franca prisco
45 anni, militante dai 1951 Responsabile sezione femminile di Roma
proseguendo il discorso iniziato il numero scorso con l’intervista a Nilde Jotti pubblichiamo una testimonianza e alcune interviste di militanti del PCI. Nei prossimi mesi continueremo il nostro dibattito con militanti del PSI PRI PDUP e dei sindacati.
D – Mi potresti fate un quadro della posizione delle donne nella federazione di Roma, valutando i meriti e i limiti delle discusse commissioni femminili?
F – Per quanto riguarda le commissioni femminili, anche nel nostro partito c’è stato un po’ da sempre un dibattito sull’opportunità ed utilità di organizzarci in commissioni femminili, sia a livello di federazione che di sezione. Va chiarito che le commissioni sono strumenti di lavoro che ogni sezione crea in corrispondenza alle sue esigenze.
D – I membri delle commissioni come vengono scelti?
F – Nella sezione dal comitato direttivo, nella federazione dal comitato federale.
D – Perché non fate eleggere la commissione femminile direttamente dalle iscritte?
F – Non abbiamo mai fatto questa ipotesi. D’altronde le donne iscritte hanno molte possibilità di partecipazione quotidiana, eleggono i delegati ai congressi, eleggono i comitati direttivi, e poi non c’è questa esigenza, non c’è un atteggiamento contestativo all’interno del PCI da parte delle compagne.
D – Una critica che viene mossa al sistema delle nomine è che questo meccanismo di selezione faciliterebbe il perpetuarsi delle stesse persone nelle commissioni, insomma provocherebbe una scarsa rotazione delle cariche. A Roma quante donne sono nella commissione femminile e da quanti anni ad esempio?
F – Tutti i nostri organismi dirigenti si rinnovano ad ogni congresso e le sezioni fanno congressi annuali.
D – Si ma non c’è un’alta percentuale di rieletti? A livello nazionale nella Direzione ad esempio questo avviene, e a livello di federazione?
F – C’è certamente un’alta percentuale di rieletti sulla base dell’impegno, della capacità di lavoro, cioè del valore del compagno o della compagna, ma c’è un’attenzione continua a «promuovere» compagni/e e giovani, a favorire il rinnovamento. Comunque non c’è una visione burocratica, formale delle commissioni. Se anche una compagna non ne fa parte ufficialmente, ma si occupa di un settore, può ed è spesso chiamata a partecipare alle riunioni. Qui a Roma poi, nell’ultimo congresso abbiamo fatto la scelta di dividere le donne membri del comitato federale che sono 28 su 164, nelle quattro commissioni generali in cui si articola il lavoro della federazione: Problemi del partito (4 donne su 31), Problemi stato ed enti locali (9 su 42), Problemi propaganda, cui tuta e scuola (9 su 42), Problemi economici e sociali (6 su 49); proprio per evitare il rischio che la maggior parte delle compagne venissero utilizzate, quasi naturalmente soltanto nella direzione del lavoro fra le donne. Abbiamo inoltre una sezione femminile composta dalla responsabile femminile della federazione e dalle responsabili del lavoro femminile in ognuna delle dieci zone in cui è divisa la federazione di Roma.
D – Un appunto che viene mosso spesso alle donne militanti della sinistra è di aver affiancato gli uomini nelle loro battaglie, ma di essere state raramente protagoniste, ispiratrici di lotte che riguardavano la donna, i suoi bisogni specifici. Nel Lazio mi puoi fare un esempio di una lotta politica in cui le donne sono state la forza trainante, più che le sostenitrici di una iniziativa generale del partito?
F – Nel passato abbiamo impostato la lotta per la pensione alle casalinghe che rivalutava l’importanza del lavoro domestico. Più recentemente abbiamo condotto la battaglia per gli asili nido pubblici qui a Roma. Le donne si sono battute in prima persona per una istituzione che tende a liberarle da un totalizzante ruolo materno, senza evidentemente volerlo negare. È stata una battaglia in cui le donne si sono sentite protagoniste, organizzatrici, e dirigenti.
D – Avete avuto delle resistenze da parte dei compagni a fate un così grosso sforzo organizzativo e politico su questo tema degli asili?
F – A livello di direzione no. Nella pratica da parte di certi livelli intermedi, forse più nel sindacato ma anche nel partito abbiamo avuto difficoltà a far comprendere il valore generale della battaglia per gli asili nido, c’era una tendenza, un’accusa di volerci impegnare in una battaglia settoriale. Noi tutte abbiamo fatto una ferma battaglia di orientamento, di discussione politica in cui i compagni ci hanno visto pari a loro nella capacità di elaborare criticamente una linea politica complessiva.
D – A questo proposito non credi che le donne del PCI hanno spesso lasciato agli uomini anche l’elaborazione più avanzata sul problema femminile?
F – Senz’altro ora c’è una spinta a superare eventuali rischi di delega. Che l’elaborazione della questione femminile nel nostro partito sia stata prevalentemente opera di uomini, questo non saprei. A livello organizzativo, nel CC e nella direzione il contributo che danno le donne sulla questione femminile è senz’altro molto importante.
D – Non pensi però che ci sia una necessità che le donne nel PCI, anche al tuo livello, s’impegnino di più in un lavoro di elaborazione teorica, scrivendo anche più spesso sulla questione femminile? In fondo i grandi scritti sull’argomento nel PCI sono di uomini.
F – Assolutamente si. Credo dobbiamo fare un’autocritica su questo terreno, anche proprio ad un livello non elevato quale il mio. Io personalmente perché non ho scritto? Ecco, io credo non sia prevalentemente un fatto di insicurezza femminile quanto dei ritmi massacranti di lavoro, che rendono veramente difficile trovare il tempo e la concentrazione necessaria per scrivere.
D – Oltre ai ritmi massacranti, diverse compagne trovano ostica proprio la metodologia di lavoro in uso nel PCI: l’abitudine a fare continue riunioni interminabili, dove si «devono fare interventi», dove si parla difficile. Molte donne si dichiarano a disagio con questo modo liturgico di operare. Tu cosa ne pensi?
F – Penso che questo sia un problema reale che probabilmente pesa di più sulle donne e sui nuovi iscritti. C’è bisogno anche da parte nostra di maggiore snellezza. Però nel nostro modo di lavorare nelle assemblee e nelle riunioni c’è un’esigenza d’ordine e anche una garanzia di democrazia. Certo se un compagno parla per mezzora toglie obiettivamente spazio ad altri. Bisognerebbe imparare a fare interventi brevi, specifici, magari su di un punto solo, comunque in un’assemblea dove c’è rispetto e autoregolazione dei tempi il metodo funziona. Inoltre anche «imparare a fare gli interventi» è incentivo alla crescita culturale di ognuno e contributo per gli altri.
D – Che rapporti avete col movimento femminista? Tu personalmente cosa ne pensi? Hai individuato possibili punti di lotta comune?
F – Ci sono alcuni aspetti del femminismo che sono molto positivi: soprattutto la spinta di libertà, di capacità di lotta, di avanzamento, di collocazione della donna, anche se talvolta i modi di espressione possono non trovarmi d’accordo. Capisco la necessità di momenti di aggregazione e riflessione autonoma, quello che mi preoccupa è che un’affermazione intransigente di separatezza porti ad una sottovalutazione, ad una negazione della necessità di un confronto e di momenti di unità con le altre donne e con il movimento democratico e popolare nel suo complesso.
D – Il movimento femminista non teorizza la separazione come permanente, ma come una fase necessaria in cui le donne da sole riscoprono la loro storia, i loro bisogni, le fonti della loro oppressione, scelgono alcune battaglie come prioritarie e poi su queste battaglie si alleano con altre forze, come è successo ad esempio per l’aborto, qui a Roma nella manifestazione che abbiamo fatto con l’UDI. Comunque visto che stiamo quasi certamente andando alle elezioni, puoi specificare meglio quali sono i punti di lotta comuni tra noi e voi?
F – Se oggi c’è una città nemica delle donne è Roma. La cronica mancanza di strutture, il cattivo funzionamento di quelle esistenti gravano quotidianamente sulle masse delle donne, che oltre alla casa devono provvedere ai malati, agli handicappati ecc. Come donne ci possono accomunare le lotte sui problemi della sessualità, e della maternità, la lotta per la rapida realizzazione dei consultori pubblici; soprattutto la lotta per una città che corrisponda alla volontà delle donne di creare condizioni di vita più civili per tutti, alleggerendo il peso, in certi strati sociali veramente disumanizzante, che deriva dalle attuali carenze: basti pensare alle condizioni delle borgate romane ad esempio. Credo che un altro punto su cui si possa trovare accordo sia sulla creazione a livello comunale e di circoscrizione di consulte femminili aperte a tutte le organizzazioni femminili.
D – Nelle liste elettorali riuscirete a raggiungere la parità fra numero di donne e uomini?
F – Noi abbiamo l’intenzione di mettere il maggior numero di donne possibili e non solo di donne comuniste, ma anche di indipendenti, in tutte le liste. Questo non per seguire delle mode, ma per riconoscere la grande crescita del movimento femminile in questi anni.
D – Per quanto riguarda l’aborto si dice che la base femminile del PC abbia premuto per una modifica dell’articolo 5 della proposta. Cosa puoi dirci in base alla tua esperienza qui a Roma?
F – Noi donne comuniste ci siamo appassionate prima dei nostri compagni al problema dell’aborto svolgendo senz’altro un ruolo dirigente. Questo impegno e il vastissimo dibattito che, con tutto il partito, abbiamo concorso a sviluppare nel paese (solo a Roma oltre 200 dibattiti, fin dai primi mesi del 75, che hanno contribuito ad allargare il consenso interno alla necessità di una nuova regolamentazione dell’aborto, anche tra quegli strati — non secondari — di donne e uomini non ancora «pronti» ad accogliere una innovazione di questo genere) credo abbia convinto il mio partito che la formulazione dell’articolo 5 della proposta unificata dovesse essere meglio chiarita per quanto riguarda il ruolo determinante della donna nella decisione finale, da prendere dopo il colloquio col medico.