il personale è politico, a chi somiglia?
Il dibattito sul privato e il pubblico, problema centrale nella lotta di liberazione della donna, ha assunto recentemente proporzioni sempre più vaste e maggiore incisività.
Sotto la spinta delle lotte di massa di cui le donne sono state protagoniste, dal referendum del ’74, alla campagna per la liberalizzazione dell’aborto alla svolta a sinistra del 15 giugno, la lotta per la politicizzazione del privato si combatte su molteplici fronti. Di questa lotta e della psicologia annullante che le si contrappone si è parlato sul Manifesto (A. Armando 0-8-19-VIII-75) su Quaderni Piacentini di luglio (G. Jervis che riconosce la centralità del problema per i movimenti femministi) e recentemente sul Quotidiano dei Lavoratori (27-8-75) in una lettera di alcuni studenti della facoltà di Fisica di Milano. Ci sembra opportuno riconoscere e valutare il significato di questi apporti, e contemporaneamente riaprire il dibattito. Il contributo che riportiamo vuole essere un inizio e uno stimolo per un discorso, quello dei rapporti fra pubblico e privato, che è stato per noi centrale, ma che pensiamo possa andare ancora molto avanti.
Al momento della nascita di un bambino uno dei fenomeni che ci si svolgono sotto il naso e al quale per la sua apparente ovvietà e naturalezza non si fa molta attenzione è la minuziosa ricerca da parte di amici e parenti delle «somiglianze». Non basta infatti che il bambino sia nato che si possa vedere e toccare: deve somigliare e deve «aver preso» da qualcuno. Sotto l’ovvia constatazione che il bambino ricorderà ‘nei tratti i suoi parenti passa tutt’un altro discorso: le somiglianze vengono assunte come il marchio di fabbrica che contraddistingue la cosa posseduta e vincolano a un destino di imitazione e ripetizione. Le leggi della proprietà sono ferree: un bambino non è, se non è di qualcuno; le cose nuove mettono in crisi le istituzioni e l’istituzione famiglia si difende. C’è infatti un grosso pericolo da scongiurare: che il bambino non somigli a nessuno ma che sia diverso, che cresca senza identificarsi con qualcuno senza essere per essere qualcun altro, un uomo e una donna nuovi ; suo padre può non riconoscersi in lui sua madre può non riconoscersi i’n lei «E questo è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto». La formula del battesimo e quella del marchio di fabbrica cala sulla testa del nuovo nato. La famiglia si compiace nel bambino garante della continuità dell’istituzione. I demoni da esorcizzare sono le possibilità che il bambino ha di crescere senza diventare un burattino ribelle o una marionetta obbediente ai fili del super-io (1). Bisogna affrettarsi a correre ai ripari: ci somiglia. Sono i morti che vantano diritti sul vivo. I baffi a manubrio del nonno (e lo stile di vita del nonno) non ci sono sotto il naso del neonato, ma è «come se» ci fossero — Bambini appena nati e già condannati — un’educazione basata sull’identificazione, sul modello da seguire — e guai se sgarrano — sull’orgoglio di essere l’alfiere prediletto, colui che tiene alto lo stendardo: il nome di famiglia. M loro io, piccolo, ma che può crescere e svilupparsi in rapporto con gli altri mette già così paura che deve essere annullato, buttiamoci sopra tre nonni, un paio di zie, oltre naturalmente al padre e alla madre, così stiamo tranquilli: era appena nato e l’abbiamo già seppellito. L’io del bambino viene annullato, ma il discorso non è completo se si trascura il significato dell’altra espressione del lessico familiare «Da chi ha preso». Dopo l’annullamento dell’io e della sua disposizione a desiderare il rapporto con l’altro, c’è fa trasformazione di questo desiderio in disposizione al furto e all’appropriazione. L’istituzione famiglia alza e abbassa le chiuse che fanno passare attraverso i rivoli della comunicazione quotidiana l’idea del furto e della appropriazione come connaturati all’uomo, natura della sua natura. In una società civile spetterà al la famiglia raddrizzare queste tendenze. Secondo questa formula (non uso a caso la parola formula, il dire «da chi ha preso» è veramente l’abracadabra della trasformazione annullante) ogni comportamento del bambino, ogni sua realizzazione sarà vanificata — a priori —. È appena nato e ha già morso la mela: ha preso da suo padre da sua madre, dai suoi nonni. Il senso del peccato originale e del battesimo è proprio in questo annullamento e capovolgimento alla nascita. Infatti se il bambino «ha preso» è colpevole e deve venire purificato e perdonato. Ma contemporaneamente deve venire rimesso in una società dove il furto è sancito e regolarizzato (2), non si prendono sconsideratamente le mele dagli alberi, ma ci sono dei bei riti ben officiati in sedi adatte, la conoscenza è una merce che si paga e si trova quotata sul mercato, non nasce da rapporti creativi, vissuti. D’altronde anche la madre di questo bambino «ha preso». Non aveva il pene ed era invidiosa dell’uomo che l’aveva, ha fantasticato di rubarlo e metterlo dentro di sé e ha fatto questo bambino.
L’inventario delle somiglianze è quindi l’inventario del maltolto restituito; facendo un figlio, e possibilmente maschio, si rida quello che era stato rubato, vediamo se non manca niente. Queste considerazioni ci possono illuminare sul significato profondo della biblica condanna della donna sterile (ruba e non restituisce) e sull’attuale atteggiamento verso la donna che vuol decidere autonomamente e con senso di realtà quando diventare madre. In fatti se le donne alzano la testa e rivendicano responsabilità e decisione autonoma vuol dire che non si sentono in colpa, che non ci credono più alla loro colpa storica da espiare in eterno, vuol dire mandare all’aria tutta la bella costruzione.
Non ha rubato — non si sente in colpa — non cerca la sofferenza — per espiare questa colpa — non ne esce dopo aver sofferto (partorito) ridando il frutto della colpa: ovvero il bambino — pene — mela, rubato! Viceversa il bambino che non è rubato ma che nasce da un rapporto di soddisfazione del desiderio (non di invidia con buona pace del dott. Freud) (3) non potrà più essere rimesso nel collaudato circuito: furto-colpa-espiazione-servaggio!
Infatti oggi, la madre di questo bambino che dovrebbe somigliare e identificarsi, che dovrebbe avere preso da qualcuno per perpetuare nel privato le leggi della proprietà basate sullo sfruttamento della forza-lavoro (che nella sua forma originaria è desiderio di rapporto) si ribella. La ribellione le monta dentro con il latte e spezza la vecchia disposizione ad espiare. Questa madre non ha l’orgoglio della stirpe, non ha partorito né per la causa, né per la patria, né per la famiglia. E non è neanche così auto-erotica e narcisista da pensare di stare allattando una piccola se stessa; la figlia o il figlio non le servono per amarsi. Durante i mesi di attesa quando sentiva il suo corpo trasformarsi in rapporto alle trasformazioni dei bambino dentro di lei, quando la conoscenza progrediva insieme alla percezione di stare cambiando insieme ai figlio che ancora non vedeva, si domandava spesso: «di che colore ‘avrà gli occhi?» Ma non era certo per sentirsi dire che erano gli occhi di qualcun altro, vecchi di invidia per l’abitudine a guardare pensando di aver già tutto visto prima! La possibilità d’i vedere e conoscere gli occhi del figlio è guardando avanti e non indietro; la gestazione non è un collage di foto di famiglia, la nascita è separazione. Il desiderio di conoscere gli occhi del figlio e la possibilità di riconoscerlo diverso e separato da sé, è dopo la trasformazione della nascita. Non è mio padre, mia madre, non è l’immagine speculare di me stessa, non è neanche la sintesi delle varie me stesse in divenire, è diverso, è un altro.
La madre sa che ha partorito e sa che ha potuto separarsi dal bambino che era dentro di lei, tagliando il cordone ombelicale che li univa perché le varie trasformazioni della gravidanza (la pancia che si ingrossava, i movimenti sempre più vigorosi e decisi dei feto) erano state altrettante conferme per la sua speranza di far nascere il bambino.
Averlo potuto tenere durante nove mesi, le ha confermato ia speranza di poterlo, ora, tenere fra le braccia, li ricordo delle ansie della gravidanza, superate con le conferme della speranza nel progredire della gravidanza stessa, si trasforma dopo la separazione della nascita, in conoscenza e certezza. Il vedere il bambino come è ora e ricordare la gravidanza, ciò che era prima, formano la certezza che da un rapporto nuovo possano nascerne altri ancora per le successive trasformazioni dei soggetti in rapporto. È la certezza che sostiene la prima ribellione, nel privato, alla nascita. Se a questo bambino non propongo nessuna identificazione, se mi rifiuto di pensare che so già come andrà a finire, se accetto la sua diversità soddisfacendo ad ogni incontro, ad ogni poppata il suo desiderio di sostanza, l’imperativo categorico dei dover assomigliare, per aver rubato l’essere di qualcun altro, si scioglierà come neve al sole.
(1)La citazione è presa dal titolo del libro <La marionetta e il burattino» di M. Fagioli ed. Armando. In questo libro e negli altri due dello stesso autore («Istinto di morte e conoscenza» e «Psicanaisi della nascita e castrazione umana») è portata avanti una critica radicale al concetto di identificazione, alla confusione freudiana fra invidia e desiderio e ad altri nodi gordiani della teoria psicanalitica. Ma soprattutto è scoperta e demistificata nelle sue varie forme la pulsione annullante dell’istinto di morte che tiene in piedi una visione — destinazione — dell’uomo legata al furto, all’espiazione e alla impossibilità di una ribellione creativa. Questo perché la non scoperta della pulsione annullante, non poteva far vedere il versante creativo dell’istinto di morte, cioè la possibilità di un rapporto attivo dell’uomo verso sé stesso e verso gli altri, rapporto naturale, non neutrale, ma trasformativo, per sparizione di situazioni disumane.
Della scissione tra pubblico e privato fondata sull’annullamento dell’io, che rende invisibile lo sfruttamento della forza-lavoro nella sua forma originale, cioè come capacità di desiderare il rapporto con l’altro, si parla collegandola con le attuali determinazioni storiche (dal ’68 al Referendum alla lotta per l’autoriduzione delle bollette telefoniche) che ne propongono il superamento, in tre articoli di A. Armando (Manifesto – 8-9-10 agosto 75) e inoltre sulla conoscenza come qualcosa che si può comprare al mercato, moderna versione psicanalitica della biblica storia della mela in: «Freud di fronte a Marx, ovvero la teoria della naturalità del furto, di fronte al «capitale» – cicl. non pubblicato, stesso autore.
(3) In «Enciclopedia della psicanalisi» di La planche e Pontalis – Laterza – pag. 249 alla voce: Invidia del pene: «Elemento fondamentale della sessualità femminile e molla della sua dialettica (…) Freud non limita più il concetto di invidia del pene al desiderio (!) femminile di avere un pene. In alcuni passi di Freud si riscontrano due espressioni invidia (Neid) e desiderio (Wunsch) del pene, ma senza che sia possibile stabilire tra di esse una differenza d’uso». (corsivi miei)