«felicità» è lotta
Effe ha intervistato Emma Turchi sulla sua vita
Emma Forconi è nata nel 1907 all’Impmneta, vicino a Firenze, da famiglia operaia; mandata a nove anni come apprendista sarta imparò quel mestiere che le permise di mantenere se stessa ed il marito, Giulio Turchi, durante i 17 anni della sua difficile vita di moglie di un prigioniero politico del fascismo. Giulio Turchi, operaio metallurgico, iscritto al PCI dalla fondazione fu arrestato nel 1927. Venne condannato a ventuno anni di reclusione trascorsi nelle varie carceri italiane prima e poi al confine: Tremiti, Ponza e Ventotene. Emma, la cui coscienza e scelta politica erano già avvenute nella primissima giovinezza, come la sua iscrizione al PCI, seguì il marito nei vari trasferimenti da un carcere all’altro, fissando la sua residenza dovunque le fosse possibile essere più vicina a lui.
Giulio Turchi fu liberato nel 1943. Nel dopoguerra fu eletto più volte consigliere comunale e deputato, segretario della Lega dei comuni democratici, consigliere nazionale dell’ANPI, membro del Comitato Centrale e della Commissione Centrale di Controllo del PCI. E’ morto, a Roma nel 1974. In questi giorni è stato presentato a Roma il libro che Emma Forconi Turchi ha scritto sulle vicende degli anni del carcere, il cui titolo La felicità è la lotta, tratto da Marx, è dedicato ai giovani perché smettano di lottare per una vita migliore.
G. Come ti è venuto in mente di scrivere il libro?
E. Eravamo nel 1958. Era un periodo molto calmo, molto buono per me: mia figlia era grande, mio marito era molto occupato con il suo lavoro alla Camera, al Partito ed al Comune; avevo tempo. Mi venne l’idea di scrivere le nostre vicende e Giulio mi esortò. Alla fine diede il manoscritto da leggere ad un critico che però lo fece riflettere sull’opportunità di pubblicarlo, dato che Giulio era una personalità politica di rilievo. Allora mio marito mi consigliò di metterlo in un cassetto ed io non feci obiezioni (1).
G. I capitoli che riguardano la tua infanzia e la tua famiglia sono molto interessanti. Peccato che tu non abbia scritto di più.
E. Ho tenuto a far risaltare il quadro politico: E’ vero, ho vissuto quegli anni per quest’uomo, ma non mi sono chiusa il cervello, ho agito anche con una coscienza politica, non era assente a ciò che mi circondava. E così, gli episodi della mia adolescenza li. ho lasciati un po’ ai margini.
G. Alla fine di ogni capitolo sono riprodotte le lettere di Giulio. Come mai non hai accluso anche le tue?
E. Mi è sembrato inutile in quanto io racconto. E lui testimonia quello che dico, con più evidenza, probabilmente.
G. Hai potuto riunirti a Giulio per due settimane, al tempo del suo confino a Tremiti, Cosa ha significato questo per te?
E. Avevo amato quest’uomo per dieci anni, non follemente, profondamente, e la gioia di riunirsi dopo dieci anni è indescrivibile.
G. Siete riusciti subito a riprendere il vostro «colloquio»?
E. Si, perché c’erano sempre stati colloqui profondi tra noi, tramite le lettere. Io gli scrivevo quasi tutti i giorni e gli raccontavo persino le cose più minute. E’ stato tuto spontaneo come se ci fossimo visti il giorno prima.
G. Nel libro racconti di aver voluto un figlio nel momento di maggior pericolo per Giulio e per te, ancora durante l’occupazione tedesca, dopo la sua liberazione dal carcere.
E. Non volevo restare sola; se Giulio fosse stato preso e ucciso, volevo che mi restasse qualcosa di lui. Avevo 36 anni, non volevo aspettare oltre. Fui irremovibile. Dovetti andare in ospedale per sottopormi ad una paratomia perché, in seguito ad un aborto spontaneo avvenuto al momento dell’arresto di Giulio nel ’27, non potevo più avere figli. E al mio ritorno a casa, quindici giorni dopo, volli subito «iniziare l’opera»…
G. Dal racconto della tua vita durante gli anni del fascismo e del carcere di tuo marito esce la figura ed il carattere di una donna coraggiosa, dalle decisioni autonome e molto difficili. Ma il tuo racconto finisce con la Liberazione.
Emma, dopo la Liberazione, come è vissuta?
E. Dopo la Liberazione Giulio fu nominato assessore al personale di Roma per tre anni. Avevo molto lavoro. La nostra casa, abitavamo allora in via Forlì, era un via vai di reduci, vedove, un continuo pellegrinare di persone, ognuno con i propri problemi. Io mi sentivo a mio agio perché non ho mai vissuta nell’euforia del momento, Seguitavo il mio lavoro politico nei mercati, i tesseramenti per le case..,
G. A quale sezione appartenevi?
E. Alla sezione Italia. L’UDÌ mi mandò delle macchine da cucire e delle donne per confezionare vestitini per i bambini di Cassino. Misi su un laboratorio in casa. Sempre in casa preparavamo la festa della Befana per i bambini del quartiere.
Ho sempre creduto al fatto che non importa avere in tasca la tessera di un partito, o meglio, del PCI: prima bisogna saper fare i comunisti e poi dire «ho la tessera del partito». Una volta, al mercato, stavamo dando dei volantini, incontrai una signora di mia conoscenza «Signora, chi glielo fa fare questo lavoro, ormai lei è arrivata!», mi disse.
Io le risposi «Ah, no signora. Io non sono arrivata. Guardi che io venti anni di galera non li ho mica fatti per arrivare. Per arrivare dove, poi? Mio marito oggi è un deputato, ma io ho sposato un operaio. Sa, signora quando sarò arrivata? Quando vedrò tutti i bambini del mondo che hanno da portare a casa quello che ho io adesso nella sporta della spesa… Allora sarò arrivata…»
Nella vita personale mio marito ed io ci adoravamo.
G. Avevate certamente poco tempo per stare insieme in una vita così intensa di lavoro ed impegno sociale.
E. Si, veramente incominciavamo a dirci «Ma come, siamo tornati come prima?…» Lui, poi, partiva molto. La domenica poi era quasi sempre via: andava nei vari comuni a tenere conferenza. Poi ha iniziato ad andare all’estero ed allora stava fuori anche qualche mese.
G. E tu, non andavi mai con lui?
E. No, perché c’era la bambina piccola. Poi avevamo le nostre vacanze insieme,,, e poi non mi è mai piaciuto seguirlo nei viaggi di lavoro. Non ho mai visto il suo ufficio alla Camera perché non mi piaceva andare sul luogo di lavoro. La nostra vita era a casa. Io mi occupavo di politica per conto mio. Oggi, però che lui non c’è più, nel mio dolore, il mio pensiero si rivolge tutto al primo periodo, a quei sedici anni, non a quest’ultimo in cui sono stata con lui e felice. Forse la felicità l’ho avuta di più nel periodo peggiore.
G. Perché pensi questo?
E. Me lo sono spiegato una notte: perché lui allora era soltanto mio. Dopo non era più soltanto mio: era nel Partito, del lavoro, e soprattuto della bambina.
G. Perché dici che era soprattutto della bambina?
E. Perché l’emotività, la sua parte espressiva d’affetto era tutta per la bambina. Il primo bacio era per la bambina, il secondo era per me. Se ero io ad aprire la porta, il primo era per me…
Ho messo sempre il padre su un piedistallo di fronte alla figlia: forse sono stata io a tirarmi indietro e mettere la figlia avanti. Con tutto ciò il padre non ha tolto nulla a me: non avevamo mai grosse discussioni perché ci è parso sempre che quello che facevamo entrambi ci andasse bene. Anche nei nostri rapporti intimi non avevamo bisogno di tante parole: tutte ci venivano fra di noi.
G. Questa naturalezza e franchezza non sono comuni in una donna della tua età: provengono dall’educazione familiare o te lo sei conquistato?
E. Dalla mia famiglia, neanche per sogno! Mia madre era una donna abbastanza «moderna» per i suoi tempi, ma queste cose non ce le avevano mai dette a noi figli, Io ne ho sofferto moltissimo di non sapere, di sapere tutto dagli altri, in maniere distorta. Questa naturalezza me la sono conquistata negli anni in cui ho vissuto sola ed ho pensato molto: quando si vive nel dolore si pensa di più alle cose e ci si forma di più.
G. Oggi viviamo in un periodo in cui è molto difficile essere una donna, le sono richieste molte cose e il rapporto di coppia è in crisi, tu cosa ne pensi?
E. Il rapporto di coppia deve possedere tutti i «rapporti» al suo interno: la donna deve essere moglie, madre, amante. Molti matrimoni falliscono perché non ci sono tutti i «rapporti», soprattutto nella piccola borghesia: l’uomo considera la donna come moglie e come mamma, mai come la propria compagna. Questo avveniva trenta,quaranta anni fa come oggi. E le coppie spesso non riesceno a costruire tutti i «rapporti» perché la maggior parte dei matrimoni sono «accasamenti». E per accasarsi basta avere una «moglie» e dei «figli».
G. Pensi che il tipo di rapporti completi di cui parli esista tra i compagni proletari?
E. Rispetto alla piccola borghesia, senz’altro!
G. Oggi la donna sente il peso dei ruoli di cui parli; sente che i ruoli di moglie, madre ed amante fanno morire la parte più importante di loro stesse: la vera Io. Come mai osserviamo tante donne disposte a comprendere e così pochi uomini disposti a farlo?
E. È vero… Il rapporto fra moglie e marito è una cosa molto difficile.
G. Ed oggi sembra che sia ancora più difficile perché la donna non è più disposta a subire come prima.
E. Ho osservato l’insoddisfazione della donna oggi, manca loro qualcosa.
G. Questo «scambio» all’interno del rapporto, di cui parli non esiste nem-«bravi compagni», che a casa si commeno da parte di tanti, cosiddetti, portano da piccolo-borghesi.
E, Sono le donne di questi compagni che si sono adattate ad una vita «borghese». E poi questa situazione è funzionale alla mentalità maschile: la casa pulita, il pranzo pronto, fa loro comodo. Hanno tutto il resto fuori di casa.
È diffìcile avere una vita «completa», soprattutto oggi.
G. Se tu, Emma, oggi, guardi indietro alla tua vita come donna, cosa pensi ci sia stato di positivo e di negativo: un piccolo bilancio, insomma!
E. Sono contenta di tutto quello che ho fatto.
Avrei potuto fare di più se avessi avuto più fiducia in me stessa da un punto di vista intellettuale. Per quanto ho dato, sono soddisfatta: la vita è molto lunga, per quanto mi riguarda, e c’è stato tempo di fare molto. Viene la vecchiaia e, se analizzando se stessi, non ci sono dei ricordi che si è fatto qualcosa, per se stessi e per gli altri, la vecchiaia è molto triste. Ho sempre creduto che si debba fare, intervenire, al di fuori del lavoro che ci dà 11 pane quotidiano, perché nella vecchiaia si possa stringere qualcosa nel pugno.
Per me, da questo punto di vista, la vecchiaia non è triste: è brutta in se stessa, ma se riesci a valutarla rispetto a quello che hai fatto diviene meno triste.
Il mio libro l’ho scritto anche per dire ai giovani che è molto bello occuparsi di ciò che ci circonda. Avremo disillusioni, ma non ci dobbiamo fermare.