenza la vera condizione delle grandi imprese burocratizzate che vivevano antieconomicamente solo grazie ai bassi salari. Ne è seguito uno spostamento delle risorse degli industriali, oltre che verso l’estero, verso gli investimenti puramente speculativi: case, terreni, opere d’arte, ecc. L’inflazione, già determinata da cause internazionali, è accresciuta da questa corsa generale all’acquisto di beni rifugio, cioè di quei beni che non possono essere danneggiati dalla svalutazione. I prezzi delle case e di conseguenza degli affitti sono andati alle stelle.
Quest’ultimo tipo di inflazione è quella che viene definita «da domanda»: i prezzi aumentano perché la richiesta da parte dei consumatori aumenta più rapidamente della capacità di chi produce un certo bene a soddisfare questa domanda. Questa inflazione si è aggiunta a quella «da costi», dovuta in parte a contingenze internazionali – come si è visto – in parte all’aumento spropositato degli stipendi degli alti burocrati e dirigenti che hanno fatto sì che anche il prezzo dei servizi (informazione, ospedali, telefono, trasporti, elettricità), centri di potere clientelare, aumentasse vertiginosamente. C’è infine una terza causa dell’inflazione che dipende dal comportamento del governo di fronte a questo fenomeno. Lo Stato, che, come è noto, è indebitato con un gran numero di cittadini e con le banche attraverso le cartelle del debito pubblico, è – naturalmente – di fronte all’inflazione, nella posizione di tutti i debitori, che non possono vedere non di malocchio un fenomeno che diminuisce, svalutando la moneta, l’ammontare reale dei suoi debiti. è vero che in teoria lo Stato rappresenta tutti, e che dovrebbe quindi curare in primo luogo gli interessi di tutti i cittadini (anche di quelli che avendo risparmiato lira su lira vedono l’inflazione distruggere il frutto di questi sacrifici); ma ci sono governi più sensibili a questo loro dovere di proteggere tutti, ed altri governi meno sensibili. Il governo italiano appartiene certo a questa seconda categoria, anzi appare fondato su un modo di far politica che inevitabilmente lo porta ad andare contro l’interesse della generalità dei cittadini. Attraverso vari sistemi, tutti i grandi gruppi industriali sono pesantemente indebitati nei confronti di enti più o meno controllati dallo Stato. Per ottenere questi finanziamenti questi grandi gruppi hanno sostenuto e sostengono tuttora uomini e gruppi politici, i quali garantiscono, in cambio, che gli interessi di questi gruppi passeranno sempre avanti a quelli del risparmiatore o del lavoratore a reddito fisso, anche egli colpito in modo fortissimo dalla svalutazione della moneta. Se si aggiunge l’interesse di un gran numero di uomini e di forze politiche ad alimentare con lauti stipendi un gran numero di capi elettori e capi clientela, di burocrati che fingono di non accorgersi delle irregolarità amministrative e di giornalisti addomesticati; e se si tiene conto del fatto che sono proprio questi gruppi sociali a tenere alta la domanda di beni di consumo e quindi ad accrescere l’inflazione da domanda, si ha un quadro abbastanza completo delle cause del rapidissimo e continuo aumento dei prezzi in Italia. A questo concorrono, indubbiamente, eventi naturali, fatti economici internazionali, ma soprattutto il comportamento della classe politica che governa l’Italia, e che appare impossibilitata a fare una politica diversa da quella degli ultimi trent’anni, perché se smettesse di favorire coloro che sull’inflazione ci guadagnano distruggerebbe la base stessa su cui poggia il suo potere.