una testimonianza

ottobre 1974

Ho 25 anni, non sono sposata. Da tre anni non sono più vergine e ho fatto due aborti. La prima volta, due anni fa, ci sono rimasta perché lui «faceva attenzione» e io mi fidavo, così mi ha portata da un’ostetrica, che ci ha accompagnati nello studio, perfettamente attrezzato, di una sua collega. Qui c’era un medico che mi ha fatto l’anestesia: mi hanno svegliata con un caffè, non avevo nessun mate e tutti erano gentilissimi. Sono stata a casa del mio uomo per due giorni e poi sono tornata in ufficio. Nessuno si è accorto di niente, neppure mia madre e non ho avuto nessuna conseguenza. Il raschiamento è costato 350 mila lire, che non ho pagato io perché non me lo sarei mai potuto permettere. Appena rimessa un pò in sesto il ginecologo, un nome illustre, mi ha dato la pillola, che ho preso ininterrottamente e senza nessun inconveniente, per diversi mesi. Poi ha deciso che mi doveva mettere la spirale, molto più pratica della pillola, diceva lui. Quando mi ha introdotto quest’affanno di plastica con una specie di siringa, ho avuto un male cane, che mi è durato per una settimana, poi è passato tutto ed ero piuttosto soddisfatta. L’ho tenuta per quasi due anni e devo dire che, tranne qualche dolorino ogni tanto e delle perdite leggere, la cosa funzionava bene. Poi due mesi fa le mestruazioni non sono venute. Sono un pò anemica e ho pensato a un periodo di debolezza ma per scrupolo ho fatto il test di gravidanza: ero incinta. Non ci ho voluto credere e l’ho rifatto. Era vero. Ho telefonato al ginecologo (un altro, perché mi ero accorta che il luminare era un ladro, avendomi fatto pagare 35 mila lire la spirale che in Svizzera si può comprare agevolmente per 500 e spiegandomi che non mi faceva pagare la mano d’opera). Il ginecologo accoglie la notizia con lieto stupore: sono quel famoso 1% su cui la spirate fa cilecca: lui non mi può aiutare, però mi toglie la spirate, ad ogni buon conto. Il bambino rimane e io non lo posso né voglio tenere. Sono anche sola, perché ho piantato il padre del bambino venti giorni prima. Non posso tornare dalla stessa ostetrica perché non ho tanti soldi. Mi rivolgo a un indirizzo che mi fornisce un amico medico, mi metto d’accordo con l’ostetrica, dopo molti tira e molla, per 250 mila lire, la mia quattordicesima. Mi fissa l’appuntamento per le sette del mattino dopo; a casa dirò che vado in ufficio, ai col leghi che prendo un giorno di riposo. Mi hanno avvertita di non andare accompagnata e di lasciare la macchina qualche isolato prima. Mi fanno aspettare in un salotto moderno pieno di soprammobili, con due divani e molte sedie. Con me ci sono altre sette donne, cosa che non mi aspettavo e che mi mette in allarme. Sono tutte sotto i trent’anni, per lo più sposate e già con due o tre bambini. Due hanno senz’altro meno di vent’anni, una è una biondina che è venuta con la mamma, sono forse contadine, sicuramente immigrate, l’altra è una ragazzina disinvolta, sembra una studentessa. Hanno tutte molta paura e io anche. Restiamo lì senza dirci niente, senza guardarci, imbambolate dal sonno, dalla fame e dalla tensione. Alle 8,30 fa la comparsa la donna che ci ha ricevute il giorno prima, ci mette in mano gli antibiotici, ci spiega che per un mese non dovremo avere rapporti» perché restate subito incinte» non fare il bagno, né lavarci i capelli. Ci terrorizza dicendoci che la casa è sotto controllo della polizia e così pure il telefono e che se ci pescano finiamo in galera per 4 anni (loro no perché hanno amicizie influenti). Spiega che l’intervento sarà fatto in un altro posto, segreto, e sparisce.
Non vedremo più nessuno fino alle 13. Sei ore snervanti, sedute su una sedia di plastica. Mi sento in dovere di spiegare che io l’ho già fatto, che è una cosa da niente, ma gli sguardi delle altre sono increduli e impauriti. Una donna bionda, con gli occhiali mi spiega che lei ha già due bambini, che il dottore non ha voluto darle la pillola. La madre della ragazza racconta allegra, lavorando all’uncinetto, che anche lei ha abortito ai suoi tempi, senza anestesia e che poi ha fatto due ore di corriera in piedi per ritornare al paese, ma la storia non conforta nessuno. Ad un certo punto si affaccia una cameriera, annunciando che scende a fare la spesa e rimaniamo sole nell’appartamento. Abbiamo caldo la paura si sta trasformando in abulia. Guardo le mie compagne: sono tutte vestite bene, signore medio o piccolo borghesi, qualche impiegata. La biondina sta appiccicata alla finestra e scambia segni con suo marito, che, nonostante le proibizioni, è rimasto ad aspettarla. All’una, finalmente si apre la porta: una bruna spagnoleggiante ed occhialuta si scusa per l’attesa: ci ha fatte venire alle 7 per evitare che gli inquilini si insospettissero, poi chiama le prime tre e se ne va con loro. Dopo mezz’oretta tocca a me, a una rossa con i riccioletti e ad una molto pallida e magrolina. Usciamo, ma il tragitto non è lungo, dal pianerottolo passiamo con molta circospezione all’appartamento di fianco. Abbiamo la visione di un tavolo coperto di ferri nella cucina in fondo al corridoio poi ci fanno entrare in un salottino e ci mollano di nuovo lì. è un salotto con delle pretese, molti libri di arte e di medicina, due divani, giocattoli sparsi. Si sente un grande andirivieni poi la gitana che bestemmia e insulta qualcuna perché non vuole star ferma. Ci prende il panico. E se non ci fosse l’anestesia? Si affaccia la donna che ci ha ricevute, ha i guanti di plastica trasparente, è insanguinata fino ai gomiti. Fa passare una delle mie compagne, chiudo la porta e cerco di parlare un pò con la rossa, che quasi non respira dalla paura. Dice che forse è di tre mesi o che aspetta due gemelli, perché è già grossa, ha paura che non le faranno l’anestesia; infatti è così, la sento lamentarsi debolmente per dieci minuti supplicare che lascino andare, poi basta. Tocca a me: mi fanno entrare nel bagno. La vasca è piena di acqua e sangue: una ragazza col camice lava degli stracci sanguinolenti, nel lavandino ci sono i ferri insaponati. Mi ordina di fare pipì e di mettermi in un angolo, senza scarpe, né mutande. Rimango in piedi davanti al bidè poi entra la spagnola, fa pipi anche lei, mi fa due complimenti, mi dice che domani parte in vacanza. Mi fa cenno di seguirla. Sono in tre, mi stendono sul tavolo di cucina, mi mettono in posizione ginecologica, le gambe appese a due staffe fissate al tavolo, m iniettano l’anestetico nel braccio. Purché finisca in fretta… M sveglio con immensa fatica: mi gira la testa, ho male al ventre, m sento a pezzi. Sono su un letto matrimoniale coperto di cerate, con un plaid addosso ma ho tanto freddo, mi riaddormento, mi risveglio: ci sono altre due donne sul letto accanto a me. Una è addormentata, l’altra seduta, pallidissima fissa il muro. Ci guardiamo, le chiedo come va, non ha quasi la forza di rispondere. Per terra, distese su coperte, ci sono altre due, una vomita, l’altra si lamenta. Mi sento malissimo, ma voglio assolutamente andar via, mi alzo, riesco a vestirmi, vado a sedermi nel salotto dove c’è la studentessa che vomita anche lei e la biondina che piange come una vite tagliata. Chiedo se m possono dare qualcosa, un caffè: non possono. M suggeriscono, prima di uscire, di «passare» dalla portinaia. Saluto e faccio tanti auguri a tutte, passo senza fermarmi davanti alla portinaia e me ne torno a casa.
Per mia madre saranno mestruazioni più abbondanti del solito (non sanguino quasi niente) per i colleghi un malessere improvviso, ma fra tre giorni sarà di nuovo in ufficio e potrò rifare le cose di sempre, come se niente fosse successo. Non ho avuto male, né conseguenze, solo, per una settimana, ho sofferto di insonnia.

Considerazioni in margine al convegno dell’AIED.
Pensavamo che il problema della riproduzione fosse di competenza della donna, non soltanto perché essa avviene nel suo corpo, ma perché il «prodotto» ne condiziona tutta la vita. E ancora una volta dobbiamo riconoscere di esserci sbagliate. Le donne, a quanto pare, sono puri strumenti da usare secondo i più «vasti» interessi e le esigenze più «pressanti» dell’umanità (di cui però, guarda un po’, costituiscono il 51%).
Il convegno tenuto dall’AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica) in collaborazione con I’IRIDE (Istituto per Ricerche e Iniziative Demografiche) ce lo ha chiaramente dimostrato, né il nome del convegno «Popolazione e Programmazione» poteva trarre in inganno. Erano presenti personalità politiche di diversi fronti (dai socialisti, che hanno sempre dimostrato maggior apertura verso questo tipo di problemi, alla democristiana M. Eletta Martini, unica donna in un consesso di uomini) un compromesso storico di politica demografica? Nella mattinata, dedicata agli interventi ufficiali e rivolta alla stampa, abbiamo sentito lunghi discorsi sulla «rarefazione delle risorse», sull’«accentuazione degli inquinamenti», sul progressivo aumento della «disoccupazione», abbiamo sentito trasformare la nostra sessualità e i nostri organi riproduttivi in aride cifre, abbiamo diligentemente appreso che «per raggiungere il livello di 2,1 figli per donna, che potrebbe anche essere considerato un obiettivo di popolazione, la fecondità (sic) delle donne del Mezzogiorno dovrebbe continuare la propria tendenza attuale ad una diminuzione pronunciata, mentre per la fecondità delle donne del Centro Nord si dovrebbe avere un mutamento di tendenza che dovrebbe portare ad un aumento della fecondità, attualmente invece in fase decrescente». (Da quando in qua «fecondità» e «natalità» sono sinonimi?).
Al di là dei contenuti inequivocabilmente «malthusiani» emersi dal convegno, il linguaggio stesso usato dai partecipanti ci ha chiaramente illuminato sulle loro intenzioni. Noi donne siamo, come sempre, considerate alla stregua dei macchinari di una grande industria, da sfruttarsi al massimo in periodi economicamente favorevoli, da usarsi con parsimonia o addirittura da mettersi a riposo in periodi di magra.