quel boom si chiamava donna
Quando analizziamo i dati del passato miracolo economico, sviluppatosi in Italia fino verso gli anni 1962-63, vediamo che gran parte dei settori su cui era fondato il boom erano settori a prevalente manodopera femminile. Le industrie fiorite sull’onda delle esportazioni italian style, pellerie, maglierie, tessili, dell’abbigliamento, della ceramica, hanno goduto infatti di una competitività basata su quella particolare forma di protezionismo costituita dal basso costo della manodopera e dal cronico ritardo dell’adeguamento dei salari rispetto alla produttività.
Forme di lavoro arcaiche come lavoro a domicilio, lavoro minorile, appalti di manodopera, impensabili in altri paesi industrializzati dove il contenimento dei costi di produzione si è basato soprattutto sul rinnovamento delle tecnologie e degli impianti, sono tuttora una realtà rilevante nella vita economica italiana, se non a volte addirittura in espansione. L’inserimento dell’Italia nell’area capitalistica avanzata, basato su queste strutture precarie a alti costi sociali, è stato pagato in grandissima parte dalle donne. Le donne sono state, insieme agli emigrati meridionali, un serbatoio di manodopera disponibile a basso prezzo, da usare quand’era necessario e da cacciare dalla produzione quando non serviva più. Il lavoro a domicilio, che interessa quasi due milioni di persone, riguarda per l’SO per cento le donne lavoratrici; donne che la miopia imprenditoriale del padronato italiano, l’assenza di servizi sociali e il persistere di una mentalità contraria all’emancipazione femminile hanno contribuito a tenere in casa isolate a sgobbare in silenzio, con orari di lavoro due volte quelli stabiliti nelle fabbriche, senza aver diritto a ferie, assistenza mutualistica, pensione, assegni familiari. Centinaia di tipi di oggetti, dalle scarpe di gomma ai tostapane ai pomelli per autovetture alle penne biro ai giradischi, vengono fabbricati in questo modo semiclandestino, i cui dati sfuggono ad ogni controllo. Le lavoratrici stesse eludono i controlli (esiste una legge recentemente varata per la regolamentazione del lavoro a domicilio) sapendo che spesso rischiano soltanto di perdere ogni possibilità di lavoro da parte dell’azienda appaltatrice e di conseguenza la propria quota settimanale di diritto alla sopravvivenza.
Frequentemente, nota un rapporto sulla situazione sociale italiana pubblicato dal Censis, si sono verificati casi di sconcentrazione delle aziende che hanno permesso un’elasticità concreta, quasi un modo di adattarsi a situazioni di crisi non altrimenti superabili. Accade cioè che in mancanza di strutture industriali adeguate, è proprio grazie a questo tipo di lavoro nero che alcune zone non vengono colpite dagli aspetti più clamorosi della recessione: con senso antico dell’inventiva e dell’improvvisazione, città come Prato o Carpi riescono nel giro di poche settimane a trasformare la produzione adeguandosi alle nuove esigenze del mercato. Carpi, una città senza fabbriche, produce da sola la metà di tutta la maglieria prodotta in Italia, mentre a Prato numerose ditte industriali non sono altro che un’etichetta e un ufficio da cui partono le commesse per centinaia di lavoranti sparse nelle cucine e negli scantinati della città. Per queste lavoranti individualmente i cambiamenti di produzione sono spesso veri e propri drammi: non hanno ancora finito di pagare il vecchio telaio che devono acquistare una macchina diversa e ancora più costosa (un’altra delle economie realizzate dall’imprenditore riguarda le attrezzature, che sono generalmente di proprietà delle lavoranti). Spesso anzi, e anche nelle regioni socialmente e politicamente più avanzate, il lavoro a domicilio viene considerato in fondo come un elemento di maggior ordine, e si teorizza che in quelle zone la delinquenza minorile è meno diffusa proprio perché la madre sta a casa, perché il lavoro a domicilio bene o male contiene l’emigrazione e il trasferimento coatto nelle zone industriali, e la famiglia è ancora tutta raccolta, se non intorno al focolare, quanto meno intorno al telaio. Dei due possibili modelli di sviluppo – uno in cui i consumi fossero relativamente controllati e gli investimenti orientati verso la produzione di beni strumentali (macchinari, impianti), con un conseguente sviluppo della formazione del capitale e della produttività agricola, cosa che avrebbe potuto agire da freno all’esodo indiscriminato dalle campagne; e l’altro modello di sviluppo, basato soprattutto sulle esportazioni di beni di consumo, contenendo i costi di produzione con la compressione massima dei salari e con il conseguente rigido controllo delle tensioni sociali – si sa che in Italia è stato scelto il secondo.
Per questo secondo modello era importante che si sviluppassero, oltre ai redditi del settore terziario, fasce di rendite soprattutto urbane, burocratiche e professionali. Queste non solo non incidevano sui costi di produzione e non limitavano i profitti imprenditoriali, ma avevano anche una precisa funzione economica – quella di assorbire la produzione di beni di consumo durevoli (automobili, elettrodomestici) che non trovava sbocchi sui mercati esteri. La funzione di questi ceti medi non produttivi, le cui rendite sono determinate soltanto da speculazione e parassitismo, ne ha determinato l’alleanza con la classe politica in particolare democristiana, condizionando questa stessa classe politica a quell’immobilismo che è caratteristica precipua della società italiana. La manodopera femminile è stata il serbatoio di riserva cui attingere senza provocare ripercussioni sociali di rilievo: meglio licenziare una donna che un capofamiglia, si dice. Poiché il posto della donna è comunque nella casa, né in assenza di servizi sociali sono possibili alternative, l’esclusione di migliaia di donne dalla produzione è apparsa quasi inevitabile. Oltre un milione di donne sono state escluse dal mondo del lavoro nell’ultimo decennio. E gran parte di queste sono andate a gonfiare il numero delle lavoranti a domicilio. La donna ha questo ruolo particolare nel mondo del lavoro salariato, proprio in quanto le strutture culturali in cui è allevata concepiscono la sua funzione principale come quella di moglie e di madre e il suo lavoro come una semplice integrazione del bilancio familiare. Gliene deriva, come sappiamo, un carico di lavoro doppio nel caso fortunato in cui trovi un’occupazione e comunque una situazione di precarietà sociale, di valvola di sfogo della disoccupazione.
Si fa un gran parlare ipocrita della mancanza di qualificazione della donna; ma sono proprio le strutture della sua educazione che sono funzionali al mantenimento del sistema. Puntualmente, anche nell’attuale periodo di riflusso economico, i licenziamenti delle donne sono già cominciati.