bianca bracci-torsi
45 anni, militante da 20 Sezione femminile centrale
D – Da molte parti è stata denunciata una certa incapacità del movimento femminile democratico di costruirsi una propria tradizione; ad esempio a ricostruire il ruolo della donna nella storia del movimento democratico. La Commissione femminile del PCI che contributo ha dato in questa direzione?
R – Abbiamo promosso e sollecitato questa opera sia attraverso la nostra rivista «Donna e politica» che con specifiche pubblicazioni come «la questione femminile nella politica del PCI» di Nadia Spano e Fiamma Camerlinghi o il recentissimo «Per l’emancipazione della donna: 3 anni di lavoro, di dibattito, di lotta». Anche la nuova collana degli Editori Riuniti «La questione femminile» va in questa direzione puntando a raccogliere i contributi sia di protagoniste che di Studiose.
D – Simona Mafai ha scritto «si può certo imputare alle forze politiche di essersi sempre rivolte alle donne solo per arruolarle sotto le proprie bandiere, magnificando piattaforme politiche e programmatiche elaborate senza il contributo femminile, di averle cioè considerate paternalisticamente terreno di caccia e di conquista elettorale individuale ed atomizzata, non interlocutrici aggregate capaci di contrattare le proprie richieste». Credi che questo atteggiamento abbia in certo senso caratterizzato anche l’operato del PCI?
R – Consentimi di completare la citazione «Ma va pur detto che nessun problema politico nuovo, anche se intuito illuministicamente, può essere posto dall’alto, se non in modo molto generico e quindi non incidente sulla realtà, quando manca un riscontro di massa con coloro che devono essere i soggetti e i beneficiari dell’azione di mutamento». Su questo giudizio, esplicitamente riferito alla situazione siciliana del dopo guerra, sono d’accordo e ritengo che riguardi, anche se in misura minore di altri, anche il PCI.
D – Forse una ragione che le donne non hanno partecipato maggiormente come protagoniste è perché non si è partiti da un’analisi dei loro bisogni; dalle contraddizioni in cui vivevano ad esempio i loro ruoli, l’isolamento del privato dal pubblico…
R – NO. È stato proprio con le donne e partendo dai loro bisogni che il PCI si è battuto, negli anni del dopoguerra e dopo, per la parità salariale e per gli asili nido, per il divieto di licenziamento per matrimonio e per l’accesso a tutte le carriere, per l’abolizione del coefficiente Serpieri in agricoltura e per un nuovo diritto di famiglia. Anche nelle rivendicazioni che apparivano essenzialmente economiche non è mai mancata la sottolineatura della parità e della dignità della donna… Tutto questo fa parte di quella storia di cui forse noi non abbiamo scritto abbastanza ma che dovrebbe essere conosciuta da chi oggi si batte per la liberazione della donna.
D – Forse non si tratta solo di contenuti, ma dei modi in cui queste proposte sono elaborate, del metodo di lavoro che vige anche nel PCI. Diverse lettere arrivate a Effe criticano per esempio il fatto che nelle riunioni conta chi fa il bell’intervento, magari di venti minuti, e che le donne non si sentono libere di parlare anche dei loro problemi personali, delle situazioni concrete. Una donna ha scritto: «Dobbiamo sempre preoccuparci di qualche problema, altro da noi».
R – Per quanto riguarda gli interventi sono d’accordo che chi parla bene è più ascoltato e può intimidire, ma mi pare un problema culturale e di linguaggio che non riguarda solo le donne. Non sono invece d’accordo sul vedere nell’assemblea di sezione un momento di sfogo del proprio privato. Questo capitava spesso nel passato quando compagne e compagni ponevano spesso problemi personali certo importanti e veri, ma solo come testimonianza e richiesta di aiuto. Mi pare che oggi le donne italiane abbiano la volontà e la capacità di affrontare e risolvere anche i loro problemi personali individuando momenti di lotta politica >nei quali questi problemi si ritrovano e che pretendano, giustamente, di partecipare al dibattito generale e alle scelte politiche complessive rifiutando il «lamento» che in definitiva presuppone sempre l’intervento di qualcun’altro in grado di interpretare e tradurre in termini politici.
D – Vorrei ritornare al problema della Commissione femminile. Mantenere la commissione non rischia di perpetuare una ruolizzazione delle donne anche nel PCI che non si occupano ad esempio di problemi del lavoro, di problemi finanziari, conservare una tradizione anche di scelte scolastiche di tipo umanistico ed assistenziale?
R – Mi sembra strana questa domanda da parte di una esponente del movimento femminista che propugna quanto meno la separatezza fra i sessi.,. Comunque nel partito questo problema non esiste in quanto molte compagne, anche a livello dirigente, si occupano di agricoltura, di organizzazione, di problemi economici o internazionali. Ti dirò anzi che in certi periodi e in certe situazioni numerose compagne hanno rifiutato di interessarsi agli specifici problemi femminili e abbiamo dovuto fare opera di convinzione in senso opposto a quello che tu mi chiedi.
D – A proposito di elaborazione teorica, di scelte prioritarie, alcune compagne hanno affermato che le donne del PCI, soprattutto a livello dirigente, tendono ancora a delegare agli uomini l’elaborazione più avanzata sul problema femminile, a lasciare agli uomini «anche la audacia delle idee, come li sentissimo inevitabilmente più forti di noi».
R – Vedo con un po’ di meraviglia che anche tu riecheggi atteggiamenti «maschisti» troppo largamente diffusi nella società attraverso i quali si tende ad oscurare il contributo prezioso dato dalle donne in tanti campi e particolarmente in quelli che le riguardano più da vicino. Quanto a noi ti invito ancora una volta all’esame della nostra storia e del nostro oggi: vedrai che l’elaborazione della questione femminile ha trovato nelle donne comuniste delle protagoniste fondamentali. Il che non vuol dire negare, respingere, o non ricercare il contributo portato dai compagni a tutti i livelli.
D – Quali specifici momenti di lotta possono, secondo te, unire le donne comuniste e le femministe?
R – Siamo interessate ambedue all’obiettivo di fondo dell’emancipazione della donna, o alla sua liberazione, come dite voi. Certo sono diversi i compiti e i modi di fare politica di un partito di massa e di un movimento femminista, sento però che c’è bisogno di un confronto sia sui contenuti programmatici della lotta per l’emancipazione della donna sia sui problemi più complessivi di quella che potranno chiamare una strategia della battaglia di emancipazione: in modo che ciascuno, nel suo campo e secondo le proprie caratteristiche, possa dare il massimo contributo.